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giovedì 28 settembre 2017

GIÙ LE MANI DAL NOSTRO CORPO! PER IL DIRITTO ALL’INTERRUZIONE DI GRAVIDANZA LIBERA E GRATUITA

Testo del volantino distribuito in occasione della giornata mondiale per il diritto all'aborto



Il 28 settembre è la giornata mondiale per il diritto all’aborto libero, sicuro e gratuito. Un diritto che in molti paesi del mondo è ancora negato, limitato o che, come in Italia, sta subendo frequenti attacchi. Secondo la morale borghese, chiunque – eccetto le donne stesse – si può arrogare il diritto di decidere della nostra vita al posto nostro: dalle campagne pro-fertilità promossa dal ministro Lorenzin, a quelle pro life sponsorizzate dalla Chiesa cattolica, che sul controllo del corpo delle donne costruisce una parte importante della sua ideologia.
Attraverso l’obiezione di coscienza di medici e infermieri, chiave di volta per la lobby antiabortista della destrutturazione della legge 194, si continua a rendere difficilmente praticabile, o impossibile, una scelta di autonomia. La maternità, santificata ancora oggi dai settori più retrivi e bigotti come il “naturale” destino di ogni donna, diventa quindi un terreno di battaglia contro la nostra autodeterminazione.

Le donne in tutto il mondo hanno lottato contro tutto questo, pretendiamo ora di dire basta e di avere le garanzie dei nostri diritti.

CONTRO la privatizzazione del sistema sanitario portata avanti dal sistema capitalista che taglia le spese sociali e riduce i servizi ospedalieri a vantaggio dei profitti sulla "salute".

CONTRO la collocazione delle donne in attesa di abortire nei reparti di maternità: basta con le forme di colpevolizzazione delle nostre scelte.

PER l'abolizione dell’obiezione di coscienza che costringe le donne a fare scelte illegali e rischiose. Assunzioni solo dei non obiettori.

PER il diritto all’aborto sicuro, libero e gratuito.

PER la ricostruzione dei consultori laici e autogestiti, luoghi dell'organizzazione delle donne, oltre che punti di riferimento essenziali per la contraccezione, la salute, la libera gestione dellla sessualità.

PER la diffusione della cultura anticoncezionale e di informazioni sulla pillola abortiva e per l’accesso libero e gratuito agli anticoncezionali e alla pillola abortiva.

Che la battaglia per l’autodeterminazione e per la liberazione sessuale si inscriva in una vertenza generale per la liberazione dall’oppressione patriarcale e dallo sfruttamento capitalista

Partito Comunista dei Lavoratori - Commissione contro le oppressioni di genere

mercoledì 27 settembre 2017

RILANCIARE IL MOVIMENTO STUDENTESCO

Testo del volantino nazionale preparato dalla Commissione Studenti del Partito




Sono passati circa 2 anni da quando l'allora governo Renzi cambiava l'assetto fondamentale del mondo dell'istruzione con la riforma della "Buona Scuola".
Una riforma che puntava a tutelare gli interessi dei privati (imprese e banche) a scapito del diritto allo studio, ossia l'interesse pubblico, di tutti i giovani, di potersi formare per poter affrontare al meglio la propria vita (non solo, e non tanto, lavorativa).
Solo così si può definire una riforma che apriva i finanziamenti alla scuola ai privati (che in cambio possono e vogliono dei ritorni economici), che indirizzava maggiori finanziamenti alle scuole con miglior risultati (che lo sono perché già disponevano di maggior risorse), che dava pieni poteri di gestione (premi stipendio) e di assunzione ai presidi (a scapito dei lavoratori della scuola sempre più divisi e ricattabili) e, in ultimo, ma non per importanza, che obbligava gli studenti a lavorare gratis (liceali 200 ore, tecnici e professionali 400).

E il movimento studentesco?

Non c'è da stupirsi che il governo Renzi allora, e oggi il governo Gentiloni, facciano gli interessi della borghesia (industriali e banchieri), e non dell'immensa maggioranza della popolazione (lavoratori). Non è un caso che i partiti dominanti (PD, Centrodestra e M5S) ricevano sistematicamente finanziamenti dalle grandi imprese, banche ed assicurazioni di questo paese. Come diceva un vecchio rivoluzionario tedesco (Marx): "I governi sono i comitati d'affari della borghesia"; per questo se il governo distrugge il diritto allo studio per difendere gli interessi privati (essenzialmente i profitti) della borghesia non c'è nulla di nuovo sotto al sole.
Il punto però, è che se il governo ha fatto al meglio gli interessi di chi rappresenta (borghesia), il movimento studentesco (che dovrebbe rappresentare gli interessi degli studenti) non ha fatto altrettanto. Perché la riforma poteva essere fermata: più volte nella storia (anche di questo paese) il movimento studentesco ha ottenuto grandi conquiste attraverso la lotta contro i governi, e questo grazie alla lotta radicale e di massa, fatta di assemblee, occupazioni e manifestazioni. Nulla di tutto questo è stato fatto, o per lo meno provato in questi ultimi anni in Italia. Non per colpa del destino cinico e baro, ma per responsabilità della direzione del movimento studentesco, ossia di chi lo dirige a maggioranza: i Centri Sociali tra Autonomi e Disobbedienti, e i sindacati studenteschi ultra riformisti (UDU-RdS e Uds).
Da una parte un settarismo che li porta a dividere sistematicamente le manifestazioni studentesche (magari per questioni di posizionamento) e a non intervenire nelle lotte e negli scioperi dei lavoratori (visto che "la classe operaia non esiste più", teoria di Toni Negri, massimo referente intellettuale dei Centri Sociali) congiunto ad un avventurismo che li porta a scontri mediatici con la polizia, a scapito di migliaia di giovani manifestanti impreparati di fronte alla risposta repressiva dello Stato. Dall'altra una forte impronta sindacalista, senza posizionamenti e prospettive politiche, congiunto ad un riformismo che ingabbia l'organizzazione a stare alla coda e al servizio delle classi dominanti.

Per una direzione marxista rivoluzionaria del movimento studentesco

Contro questa linea perdente bisogna lottare per una svolta nel movimento studentesco, a partire dalle manifestazioni studentesche di questo autunno. Per un movimento studentesco che lotti unitariamente (con manifestazioni unitarie) contro i governi nemici degli studenti e le loro politiche, che cerchi di arrivare alla maggioranza degli studenti (con assemblee negli istituti e nelle università) e che non sostituisca la lotta paziente, organizzata e di massa, con scontri mediatici inutili. Un movimento che sappia unire la propria lotta alla lotta del mondo del lavoro, dei lavoratori e dei disoccupati, per un cambio generale di questa società. Perché solo la rivoluzione cambia le cose. Organizzare attorno a questo programma tutti i giovani e gli studenti che lo condividono è la ragione del Partito Comunista dei Lavoratori.

PCL - Commissione Studenti

domenica 24 settembre 2017

CONTRO LE CONSULTAZIONI REAZIONARIE DI MARONI E ZAIA



I referendum del 22 ottobre in Lombardia e Veneto hanno carattere consultivo: chiedono un mandato negoziale verso il governo nazionale a favore di “una maggiore autonomia” regionale.

Il referendum del Veneto intendeva sottoporre a referendum cinque quesiti (tra cui il trattenimento in Veneto dell'80% delle tasse localmente riscosse) e in aggiunta uno specifico quesito sull'”indipendenza del Veneto”. Nel 2015 la Corte Costituzionale ha depennato quattro dei cinque quesiti, oltre a quello indipendentista, ammettendo esclusivamente il quesito più generico («vuoi che al Veneto siano attribuite ulteriori forme di autonomia?»). Zaia ha tuttavia dichiarato che, nel caso di una maggioranza di votanti sugli aventi diritto, lo Statuto regionale consente alla regione Veneto la definizione di un disegno di legge per l'autonomia.
Maroni ha un taglio più interno alla logica istituzionale di coalizione del centrodestra in vista delle imminenti elezioni regionali (non senza un elemento di contrappeso regionalista alla linea nazionalista di Salvini).
L'elemento comune è la volontà di rafforzare il potere dei "governatorati".


