Di Piero
Nobili - Unità di Classe n°4 - maggio/giugno 2020
Il 7 giugno
del 1970 è una data dimenticata. In quel giorno si votò un referendum per
allontanare gli immigrati dalla Confederazione Elvetica: per soli centomila
voti il pronunciamento xenofobo fu respinto. Il referendum si scagliava in modo
particolare contro i lavoratori italiani, che a quel tempo costituivano oltre
il cinquanta per cento della popolazione straniera presente nel paese.
L’intolleranza raggiunse vette inesplorate e ogni nequizia venne imputata agli
italiani: “Insidiano le nostre figlie”, “ci rubano il lavoro”, “sanno
solo oziare”, “si muovono in gruppo, sono chiassosi e ostruiscono
i marciapiedi”. La spirale d’odio generata dal referendum arrivò persino a
coniare uno sprezzante appellativo che equiparava gli italiani ai maiali.
Quel
referendum evoca una vicenda passata che parla al presente. Un presente segnato
da un razzismo feroce, che alza i muri e chiude le frontiere di fronte alle
migrazioni epocali di questo millennio. Le parole d’ordine usate cinquant’anni
fa contro i lavoratori immigrati richiamano quelle che oggi compongono il
lessico dei movimenti sovranisti. Lo stesso slogan che contrassegnò
quell’aspra campagna referendaria contro i lavoratori italiani (“prima gli
svizzeri”) è oggi incorporato dalle forze nazionaliste nella loro trincea
eretta per fini propagandistici. Infatti, la formula “prima gli Italiani”,
“America first”, “les Français d’abord”, etc., rappresenta ad
ogni latitudine la cifra distintiva della narrazione sovranista. Medesime sono
anche le ragioni che spingono le persone a migrare, sebbene quelle odierne
abbiano caratteristiche diverse da quelle del passato. Uguali sono pure le
dinamiche sociali e politiche che, in nome del profitto, portano a vessare gli
ultimi della scala sociale. Cinquant’anni fa erano gli italiani che cercavano
fortuna all’estero a subire ostilità, discriminazione e condizioni di lavoro
improponibili, oggi invece sono i proletari di altri paesi che cercano rifugio
a patire la sferza del capitale e a subire l’astio malefico del nazionalismo
sovranista.
La
Svizzera Felix
Nella
Svizzera del secondo dopoguerra la richiesta di manodopera era alle stelle. La
forza lavoro locale non era più sufficiente: la popolazione stava invecchiando
e il tasso di attività femminile era molto basso. La florida economia elvetica,
per continuare ad agganciare la congiuntura positiva, aveva bisogno di braccia
per le sue fabbriche e le sue nuove infrastrutture, ma si scontrava con questo
dato oggettivo, aggravato anche dal fatto che sempre più giovani rifiutavano i
lavori manuali. Da qui il ricorso alla manodopera straniera, in modo
particolare a quella che proveniva dallo stivale, da sempre suo tradizionale
bacino di reclutamento. Nell’arco di vent’anni sono due milioni gli italiani
che emigrano nel paese di Guglielmo Tell. Per la maggior parte si trattava di
operai poco o per niente qualificati. Queste persone lasciavano un paese che
non riusciva a garantire una vita dignitosa a tutti. All’inizio vi giungono i
lombardi e i veneti, impiegati soprattutto nell’agricoltura e nell’edilizia;
e poi nei primi anni Sessanta è dalle regioni del meridione d’Italia che
affluisce un fiume in piena che scorre verso la Confederazione.
Nell’estate
del 1948 la Svizzera aveva siglato un patto con l’Italia per assicurarsi il
reclutamento di manodopera a buon mercato. I lavoratori vennero inquadrati in
contratti annuali o stagionali che garantivano la massima flessibilità ai
padroni rossocrociati; per loro nessuna prospettiva di cittadinanza era
prevista. Tale accordo soddisfaceva entrambi i contraenti. Per gli
imprenditori elvetici l’immigrazione serviva per un duplice motivo: da un lato
sul piano economico essa consentiva un profitto più elevato – dato il minor
costo della manodopera straniera –, e dall’altro sul piano politico essa
assolveva il compito di creare un “esercito di riserva”, col quale ricattare
la stessa classe operaia svizzera. In Italia, invece, il governo a guida democristiana
era ben contento di spingere i propri concittadini ad oltrepassare il confine,
perché in questo modo si liberava di una significativa quota di disoccupati.