LA RINEGOZIAZIONE DELL'EQUILIBRIO DEI POTERI DOPO IL 4 DICEMBRE

Non siamo in presenza di una scelta secessionista. È indubbio che la frattura tra Nord e Sud si è ulteriormente approfondita negli anni della crisi, e che un settore di media borghesia del Nord-Est, molto integrato nel mercato tedesco, può essere attratto da una suggestione separatista. Ma questa è oggi un'opzione molto minoritaria nello stesso Veneto. Non ha sponde in Confindustria, impegnata sulla linea europeista, e difficilmente può aprirsi un varco nelle rappresentanze politiche del centrodestra, a fronte di una Lega che cerca lo sbarco al Sud, e di un Berlusconi che si fa garante della stabilità istituzionale presso la Merkel.

Al tempo stesso però non siamo in presenza di una pura operazione elettoralistica. Dopo il 4 dicembre, con la sconfitta del disegno centralistico-bonapartista del renzismo, si è aperta una fase di crisi istituzionale che investe anche l'equilibrio dei poteri. La riapertura di una questione federalistica è il contraccolpo del 4 dicembre. Il negoziato tra Lombardia/Veneto e governo nazionale si pone su questo sfondo.


CATALOGNA E “PADANIA”, REALTÀ E FINZIONE

Il contenuto politico e sociale dei due referendum è reazionario. Il tentativo di Maroni e Zaia di assimilarli al referendum della Catalogna è semplicemente patetico.

La Catalogna è una nazionalità reale, segnata da una riconoscibilità linguistica e culturale, storicamente oppressa dalla Spagna, al pari della nazione basca.
Il movimento indipendentista che la Catalogna esprime è un movimento democratico repubblicano contrapposto alla monarchia di Madrid, ha una radice profonda nella storia di Spagna, si intreccia con la grande rivoluzione spagnola del 1936, con l'opposizione democratica alla dittatura franchista, e oggi con tutte le principali battaglie di opposizione alle politiche dominanti. Si pensi all'enorme manifestazione di massa a Barcellona per i diritti dei migranti contro le politiche xenofobe, la più grande manifestazione sul tema in Europa.

La Lega di Salvini, Maroni e Zaia si colloca dalla parte opposta della barricata. È la rappresentanza di un settore centrale di piccola e media borghesia rapace del Nord d'Italia che, in blocco col grande capitale industriale e bancario, domina storicamente sul Meridione e sulla classe operaia. La trovata della inesistente Padania è la maschera farlocca di questa rapina.
In realtà la rivendicazione autonomista consiste nella pretesa del blocco dominante lombardo-veneto di accaparrarsi una buona fetta degli attuali residui fiscali (54 miliardi la Lombardia, 9 miliardi il Veneto) sottraendoli alle regioni più povere. Sono queste le risorse su cui Maroni e Zaia vorrebbero allungare le mani. Per favorire i cosiddetti cittadini lombardo-veneti, come recita la propaganda referendaria? No, per difendere gli interessi dei poteri forti del territorio: ridurre ulteriormente le tasse al proprio padronato, continuare a ingrassare le cliniche private, allargare i trasferimenti pubblici alle imprese locali, incrementare i propri pacchetti azionari nelle banche territoriali (truffaldine), ampliare il volume degli appalti per le grandi operazioni speculative, nutrire più in generale le proprie clientele. Il tutto continuando a colpire i servizi pubblici locali (si pensi ai tagli regionali sui trasporti) e a incrementare le imposte locali indirette.

Chi pagherebbe concretamente il conto di questa operazione “autonomista”? La classe lavoratrice, inclusi naturalmente i lavoratori lombardi e veneti. Attraverso nuovi carichi fiscali sui salari, nuovo taglio centrale dei trasferimenti ai comuni (compresi quelli lombardo-veneti), nuovi colpi a istruzione pubblica e sanità, difesa ancor più rigida della legge Fornero sulle pensioni... È questa la grande truffa del federalismo padano, già pagata dalla classe operaia negli anni 2000, e che oggi le viene rivenduta come nuova.


LA LEGA ARCHITRAVE DEL CAPITALISMO DEL NORD

Non solo. I referendum rivendicano maggiori poteri per le giunte regionali in fatto di politiche d'ordine. Cosa significa concretamente? Significa poter gestire con mano (ancor più) libera le politiche discriminatorie verso i migranti in fatto di rastrellamenti, segregazioni, respingimenti, per dirottare contro di loro la rabbia sociale. Significa poter approntare corpi regionali d'intervento per rendere immediatamente esecutivi sfratti e sgomberi di stabili occupati, a tutto vantaggio degli speculatori immobiliari e del valore di mercato delle loro proprietà. Significa garantire la... “sicurezza”: quella di chi ha tutto a spese di chi non ha nulla. Quando Salvini a Pontida ha rivendicato “mano libera per la polizia” ha alluso a questo.

Altro che forza di opposizione al sistema! La Lega è un architrave del sistema dominante della cosiddetta seconda Repubblica. È ininterrottamente, da un quarto di secolo ormai, il principale partito di governo delle due regioni del Nord che fanno da cuore pulsante del capitalismo italiano. È la forza politica egemone di un blocco sociale reazionario che subordina settori consistenti di proletariato (in particolare industriale) agli interessi dei suoi sfruttatori. I referendum di Zaia e Maroni vogliono rafforzare ricchezza e potere di questo blocco dominante, alimentando anche per via referendaria la ventata reazionaria più generale. Per di più con una sfrontata ipocrisia: la stessa Lega Nord che rispolvera la Padania contro “il ladrocinio” del Sud, nel Sud sventola oggi la bandiera nazionalista (e se serve persino neoborbonica) contro “i politici del Nord”. Il cinismo acchiappavoti di Matteo Salvini non conosce davvero alcun limite.


LA COMPLICITÀ DI PD E M5S. L'EVANESCENZA DELLE SINISTRE

Significativa è la collocazione verso i referendum delle diverse forze politiche.

Il PD nazionale tace, mentre decine di sindaci PD (Sala in testa) si schierano a favore dei referendum, e il presidente della regione Emilia Romagna (fedelissimo di Renzi) si posiziona in termini concorrenziali con un proprio progetto autonomistico.
Il M5S cavalca i referendum dentro la linea di competizione con la Lega, con la speranza di irrobustire le proprie radici nel Nord.
Le sinistre riformiste, polemiche coi referendum ma impacciate dalla propria cultura aclassista, sostengono per lo più una posizione astensionista, che però copre le più diverse politiche: o il disimpegno (“Il referendum è inutile e costoso, abbiamo altre cose a cui pensare”), o fumosi progetti alternativi (“Siamo per un vero federalismo democratico...”), oppure addirittura suggestioni nazionaliste di stampo sciovinista (“Le regioni del Nord vogliono andare con la Germania, contro la Germania difendiamo l'Italia”). Ci sono offerte, insomma, per tutti i palati, tranne che posizioni di classe.


CONTRO I REFERENDUM LEGHISTI, DALLA PARTE DEI LAVORATORI

È invece essenziale che contro il contenuto reazionario dei referendum lombardo-veneti si esprima una chiara opposizione del movimento operaio, con forme di mobilitazione attiva di tutta la sinistra politica, sindacale, associativa, di movimento. Con assemblee nei luoghi di lavoro, manifestazioni pubbliche, una campagna attiva controcorrente che chiarisca innanzitutto il punto essenziale: i referendum di Lombardia e Veneto sono contro l'intera classe operaia italiana e la popolazione povera. Mirano ad approfondire le divisioni tra gli sfruttati a esclusivo beneficio degli sfruttatori. Per questo vedono la larga convergenza, formale o informale, delle tre destre che oggi si contendono il governo del capitalismo italiano: salvinismo, grillismo, renzismo.

Contro le tre destre, anche sul terreno referendario, è necessario costruire il fronte unico della classe lavoratrice a partire dalla sua avanguardia e dalle sue organizzazioni. Per il rilancio di una vera opposizione di massa. Per un programma di lotta generale che unifichi i lavoratori del Nord e del Sud, privati e pubblici, italiani e immigrati, e attorno ad essi il blocco sociale di tutti gli oppressi, a partire dalla larga maggioranza dei giovani e delle donne.

Diciassette milioni di lavoratori salariati sono in Italia una forza enorme, la direzione naturale di una possibile maggioranza alternativa della società. Questa forza deve solo prender coscienza di sé, unire le proprie fila, organizzarsi. Le direzioni sindacali e politiche della sinistra, che hanno tradito la rappresentanza di questa classe, hanno perciò stesso consentito che essa divenisse terreno di pascolo per avventurieri e demagoghi di tutte le risme. Costruire un'altra direzione della classe lavoratrice è allora parte inseparabile, tanto più oggi, della battaglia contro la reazione.


Partito Comunista dei Lavoratori

venerdì 22 settembre 2017

«NO PASARAN!»

Per una egemonia di classe anticapitalistica nel movimento indipendentista di massa in Catalogna




Il governo spagnolo del PP di Rajoy procede manu militari contro il diritto di autodeterminazione della Catalogna: incarcerazione di funzionari, sequestro poliziesco delle schede elettorali, minaccia di procedimento giudiziario sino all'arresto di «chiunque si renda complice di un referendum illegale». Una campagna repressiva frontale che giunge a ventilare l'applicazione dell'articolo 115 della Costituzione spagnola che prevede la possibile destituzione amministrativa di governi locali e regionali per mano del governo centrale. Questa campagna vede allineata la grande borghesia di Spagna, la monarchia, l'intero apparato repressivo dello Stato, l'alta magistratura, e tutti i tradizionali partiti di governo dell'imperialismo spagnolo. A partire dal PSOE, solidale col PP, e dalla grande stampa cosiddetta democratica e progressista, come El Pais che da settimane incalza Rajoy da destra, chiedendogli di passare a vie di fatto e di imporre il rispetto della legge.

Intanto le sinistre riformiste spagnole (Izquierda Unida e Podemos), prima contrarie al referendum catalano e ora solidali con la risposta di massa alla repressione, si aggrappano alla vana speranza di un "referendum concordato" tra Catalogna e Madrid. Nei fatti Pablo Iglesias cerca di salvare la propria prospettiva di governo dell'imperialismo spagnolo a braccetto col PSOE (col dissenso maggioritario di Podemos Catalano).

Qual è la natura sociale e politica dello scontro in atto in Spagna? La confusione regna sovrana nella stessa sinistra italiana, con Il Manifesto che scomunica le “due parti”, ed altri che giungono ad assimilare il referendum indipendentista catalano ai referendum reazionario di Maroni e Zaia per la maggiore autonomia della... Padania. Nulla di più falso e ridicolo.


LA NATURA DEL NAZIONALISMO CATALANO

Certo, nel movimento nazionalista catalano, come in ogni movimento nazionalista, sono coinvolti anche interessi borghesi. La Catalogna di oggi è una regione assai sviluppata dal punto di vista capitalistico (20% del PIL statale), ed è parte dell'imperialismo spagnolo. Un settore di questa borghesia vuole l'indipendenza per incassare a proprio vantaggio il residuo fiscale di 9 miliardi oggi versato a Madrid. Il principale partito di governo della Catalogna (Convergencia Democratica) è espressione di questi interessi. Al tempo stesso la borghesia catalana è divisa. La grande impresa catalana, che dirige la Confindustria regionale, è apertamente schierata al fianco di Madrid, contro l'indipendentismo, perché i suoi interessi sono strettamente intrecciati col mercato finanziario nazionale ed europeo.

A fronte di queste contraddizioni borghesi esiste un movimento popolare indipendentista con una larga base di massa e una robusta radice nella storia spagnola. A differenza della patacca padana, la Catalogna è una nazionalità reale, con una lingua e una cultura propria, al pari della nazione basca e della nazionalità galiziana. Se oggi non si può parlare della Catalogna come nazione socialmente oppressa, si può certo riconoscere l'oppressione politica che essa subisce da parte dello Stato spagnolo e del centralismo castigliano; una oppressione che nel corso della lunga dittatura franchista era giunta a punire con la galera l'uso stesso della lingua catalana persino in privato. Il movimento nazionalista catalano ha dunque assunto storicamente una valenza democratica e progressiva in contrapposizione a Madrid. Oggi rappresenta un movimento di massa repubblicano contro la monarchia di Spagna. Il sentimento collettivo che l'accompagna, la sua cultura di riferimento, il suo immaginario politico è di natura democratica. La più grande manifestazione di massa in Europa a difesa dei diritti dei migranti e per la loro accoglienza si è svolta non a caso alcuni mesi or sono proprio a Barcellona: la base di massa dell'indipendentismo catalano è largamente sovrapposta alla base di massa di quella manifestazione. Si tratta dunque di un fenomeno non solo diverso ma del tutto opposto al leghismo referendario del Nord Italia. Tanto più in queste ore, la drammatica stretta repressiva di Madrid, la sua volgarità poliziesca, i suoi metodi franchisti, esaltano il carattere democratico della mobilitazione in Catalogna.

Come marxisti rivoluzionari siamo dunque tanto più oggi per la difesa del diritto di autodeterminazione della Catalogna, che è il suo diritto alla separazione, contro la repressione del governo centrale. “No pasaran!” gridano per le strade di Barcellona decine di migliaia di manifestanti. Facciamo nostra questa parola d'ordine.


PER UNA EGEMONIA DI CLASSE ALTERNATIVA NELLA MOBILITAZIONE INDIPENDENTISTA

Al tempo stesso non siamo nazionalisti, neppure all'interno di una nazione oppressa. Difendiamo il diritto di autodeterminazione, sosteniamo oggi la rivendicazione dell'indipendenza catalana per il suo carattere progressivo, ma riconduciamo strettamente questa rivendicazione alla prospettiva classista e socialista, contro ogni forma di subordinazione del proletariato catalano alla borghesia catalana. Rivendichiamo una Catalogna socialista nella prospettiva degli Stati uniti socialisti d'Europa.

È questa una linea profondamente diversa da quella sostenuta dalla CUP catalana (in Italia, riferimento della Rete dei Comunisti). Questa organizzazione maoista di tipo centrista ha realizzato un blocco politico con la borghesia nazionalista di Catalogna, ed è infatti parte della maggioranza di governo regionale diretta da Convergencia. Non solo vota le leggi di bilancio del governo catalano, incluse le misure di austerità (come faceva Rifondazione Comunista nella maggioranza del primo governo Prodi), ma si subordina alla direzione borghese della battaglia indipendentista. Nei fatti realizza un fronte popolare con la borghesia catalana, sotto l'egemonia di quest'ultima. Il suo obiettivo è una Repubblica di Catalogna democratica a braccetto con i partiti borghesi entro cui difendere e far avanzare i diritti sociali. L'ennesima riproposizione di una soluzione riformista, rispettosa del capitalismo, e peraltro del tutto improbabile tanto in Catalogna quanto in Spagna. L'ennesima “tappa democratica” che nel nome della transizione al socialismo subordina la classe al capitale.

È una linea subalterna molto rischiosa per le stesse ragioni dell'indipendenza catalana. Fino a quando la borghesia catalana reggerà l'urto della repressione di Madrid? La base di massa popolare del movimento probabilmente si allargherà nella lotta contro la repressione del governo centrale e della monarchia. È la dinamica di queste ore. Ma fino a quando i partiti borghesi catalani, i loro dirigenti e alti funzionari, reggeranno la minaccia della galera, il sequestro dei patrimoni, le inchieste giudiziarie di massa, il congelamento dei conti bancari? La polizia catalana dei Mossos era stata presentata dai dirigenti borghesi indipendentisti, e dalla CUP a loro rimorchio, come scudo protettivo della Catalogna, eppure sta oggi partecipando alla repressione della Guardia Civil, o non la contrasta. È possibile che la pressione di massa produca fratture (salutari) tra i Mossos, ma affidare le sorti di una battaglia democratica alle forze di polizia di uno Stato borghese, fosse pure catalano, è un potenziale suicidio. Come oltretutto dimostra l'intera storia di Spagna.

Il compito dei marxisti rivoluzionari in Catalogna è esattamente opposto. È quello di battersi per una egemonia di classe anticapitalistica sul movimento di massa, in contrapposizione a Madrid e in alternativa alle forze borghesi catalane.