Un obiettivo per nulla celato, al punto che nel 1949 lo stesso De Gasperi
arrivò ad invitare i meridionali a «partire verso le strade del mondo».
Giunti con
le valigie sdrucite tenute insieme da un giro di spago, gli emigrati si
accorgeranno presto della vita grama che li attende. Le paghe sono esigue, i
ritmi di lavoro sono esasperati, gli incidenti sul lavoro numerosi, come
quello del cantiere della diga di Mattmark dove, nell’estate del 1965, a causa
di una frana, muoiono 56 nostri operai. Alle coppie di emigranti è vietato ospitare
i propri figli, costringendo così migliaia di bambini a vivere in clandestinità;
mentre nessun forma di integrazione e di inclusione è riservata a quelli che
vengono considerati dalla legge “lavoratori temporanei”. Vietata, pure, era la
propaganda a favore del comunismo, motivo per cui in quegli anni saranno molti
i militanti del PCI espulsi dal paese a causa delle loro idee politiche.
Alloggiati in dormitori fatiscenti e vessati da un severo decalogo
comportamentale, i lavoratori italiani contribuiranno con il loro sudore alla
crescita economica di un paese che, in pochi anni, aveva quadruplicato il suo
prodotto interno lordo, ed era divenuto un paese prospero, privo di disoccupati,
e dotato di un sistema bancario che lo faceva uno dei principali centri della
finanza mondiale.
Il
referendum anti-immigrati
Nel 1964 le
autorità di Berna e quelle di Roma firmarono un nuovo accordo che emendava
quello precedente, introducendo alcuni miglioramenti. In particolare, veniva
riconosciuto il diritto al ricongiungimento familiare, e la possibilità di
cambiare lavoro dopo cinque anni di residenza in Svizzera. Sono aperture
limitate, che suscitano però il malcontento di una parte della popolazione
locale. Un’ampia porzione dell’opinione pubblica inizia a mobilitarsi contro
quello che viene ritenuto un cedimento, e la lotta contro l’Überfremdung',
l’“inforestierimento” del paese, diventa un argomento centrale del dibattito
pubblico. La crescita del sentimento xenofobo si nutre della paura dell’altro,
e rinfocola i temi identitari da sempre presenti nel paese degli orologi, del
cioccolato e del segreto bancario. Ben presto trova chi gli dà una rappresentanza
politica ed una traduzione istituzionale. È James Schwarzenbach, un rampollo
di un’importante dinastia industriale, diventato parlamentare del partito di
estrema destra Azione Nazionale: è lui a promuovere un referendum che chiede
di fissare un tetto massimo del 10% per la popolazione straniera. In nome del
diritto di “essere padroni a casa nostra” il leader populista imposta una
campagna politica livida, aggressiva, tesa a sollecitare la paura nei confronti
del diverso. In una fase di profondo mutamento, Schwarzenbach riesce a parlare
agli strati popolari agitando temi culturali ed identitari: la Svizzera è
raffigurata come un piccolo paese in procinto di perdere le proprie sicurezze
sociali. In Europa è la prima volta, dalla fine della guerra, che una
formazione politica si esprime con toni così apertamente xenofobi, chiedendo la
deportazione di trecentomila stranieri.
La campagna
referendaria sarà aspra, combattuta, contrassegnata anche da episodi di
violenza consumati a danno degli immigrati. Per il No si schiereranno gli
imprenditori, che vogliono continuare a disporre di una forza lavoro
ricattabile, le chiese e il sindacato. Ma saranno molti gli operai elvetici che
voteranno a favore di Schwarzenbach. Infatti, il pronunciamento xenofobo
risulterà maggioritario tra i quartieri operai di Zurigo, mentre il centro alto
borghese esprimerà la sua contrarietà. Una evidente e dolorosa frattura di
classe, che rivelerà il malcontento di una parte del proletariato elvetico,
disorientato dai cambiamenti repentini nella vita sociale del paese, e ancora
legato, in quel momento, agli stereotipi tradizionali della vecchia società
patriarcale.
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