La parola d'ordine del momento deve essere più che mai quello della autorganizzazione di massa indipendente dei lavoratori e dei giovani catalani, in alleanza coi lavoratori di tutta la Spagna, e in comune contrapposizione al governo di Madrid. Una autorganizzazione di massa che leghi la rivendicazione democratica dell'autodeterminazione a un proprio programma indipendente di aperta rottura con la borghesia: abolizione del debito verso le banche, nazionalizzazione delle banche, esproprio delle grandi imprese sotto controllo operaio, cancellazione del precariato, ripartizione del lavoro con la riduzione progressiva dell'orario a parità di paga. È la prospettiva di una Repubblica dei lavoratori della Catalogna, basata sulla loro organizzazione e la loro forza.

In queste ultime ore, mentre le burocrazie sindacali spagnole chiedono la “pacificazione” tra Spagna e Catalogna, cioè nei fatti la resa del movimento catalano, i portuali di Barcellona e Terragona, con i relativi sindacati locali, si sono rifiutati di ormeggiare le navi di rinforzo per la Guardia Civil inviate da Madrid e dichiarano pubblica disobbedienza a oltranza. In questo piccolo episodio vive l'autonomia di classe del proletariato catalanoe la sua possibile egemonia alternativa nel movimento indipendentista. In tutta la Spagna, e in tutta Europa, va sostenuta in ogni forma possibile la battaglia dei lavoratori catalani.

Il proletariato catalano è stato storicamente l'avanguardia del proletariato spagnolo. Ricondurlo all'altezza della sua migliore tradizione e' oggi il compito dei marxisti rivoluzionari.

Marco Ferrando

mercoledì 20 settembre 2017

12 SETTEMBRE 2017, LA PROTESTA CONTRO MACRON INVADE LE CITTÀ FRANCESI

«S'unir pour ne plus subir»





Prima giornata di sciopero nazionale al rientro in Francia contro la ulteriore distruzione del Codice del lavoro, voluta dal governo Macron con la Loi Travail XXL.
All'appello della CGT hanno risposto diversi sindacati, ovvero Solidaires, la FSU, SNES-FSU (insegnanti educazione settore pubblico), UNEF, alcune unioni dipartimentali di Force Ouvrière (la cui direzione ha scelto di non aderire), il Front Social, oltre a molteplici organizzazioni politiche, tra cui l'NPA.
Quattrocentomila e più fra lavoratori, liceali, universitari, donne, giovani dei quartieri popolari, precari e disoccupati sono scesi in piazza per denunciare apertamente l'offensiva reazionaria in atto: un pacchetto di otto ordinanze che si aggiungono agli attacchi massivi cominciati nel 2016 sotto Hollande con la Loi El Khomri (Loi Travail), prima riforma del lavoro sulla scia del Jobs act e, prima ancora, della riforma Rajoy in Spagna nel 2012.

Contro la cancellazione dei diritti sociali fondamentali acquisiti nel corso degli ultimi cinquant'anni, tantissime città sono state occupate dalla classe operaia francese, con numeri simili a quelli del 9 marzo del 2016, quando nella la prima giornata di mobilitazione nazionale contro la Loi El Khomri quattrocentocinquantamila persone davano l'inizio ad un movimento durato mesi, prova del rilancio della forza della lotta di classe.
Un movimento che ha avuto il merito di raggruppare e fare convergere vari spezzoni di classe con un unico obiettivo: rigettare l'offensiva padronale governativa.

Di queste otto ordinanze Macron, guidato dalla centrale padronale MEDEF, ha fatto il punto cardine della sua campagna elettorale presidenziale, e che ora, dopo il risultato delle legislative con il quale ha guadagnato la maggioranza quasi assoluta in parlamento, intende imporre, visto lo scarso consenso con il quale ha ottenuto questi risultati (circa il 70% dei lavoratori non lo ha votato).

Sullo sfondo: l'indebolimento dei sindacati (sempre più potere alla contrattazione aziendale; referendum padronale e dei sindacati gialli); l'austerity nell'educazione (taglio di 331 milioni dal budget dell'insegnamento superiore, introduzione della selezione all'università per un'istruzione elitaria e modellata sugli interessi degli imprese, soppressione di intere filiere, taglio dei sussidi per gli alloggi - ottantasettemila gli studenti che non trovano posto in facoltà, i "sans-fac"); la riforma della maturità (non più un titolo d'accesso diretto all'università, per l'aumento delle disparità educative e di budget tra scuole borghesi e scuole dei quartieri popolari); la riforma e il taglio dei sussidi sociali e delle pensioni (ne faranno le spese, ad esempio, i ferrovieri); lo svilimento dei contratti a tempo indeterminato con conseguente deregolamentazione dei contratti a termine (CDI per la durata di un progetto) e corrispondente soppressione dei contratti di inserzione sociale nel mercato del lavoro e nell'associativo (i "contrats aidés", contro i giovani e le fasce deboli in cerca di lavoro); la soppressione delle rappresentanze sindacali nei luoghi di lavoro; le ulteriori facilitazioni per i licenziamenti nelle imprese (forte riduzione e definizione delle indennità in caso di licenziamento illegittimo e senza giusta causa).
Per non citare il taglio di posti nel settore pubblico (120.000 posti entro fine quinquennato, 1.600 entro il 2018) e il blocco dei salari per tantissime categorie, fino all'introduzione dello stato d'emergenza nel diritto comune.

Lavoratori ricattabili, ipersfruttati e precari, giovani dei quartieri popolari e studenti privati di risorse, settori di classe più che mai a rischio. Per questo è urgente unirsi per contrattaccare, per rilanciare lo sciopero in vista ed oltre il giorno di approvazione del pacchetto di ordinanze, il 22 settembre. Per questo motivo il 21 settembre è stato convocato un altro sciopero nazionale. Tale urgenza è più che sentita nei luoghi di lavoro, nelle scuole e nelle università; non a caso la CGT Nord avvierà uno sciopero a oltranza a partire dal 21 settembre, a partire dai portuali di Le Havre, seguiti dalla logistica e trasporti, categorie in cui le federazioni di CGT e FO bloccheranno tutto dal 25 settembre.

Ci sono quindi forze che, dalla fine del movimento del 2016, hanno preso atto della situazione e della necessità di fare convergere le lotte. Settori che hanno organizzato una risposta unitaria contro una delle più feroci controriforme liberali degli ultimi tempi, come il "Front Social", che ha dato vita ad un polo operaio che riunisce militanti sindacali, politici, giovani lavoratori precari; come il CLAP - Collettivo Riders Autorganizzati Parigini; lavoratori in Deliveroo; insegnanti e studenti dei licei delle periferie organizzati in "Touche Pas Ma ZEP"; universitari e operai, ecologisti e collettivi femministi come il Collectif Femministe Révolutionnaire.
Lo scopo del coordinamento, dislocato in comitati locali, è quello di dare voce e unire i conflitti e le mobilitazioni che ogni giorno animano il paese, per respingere non solo questa riforma del lavoro filopadronale, ma tutto il suo mondo: dallo stato di emergenza, alla violenza della polizia, tutto ciò che vuole ridurre la classe operaia al silenzio, nel quadro del disegno di liberalizzazione estrema del mercato del lavoro, contro le conquiste e i diritti sociali in Francia, come nel resto d'Europa.

Il ruolo dei marxisti rivoluzionari in questo polo combattivo è stato ed è fondamentale nella costruzione e nel rilancio di una lotta a 360 gradi, non solo per il ritiro di queste manovre antisociali, ma anche nella prospettiva di un vero sciopero generale e dell'autorganizzazione generale dei lavoratori e degli studenti. Per rovesciare un sistema che getta nella miseria la nostra classe, ribadendo il ruolo del partito rivoluzionario in questo processo.


Marta Positò

mercoledì 13 settembre 2017

IL DISASTRO DI LIVORNO



La tragedia che si è verificata a Livorno nella notte tra il 9 e il 10 settembre non è stata provocata da un evento eccezionale ma da un insieme di cause che si sono sommate negli anni.

Le otto vittime e i danni causati dal disastro di Livorno non sono stati provocati da un evento eccezionale, bensì da anni e anni di scelte politiche ed economiche che hanno cambiato il volto di questa città. 

Tutto lo sviluppo urbano è avvenuto in nome del profitto. 

Dal dopoguerra ad oggi un ambiente fragile non è stato assolutamente difeso e controllato in funzione della vita dei suoi cittadini ma in funzione dello sviluppo capitalistico, sfruttando al massimo il territorio senza difendere assolutamente le sue fragilità. Per la sua delicatezza, il territorio di Livorno era stato considerato negli anni passati come un sito di interesse nazionale (SIN) e quindi soggetto a tutti gli interventi e bonifiche del caso, ma è avvenuto esattamente il contrario. Speculazioni edilizie, cementificazioni irrazionali e impianti industriali pericolosi realizzati a contatto con aree residenziali si sono succeduti a ritmo impressionante. Era un bomba ad orologeria, ed è scoppiata dopo un'estate siccitosa che sarebbe potuta servire per pulire gli argini e gli alvei dei torrenti, per la manutenzione dei tombini e o delle strade, magari dando lavoro in una città con un altissimo indice di disoccupazione. 

La tragedia ha fatto il suo corso proprio dove maggiori erano le fragilità della città. Nell'area del nuovo grande centro commerciale del Parco del Levante e la relativa colata di cemento, i bacini scolmatori del Rio Maggiore realizzati da amministrazione e privati non sono serviti a nulla. Più a monte l'area estesa per ettari e inutilizzata della discarica del Limoncino (bloccata da un'inchiesta della magistratura) ma resa impermeabile dai teloni di plastica ha amplificato la rapida discesa delle acque verso il torrente tra le colline disboscate di recente. A valle lo stesso Rio era "tombato" da decenni. 

Che dire poi del petrolchimico di Stagno, sommerso dalle acque del torrente Ugione mai messo in sicurezza contro simili eventi, che ha riversato nel terreno una quantità incalcolabile di idrocarburi? Il Rio Ardenza aveva gli argini, fino al giorno della tragedia, completamente abbandonati alla vegetazione spontanea e ai rifiuti. Intere aree della città, come quella degli orti urbani, sono tuttora preda della speculazione, con la complicità delle amministrazioni che si sono succedute, nessuna esclusa (PCI, PD, M5S).
Ma anche i governi nazionali hanno enormi responsabilità. Quando parlano di sicurezza delle città non parlano certo di salute, ambiente e territorio ma, di decoro urbano e immigrazione. Preoccupati di nascondere il volto del disagio e dell'emarginazione in nome di una borghesia sempre più brutale.
Invece del decreto Minniti serve una lotta anticapitalista all'interno di una vertenza generale, contro la barbarie del capitalismo causa principale delle tragedie come quella di Livorno. I lavoratori, i disoccupati, i giovani e gli immigrati, insieme in questi giorni dopo la tragedia, hanno dato la risposta migliore unendosi in squadre di solidarietà. 

Se il clima e l'ambiente stanno mutando a causa del capitalismo, la risposta è una sola e passa attraverso il cambiamento dello stato attuale delle cose verso il socialismo. La difesa del territorio, dell'ambiente e della salute sono punti cardine per una vertenza generale. I lavoratori sapranno farli propri.


Ruggero Rognoni - PCL Livorno

lunedì 11 settembre 2017

IL RAFFORZAMENTO DEI FASCISTI E LA NECESSITÀ DI UNA RISPOSTA CLASSISTA


La cosiddetta “marcia su Roma” di Forza Nuova annunciata per il 28 ottobre è oggetto in questi giorni di un numerosi pronunciamenti. Il PD di Renzi e Minniti si strappa le vesti con grida di scandalo e annuncia il prossimo varo della legge Fiano contro l'apologia di fascismo. Sinistra Italiana declama il rispetto della Costituzione. Civati e Rifondazione Comunista chiedono a Minniti lo scioglimento di Forza Nuova. Ogni soggetto politico del cosiddetto mondo democratico cerca il proprio utile elettorale a futura memoria in questo circo di frasi e di pose.

È il caso invece di interrogarsi seriamente sulla ripresa delle organizzazioni fasciste in Italia, sul vento che le sospinge, sulla necessaria azione di contrasto.


IL TERRENO DI PASCOLO DELLE ORGANIZZAZIONI FASCISTE

Sullo sfondo di una prolungata crisi sociale, il riflusso profondo del movimento operaio - per responsabilità delle sue direzioni politiche e sindacali - ha prodotto alla lunga contraccolpi politici seri. L'intero scenario politico italiano, oggi dominato da tre destre in competizione tra loro per la conquista del governo nazionale (renzismo, salvinismo, grillismo), è una risultante dell'arretramento della classe lavoratrice, dei suoi livelli di organizzazione, di coscienza, di rappresentanza.

Le mitologie dell'opposizione alla Casta, della sovranità dell'Italia, della cosiddetta invasione dei migranti da cui proteggere la propria sicurezza e il proprio lavoro, sono oggi il terreno di concorrenza e scavalco reciproco tra le forze politiche dominanti. La materialità dello scontro di classe è stata rimpiazzata nello spazio pubblico da una nuova linea di confine: quella tra “il popolo e i politici”, l'”Italia e l'Europa”,“gli italiani e gli stranieri”. L'immaginario di ampi settori popolari e di buona parte della stessa classe operaia è segnato da questa agenda reazionaria. Questa agenda non solo nutre il portafoglio elettorale di chi la alimenta, ma dirotta la rabbia sociale verso falsi obiettivi per impedire che si indirizzi contro il capitale, il vero responsabile di sfruttamento, miseria, migrazioni. E la pace sociale, a sua volta, concima la narrazione populista, chiudendo il cerchio a tutto vantaggio del capitalismo.

Le organizzazioni fasciste sviluppano le proprie fortune in questo contesto. Ne sono in qualche modo la propaggine estrema, ma si nutrono degli stessi ingredienti.


IL RAFFORZAMENTO DI CASAPOUND

CasaPound e Forza Nuova hanno impronte diverse, l'una di “destra sociale” (la più pericolosa), l'altra cattolico-identitaria, e sono in feroce concorrenza tra loro. Ma operano politicamente sulla medesima frontiera: l'esaltazione nazionalista e la contrapposizione ai migranti. È la frontiera di tutti i populismi reazionari, ad ogni latitudine. In Italia, negli anni della grande crisi capitalistica, prima lo sviluppo del movimento reazionario a 5 Stelle, poi l'ascesa del salvinismo lepenista, hanno in qualche modo coperto lo spazio del possibile sviluppo delle organizzazioni fasciste. Ma ora il veleno in circolazione è talmente lievitato da travalicare, in più punti, quella fragile linea di confine. Le organizzazioni fasciste sono il punto di raccolta dell'esondazione.

Naturalmente parliamo ancora di forze molto modeste. Non siamo usi alla facile retorica dell'"imminente pericolo fascista", che ha spopolato in tante stagioni e famiglie della sinistra italiana (spesso per giustificare e coprire quelle scelte di collaborazione di classe e filopadronali che a più riprese hanno spianato la strada proprio alle destre). E tuttavia occorre segnalare un fatto politico nuovo. I risultati elettorali riportati da CasaPound, e da altre liste fasciste, in diversi comuni, hanno registrato un sorprendente successo, con una tendenza di crescita relativamente omogenea. Un fatto tanto più significativo a fronte della buona salute della concorrenza salvinista e grillina. Il blocco elettorale annunciato tra le organizzazioni fasciste di CasaPound, Lealtà e Azione, Movimento Popolare in vista delle prossime elezioni politiche mira a moltiplicare questo potenziale di attrazione.

Si tratta solo di un fatto elettorale? No, c'è qualcosa di più preoccupante. Le parate militari dei fascisti di Lealtà e Azione a Milano presso il cimitero Maggiore, il successo organizzativo delle manifestazioni fasciste attorno alla memoria del Duce, il moltiplicarsi di azioni squadriste dirette contro i migranti sul territorio, misurano la crescita di un richiamo militante del fascismo presso settori di gioventù precaria e disoccupata e di piccola borghesia declassata, e assieme ad esso lo sviluppo dell'inquadramento paramilitare dell'estrema destra. Mentre l'aperta competizione tra CasaPound e Forza Nuova diventa di fatto un moltiplicatore delle iniziative squadriste.


LA LINEA DI CONFINE LUNGO CUI OPERANO I FASCISTI

Non siamo certo al livello dei pogrom, che in diversi paesi europei e in America, nel primo Novecento, videro sommosse xenofobe. Il senso comune reazionario è ancora oggi prevalentemente passivo e si esprime attraverso canali istituzionali. E tuttavia gli episodi di insofferenza sociale contro migranti in quartieri popolari della Capitale, le manifestazioni popolari in diverse cittadine del Nord “contro l'arrivo dei profughi” con relative contestazioni a sindaci e prefetti, i casi di blocchi stradali anti-rifugiati in paesini della provincia profonda, misurano nel loro insieme un rischio reale: l'avvicinarsi di una linea di confine oltre la quale il sentimento reazionario di massa può diventare azione collettiva.

Le organizzazioni fasciste operano lungo questa linea di confine. Il fatto nuovo non è costituito dalle azioni fasciste in quanto tali, e neppure dal loro numero, ma dal vento di opinione pubblica reazionaria (per quanto ancora prevalentemente passivo) in cui queste azioni operano e di cui si giovano. Le azioni dirette dei fascisti contro i migranti, con la loro cacciata da una strada, da una spiaggia, o da un'abitazione, non trovano generalmente un consenso maggioritario, però incontrano una più ampia legittimazione che in passato presso strati sociali impoveriti, incattiviti dal degrado della propria condizione e soprattutto dalla propria solitudine. A sua volta il facile successo di un'azione vigliacca contro persone disperate e indifese suscita spirito di squadra e orgoglio di organizzazione tra gli squadristi che la promuovono. È la spazzatura morale di cui si nutre il fascismo.

I fascisti lavorano in fondo a capitalizzare a proprio vantaggio, in termini elettorali e militanti, la seminagione dei populismi reazionari. Se tutti gli attori politici (Minniti, Salvini, Di Maio) seminano l'idea dell'”invasione” dei migranti - chi sfoderando poteri di polizia, chi promettendo la loro cacciata una volta al governo - i fascisti montano a cavallo di questa idea passando alle vie di fatto, ossia contrapponendo l'azione esemplare di “liberazione dagli invasori” alla pura "propaganda dei politicanti". Su questa linea mirano a conquistare e organizzare la punta estrema del sentimento xenofobo, e dove possibile delle proteste. I partiti fascisti vanno ben al di là di un generico populismo reazionario a fini elettorali. Configurano vere e proprie organizzazioni di combattimento: oggi prevalentemente contro i migranti, domani contro il movimento operaio e le sue organizzazioni.

Il sentimento popolare di frustrazione sociale, sedimentato da decenni di crisi capitalista e privato di un riferimento a sinistra, diventa dunque il brodo di coltura della destra peggiore, il suo terreno di radicamento e reclutamento combattente.


LA TRUFFA DELLE COSIDDETTE LEGGI ANTIFASCISTE

Se tutto questo è vero, l'azione antifascista non può limitarsi alla contrapposizione di valori. Deve andare alla radice della questione.

L'invocazione delle leggi contro le organizzazioni fasciste quale soluzione del problema è una pietosa ipocrisia. Le leggi contro la costituzione del partito fascista sono formalmente operanti da più di mezzo secolo (legge Scelba, 1952), e sono state successivamente estese alla xenofobia (legge Mancino, 1993). Ma ciò non ha impedito alle organizzazioni fasciste di vivere e prosperare per decenni (pensiamo al MSI), né impedisce i quotidiani comizi xenofobi di Matteo Salvini.

La verità è che la democrazia borghese è incapace di estirpare il fascismo: non solo perché l'apparato repressivo dello Stato è attraversato da mille contiguità e relazioni con i peggiori ambienti reazionari (ricordiamo i cori di polizia nel nome del Duce durante il pestaggio dei manifestanti a Genova nel 2001); ma perché il capitalismo in crisi riproduce fisiologicamente la mala pianta della reazione. Una classe borghese che non ha niente da offrire ma solo da togliere alle proprie vittime sociali non può allargare attorno a sé il consenso, ma solo anestetizzare e dirottare il malcontento. I populismi di governo e di opposizione svolgono questa funzione. Le tendenze fasciste sono l'espressione estrema di questi populismi. Si presentano come antisistema ma sono valvole di sicurezza del sistema dominante. Il suprematismo bianco dei Ku Klux Klan nuota ai confini del trumpismo, i fascisti italiani si nutrono, in ultima analisi, delle scorie di salvinismo, grillismo, renzismo.

Chiedere al ministro Marco Minniti una ulteriore legge contro i fascisti non costa nulla. Anzi, proprio il PD propone e varerà l'annunciata legge Fiano. Lo farà nello stesso momento in cui il suo ministro dell'Interno consegna i migranti agli aguzzini libici, manda la polizia contro i rifugiati eritrei, trasforma la povertà in reato, e spiega che tutto questo serve a... «garantire la tenuta democratica del Paese». Contro chi? Contro... il fascismo, naturalmente. La legge Fiano è dunque peggio di una legge inutile. È la copertura ideologica “democratica” della politica reazionaria del renzismo, la stessa che concorre a concimare il terreno di pascolo dei fascisti.


SOLO UNA POLITICA DI CLASSE PUÒ SERIAMENTE COMBATTERE IL FASCISMO

Il rilancio dell'antifascismo richiede allora l'esatto rovesciamento di questa impostazione. Dal punto di vista politico, e dal punto di vista pratico.

Non c'è rilancio dell'antifascismo fuori dal recupero, innanzitutto, di una politica di classe e anticapitalista. Liberare i lavoratori dai veleni populisti è un compito centrale di questa politica.
Per anni, gli stessi gruppi dirigenti della sinistra italiana che nei governi di centrosinistra vararono le peggiori leggi contro il lavoro, hanno finito col rimuovere, anche culturalmente, il confine di classe elementare, per coltivare il civismo progressista, il giustizialismo manettaro (pensiamo alle candidature di Di Pietro e Ingroia), il liberalismo illuminato (keynesismo). Contribuendo ad abbattere ogni linea di resistenza contro i populismi reazionari, e a sgomberare loro il terreno. Le nuove mitologie del sovranismo di sinistra in chiave "no euro", che hanno contagiato ambienti diversi della stessa avanguardia politica e sindacale, sono effetto e concausa di questa dinamica. Anche quando si presentano come alternativa.

Recuperare il punto di vista di classe è allora il bandolo della matassa della lotta contro la reazione, e contro le stesse organizzazioni fasciste.
Solo una classe che recupera la coscienza dei propri interessi, che ricostruisce e unifica la propria forza, che sviluppa la propria opposizione sociale e di massa alla classe sociale dominante, può scrollarsi di dosso i pregiudizi reazionari che hanno attecchito nella lunga stagione del riflusso, imporre un'altra agenda pubblica, e approfondire per questa via le contraddizioni interne dei blocchi sociali populisti.
Solo un programma d'azione che metta in discussione la dittatura dei capitalisti (a partire dalla ripartizione del lavoro, dall'abolizione del debito pubblico, dalla nazionalizzazione delle banche senza indennizzo per i grandi azionisti, dall'esproprio delle aziende che licenziano...) può ricomporre attorno alla classe lavoratrice l'unità di tutti gli sfruttati, recidendo alla radice le suggestioni xenofobe figlie della solitudine e della divisione.


SOLO L'AZIONE DEL MOVIMENTO OPERAIO PUÒ METTERE FUORI LEGGE I FASCISTI

In questo quadro generale l'azione militante antifascista, nella sua specificità, riacquista la propria riconoscibilità e la propria ragione. “MSI fuori legge ce lo mettiamo noi, non chi lo protegge”: con questa parola d'ordine i marxisti rivoluzionari negli anni Settanta si contrapponevano alle illusioni istituzionali di quelle organizzazioni centriste (Lotta Continua, Avanguardia Operaia, Il Manifesto) che chiedevano allo Stato lo scioglimento del MSI. In un quadro ben più arretrato, ma a maggior ragione dopo l'esperienza di mezzo secolo, si tratta di recuperare oggi le ragioni di quella battaglia contro l'eterno ritorno delle illusioni nello Stato.

Non saranno Fiano e Minniti a mettere fuori legge CasaPound e Forza Nuova, come non furono i governi democristiani a mettere fuori legge i partiti fascisti della Prima Repubblica. Ogni rafforzamento giuridico della macchina repressiva di questo Stato, quand'anche evocato contro i fascisti, sarà utilizzato un domani sul versante opposto, contro le lotte e le organizzazioni classiste e rivoluzionarie. Il fatto che Salvini e La Russa propongano oggi di “completare” la legge Fiano, aggiungendo il reato di comunismo a quello di fascismo, anticipa e chiarisce, al di là di ogni esito, le potenzialità reazionarie delle cosiddette leggi “democratiche”. Il fatto che la legge Mancino contro la xenofobia inizi ad essere usata come arma d'attacco contro l'antisionismo, e che ogni posizione alternativa sulla questione foibe venga criminalizzata come “offesa alla Nazione”, disegna la nuova frontiera dei cosiddetti reati d'opinione: inoffensivi verso i fascisti, e strumento d'attacco contro i comunisti e i diritti democratici di una battaglia controcorrente.

L'antifascismo deve porsi sul terreno della diretta azione di massa. Di fronte al moltiplicarsi di azioni squadriste va posta politicamente la necessità e legittimità dell'autodifesa. Se una fabbrica occupata, un centro sociale, una associazione di migranti, un qualsiasi presidio di lotta, diventa bersaglio di minacce fasciste, va posta la questione della sua autodifesa collettiva, con i mezzi necessari allo scopo. Non si tratta di invocare la fiducia nello Stato, ma di sviluppare l'autonomia degli sfruttati, della loro azione, coscienza, organizzazione. Se i fascisti usano la forza, la forza può essere usata contro i fascisti. Così nei confronti delle manifestazioni fasciste. Non si tratta di promuovere azioni avventuriste di piccoli gruppi. Si tratta di porre apertamente nel movimento operaio e sindacale, nelle sue organizzazioni, e in tutti i movimenti sociali del territorio interessato, la necessità di una mobilitazione ampia, unitaria, di massa che punti apertamente a bloccare le manifestazioni fasciste, con la forza collettiva della mobilitazione diretta. È la politica del fronte unico antifascista.

Fu l'esercizio della mobilitazione di massa a limitare negli anni Settanta gli spazi legali di azione del MSI e di altre organizzazioni fasciste, non certo la legge Scelba. Così non sarà la legge Fiano a impensierire i fascisti, che semmai ne trarranno un utile di immagine (in chiave vittimistica e “antisistema”); può essere solo il rilancio di una azione di classe e di massa del movimento dei lavoratori, in piena autonomia dallo Stato.


Partito Comunista dei Lavoratori

sabato 9 settembre 2017

CENTO ANNI STORIA E ATTUALITÀ DELLA RIVOLUZIONE COMUNISTA Di Marco Ferrando

A un secolo di distanza dalla vittoriosa rivoluzione bolscevica, che ha segnato  non solo il cosiddetto “secolo breve” ma l’intera storia delle classi lavoratrici, segnando la possibilità di costruzione di un mondo senza padroni, eccoci ancora a discutere di strategia e tattica per una politica rivoluzionaria, a dipanarsi tra storia e memoria, tra presente e futuro per ridare respiro alla prospettiva comunista.

A volte fischia ancora il vento: ci auguriamo che questo libro contribuisca a dargli altra forza.



giovedì 7 settembre 2017

LA CRISI COREANA CROCEVIA DELLE CONTRADDIZIONI MONDIALI

La volontà di potenza dell'imperialismo USA contro un regime staliniano grottesco




La crisi coreana misura il nuovo quadro delle contraddizioni mondiali.
Il regime dinastico nordcoreano di Kim Jong-un si regge su due pilastri: il controllo sociale sul piano interno - attraverso una autentica irregimentazione di massa - e la forza militare sul piano internazionale.
A differenza della Cina e del Vietnam, che hanno da tempo restaurato il capitalismo, la Corea del Nord conserva ancora i vecchi rapporti di proprietà non capitalistici. Il regime ha certo introdotto in anni recenti diverse riforme liberaleggianti nell'economia urbana, ha ampliato gli spazi di mercato, ha accompagnato l'emersione di nuovi settori di imprenditoria privata. Tuttavia siamo ancora ben lontani da una “via cinese” (restaurazione capitalistica dall'alto), oggi approdata ad un nuovo imperialismo. L'economia burocraticamente pianificata resta tuttora la base d'appoggio della casta regnante nordcoreana e della sua piramide assolutista.

Si tratta di un regime staliniano con caratteri insieme feroci e grotteschi: un regime sopravvissuto allo sfaldamento progressivo, nella stessa Asia, del blocco staliniano internazionale, e anche per questo sospinto ad affidare la propria salvezza allo straordinario rafforzamento della deterrenza militare. Non si tratta della follia individuale di un autocrate, ma della estrema autodifesa di un regime e, indirettamente, delle basi materiali del suo potere. L'ostentazione della risorsa nucleare è infatti il principale scudo protettivo della Corea del Nord a fronte della minaccia imperialista degli USA.


DONALD TRUMP: BONAPARTISMO E MILITARISMO IMPERIALISTA

Il regime nordcoreano mette a dura prova il nuovo corso di Donald Trump, scontrandosi frontalmente con le sue ambizioni imperialiste.
Contro ogni rappresentazione del trumpismo come inedito “isolazionismo”, la nuova presidenza USA cerca il rilancio della politica di potenza americana. La fine della ritirata americana nel mondo, la riaffermazione del primato internazionale degli Stati Uniti, la ricostruzione dei vecchi legami con gli alleati fondamentali degli USA (Israele e Arabia Saudita in Medio Oriente, Giappone e Corea del Sud in Asia) quale base d'appoggio del rilancio americano, sono tutti ingredienti del nuovo corso. "America first" non significa solamente una postura protezionista in campo economico, ma anche la rivendicazione di una politica di potenza su scala mondiale. Questa politica ha un avversario strategico: la Cina. E dispone di uno strumento fondamentale: la forza militare soverchiante degli Stati Uniti e la rivendicazione ostentata del «diritto ad usarla, a difesa degli interessi superiori della nazione». L'azione di bombardamento sugli aeroporti militari di Damasco, il rafforzamento della presenza militare americana in Afghanistan, l'escalation di minacce contro la Corea, sono l'avvio della svolta USA.

La stessa dinamica interna della presidenza Trump spinge, da un altro versante, in questa direzione.
La nuova presidenza non ha ancora trovato un punto di equilibrio con la costituzione materiale della Stato americano. Ampi settori della magistratura, dei servizi di sicurezza, del corpo diplomatico, del gotha finanziario, della grande stampa di Wall Street, mantengono una linea di scontro con la nuova amministrazione. A loro volta, lo stato di mobilitazione diffusa contro Trump di ampi strati giovanili, del movimento delle donne, del movimento antirazzista, entro una dinamica di polarizzazione politica che l'America non conosceva dai tempi del Vietnam, approfondiscono le contraddizioni interne al blocco dominante.

In questo quadro Donald Trump è sospinto ad accentuare i tratti bonapartisti del proprio governo, col classico taglio delle ali. Da un lato si libera di Bannon, l'estrema destra ideologica e suprematista, pietra dello scandalo dello staff trumpiano; dall'altro allontana gli esponenti liberal del Partito Repubblicano, subendo anche per questo un ulteriore scollamento di quell'ala dei poteri forti che inizialmente avevano fatto un'apertura di credito al nuovo presidente. Per questa via, elevatosi in qualche modo al di sopra delle contraddizioni del proprio blocco politico e sociale, Trump è costretto ad appoggiarsi su due strumenti diversi e complementari: per un verso la relazione populistica diretta con l'opinione pubblica della propria base (la politica dei tweet quotidiani), per altro verso sul potere militare dei generali del Pentagono. La presenza sempre più dominante nell'apparato di governo di personalità di estrazione militare è il riflesso di questa dinamica.
A loro volta i militari riconducono le esuberanze populiste del Presidente entro il solco di una politica di potenza “controllata”, nuovamente determinata ma non avventurista. A garanzia dell'”interesse generale” dell'imperialismo USA nel mondo.


GLI USA DI FRONTE A UN DIFFICILE BIVIO

In questo quadro complesso si pone (e si spiega) la dinamica degli avvenimenti in corso.
Donald Trump, e forse i suoi consiglieri generali, pensavano che l'invio della flotta americana verso i mari di Corea e l'intimidazione minacciosa dell'uso militare della forza («fuoco e furia come il mondo non ha mai visto»), avrebbero indotto il regime nordcoreano ad arretrare (a partire dalla rinuncia agli esperimenti missilistici), consentendo al Presidente USA senza colpo ferire una vittoria politica e d'immagine clamorosa, sul fronte interno e sul fronte internazionale. Ma i calcoli si sono rivelati sbagliati. Il regime nordcoreano non solo non abbozza, ma rilancia l'esibizione disinvolta della propria capacità nucleare. Più precisamente la propria capacità di replica distruttiva sugli alleati regionali degli USA, il Giappone e la Corea del Sud.

Cosa vuole il regime nordcoreano? Non certo la guerra, che lo vedrebbe distrutto. Ma l'accettazione internazionale della Nord Corea quale potenza nucleare. La presa d'atto internazionale di questa realtà. La rinuncia ad ogni destabilizzazione del regime. Questo è il suo obiettivo centrale.

L'amministrazione Trump si trova ora di fronte a un bivio. Assecondare le richieste di riconoscimento della Corea quale potenza atomica significherebbe confessare la propria impotenza politica agli occhi del mondo, in particolare della Cina; rivelarsi incapace di tutelare i propri alleati asiatici, innanzitutto il Giappone; e subire una sconfitta pesante anche sul piano della credibilità interna. Ma muovere un attacco militare preventivo significherebbe imboccare una via senza ritorno, non a caso sconsigliata dagli stessi esperti militari. Una guerra in Corea sarebbe difficilmente circoscrivibile, esporrebbe gli alleati degli USA (a partire dalla Corea del Sud) a rappresaglie devastanti, rischierebbe di trascinare nello scontro la stessa Cina. Da qui l'apparente vicolo cieco.

Non potendo né attaccare né arretrare, gli USA rilanciano in sede ONU la via delle sanzioni. Ma è un ricorso già formalmente varato il 5 agosto, senza effetto alcuno. La successiva minaccia di estendere le sanzioni a tutti i paesi che intrattengono rapporti con la Corea del Nord è stata ridicolizzata e respinta innanzitutto dalla Russia e dalla Cina, che sarebbero formalmente i primi danneggiati dell'operazione. La minaccia è oltretutto totalmente irrealistica: gli USA dovrebbero bloccare il proprio interscambio con la Cina, che detiene gran parte del debito americano, con un risvolto obiettivo autolesionista.


LA CINA IMPERIALISTA E LE SUE RELAZIONI CON PYONGYANG

Resta allora la forte pressione sulla Cina per il blocco dei rifornimenti petroliferi al regime nordcoreano. È una richiesta comprensibile. La Cina controlla il 90% del rifornimento energetico della Corea. Un blocco petrolifero cinese metterebbe realmente in ginocchio Pyongyang. Ma qui entra il gioco l'interesse strategico della Cina, e la complessità della sua relazione con la Corea del Nord.

La Corea del Nord è sicuramente nell'orbita di influenza cinese, e tuttavia Pechino detesta il regime di Kim Jong-un, su cui non esercita più da tempo un controllo politico diretto. Il gioco spericolato della famiglia Kim svolge un ruolo di potenziale destabilizzazione, obiettivamente nociva per gli interessi cinesi in Asia: la linea di progressiva espansione dell'influenza cinese in Asia e nel mondo (sviluppo enorme degli investimenti esteri, propria banca internazionale, conquista di terre fertili e materie prime, via della seta e relative infrastrutture...) non può essere messa a rischio dalle intemperanze incontrollabili del dittatore nordcoreano, e da guerre i premature. Per questo la Cina ha più volte provato a innescare un cambio politico interno al regime, con la defenestrazione della famiglia regnante a favore di propri interlocutori affidabili. Ma i tentativi golpisti di impronta cinese sono stati tutti sventati dagli apparati del regime, con l'annientamento dei loro promotori. Le capacità politiche di influenza cinese sul regime si sono dunque pesantemente ridotte.

Un secondo fattore, di primaria importanza, spinge la Cina alla prudenza verso Pyogyang. Un conto sarebbe un ricambio politico interno al regime (sinora fallito), altra cosa il suo crollo. La Cina non ha alcun interesse al crollo del regime nordcoreano perché questo significherebbe una riunificazione della Corea sotto il controllo USA. Un simile esito sarebbe disastroso per la Cina: cambierebbe i rapporti di forza in Asia, a vantaggio degli USA, proprio nel momento del massimo contenzioso tra la Cina e gli alleati degli USA attorno al controllo del Mar cinese meridionale e agli equilibri sul Pacifico. Per la stessa ragione una simile ipotesi è frontalmente osteggiata dalla Russia, oggi in blocco con la Cina (anche se interessata ad allargare una presenza propria in Asia, persino in termini di relazioni dirette con Giappone e Corea del Sud).

Questo contesto generale ha una duplice risultante. Da un lato rende la Cina indisponibile a estendere le sanzioni alla Corea del Nord per favorirne il crollo; dall'altro rende evidente che una guerra americana per il rovesciamento del regime nordcoreano potrebbe trascinare la Cina (e la Russia) nella guerra con gli USA, con effetti incalcolabili su scala mondiale.

Da qui la paralisi del braccio di ferro in corso e il suo primo effetto immediato: la corsa agli armamenti del Giappone e della stessa Corea del Sud. Insicuri dell'ombrello protettivo americano, incerti sulle scelte dell'alleato USA, e già da tempo minacciati dall'espansione cinese in Asia, Tokyo e Seul provvedono a fortificare i propri apparati militari. In una logica di deterrenza, ma anche all'occorrenza di possibile impiego. Dentro una dinamica di allargamento dei bilanci militari che investe ormai tutti i continenti, inclusa ultimamente l'Europa e persino la Germania.


CONTRO LE MINACCE DI GUERRA DELL'IMPERIALISMO

Come marxisti rivoluzionari rivendichiamo l'opposizione a ogni ipotesi di guerra imperialista in Corea.

Certo denunciamo la natura totalitaria del regime nordcoreano, esaltato da tante organizzazioni staliniste nel nome di un improbabile socialismo. Ma con altrettanta chiarezza diciamo che il vero scandalo non è il diritto di autodifesa della Corea del Nord dalla minaccia americana, ma la pretesa della principale potenza del mondo di decidere chi ha diritto e chi no alla propria autodifesa, la sua recita arrogante di poliziotto del mondo nel nome della democrazia. È questa la matrice del lungo ciclo di guerre imperialiste in Medio Oriente, col suo carico di orrori e distruzioni. È questa la matrice delle minacce imperialiste all'Iran e più recentemente al Venezuela. Abbiamo difeso e difendiamo ogni paese dipendente aggredito o minacciato dall'imperialismo, indipendentemente dal suo regime interno. Difenderemmo la Corea del Nord in una eventuale guerra con gli USA, tanto più in presenza in questo caso di un paese ancora segnato da rapporti di proprietà non capitalisti, nonostante e contro il regime staliniano che lo opprime. Così come su scala infinitamente più grande i marxisti rivoluzionari difesero l'URSS e i suoi rapporti di proprietà contro la Germania nazista, nonostante e contro il regime di Stalin.

Se invece la guerra di Corea si trasformasse un domani in una guerra aperta tra blocchi imperialisti, vecchi e nuovi, la posizione dei rivoluzionari dovrebbe essere quella di un disfattismo bilaterale. I lavoratori americani ed europei non hanno alcun interesse a schierarsi al fianco dell'imperialismo USA e della sua arrogante volontà di potenza. Come i lavoratori russi e cinesi non hanno alcun interesse a parteggiare per le nuove ambizioni dei propri giovani imperialismi, nel gioco di spartizione delle zone di influenza in Asia, Medio Oriente ed Africa. Su entrambi i fronti, la parola d'ordine “il nemico è in casa nostra” sarebbe l'unica vera parola d'ordine internazionalista e rivoluzionaria.

Per questa stessa ragione, sul “nostro fronte”, la mobilitazione contro le minacce di guerra dell'imperialismo USA è in ogni caso già oggi un dovere imprescindibile per tutte le organizzazioni del movimento operaio e antimperialista.

Marco Ferrando