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venerdì 28 aprile 2017

A ottant'anni dalla morte di Antonio Gramsci



Ad ottanta anni dalla morte, in seguito alla dura detenzione nelle carceri fasciste, ricordiamo Antonio Gramsci, grande dirigente rivoluzionario, cofondatore del PCd’I e capo del proletariato rivoluzionario durante la prima guerra civile del 1919-1926
Il Capitale di Marx fu usato, in Russia alla fine del XIX secolo, da alcuni intellettuali borghesi per giustificare l’inevitabilità del capitalismo in Russia, snaturando il contenuto scientifico della critica dell’economia politica, trasformandola in una teoria dello sviluppo capitalistico per negare quello che è: la teoria delle contraddizioni immanenti del capitalismo, la cui soluzione è affidata alla rottura rivoluzionaria su scala mondiale col modo di produzione del capitale e l’attuazione di una dittatura rivoluzionaria fondata sugli organismi democratici della classe salariata. La politica di subalternità del movimento operaio dell’impero zarista alla borghesia liberale era la coerente applicazione di quello stravolgimento.
La stessa operazione è stata fatta da Togliatti con Gramsci, per far passare la linea di collaborazione con la borghesia, invece di rovesciarla durante la guerra civile del 1943-45. Quest’altro stravolgimento della verità storica ha raggiunto il massimo della volgarità in quei dirigenti ex DS (oggi ex PD, e fuoriusciti in seguito a due scissioni fondando l'MDP o confluendo in SI) che alla domanda su cosa volevano conservare del loro patrimonio nel Partito Democratico, rispondono che conserverebbero Gramsci.

Antonio Gramsci è colui che fra i primi, in modo organico e creativo, nel Partito Socialista, si schierò con la teoria della rivoluzione permanente, cioè con la linea della lotta per il passaggio di tutto il potere ai soviet nell’ex impero zarista e per la linea dell’attualità della lotta rivoluzionaria per la conquista del potere nello Stato italiano e nel resto dell’Europa. Si è battuto per affermare questa linea politica contro i massimalisti e contro i riformisti. Per questo si è impegnato a fondo nella organizzazione di una frazione per condurre la lotta politica al fine di dar vita al partito marxista rivoluzionario. Nel quadro dei concetti della teoria della rivoluzione permanente, cioè della lotta rivoluzionaria per il potere, Gramsci analizzò ad esempio, dal 1919 fino al suo arresto, la lotta degli operai, dei contadini sardi e del Partito Sardo d’Azione (in questo contesto va posta la parola d’ordine della repubblica socialista degli operai, dei contadini, dei pastori e pescatori nel quadro della Federazione soviettista italiana e degli Stati uniti socialisti d’Europa, approvata al convegno clandestino di Is arenas - 26 ottobre 1924).
«Ma quello che importa notare qui è che il concetto fondamentale dei comunisti torinesi non è stato la formula magica della divisione del latifondo, ma quello dell’alleanza politica tra operai del nord e i contadini del sud per rovesciare la borghesia dal potere di Stato […] noi eravamo per la formula molto realistica e per nulla magica della terra ai contadini; ma volevamo che essa fosse inquadrata in una azione rivoluzionaria generale delle due classi alleate, sotto la direzione del proletariato industriale» (Gramsci, 1920). Perché le masse contadine alleate devono essere dirette dal proletariato rivoluzionario? La risposta a questa domanda costituisce uno dei due punti centrali della teoria della rivoluzione permanente. «L’esperienza storica dimostra che i contadini sono assolutamente incapaci di una funzione politica indipendente.» (Trotsky, 1906).

La storia delle rivoluzioni che hanno liquidato definitivamente il modo di produzione feudale e la sua ultima sovrastruttura politica (l’assolutismo) comprende le guerre contadine. Ma i contadini vengono diretti dalla borghesia urbana rivoluzionaria. È stato il governo rivoluzionario sorto dopo le due giornate insurrezionali parigine del 31 maggio e del 2 giugno 1793 a dare la terra ai contadini che la lavoravano e a fornire la truppa invincibile all’Armata repubblicana. Dove la borghesia non seppe e non volle porsi a capo di una guerra contadina, come nel Risorgimento, i risultati furono segnati profondamente dai compromessi che la borghesia del continente e delle due isole fece con le forze dell’ancien régime, il peso del Vaticano. In Sardegna, il partito angioyano si pose alla testa dei contadini ma, nel momento decisivo della “guerra civile temuta” (Efisio Luigi Pintor), scappò di fronte alle truppe controrivoluzionarie (Oristano 10 giugno 1794). La vittoria della controrivoluzione sabauda fu la causa della liquidazione dall’alto del feudalesimo in Sardegna e la più completa subordinazione della borghesia sarda alla borghesia italiana e ai diversi regimi politici susseguitisi nello stato post-unitario. Dove i contadini non hanno avuto per guida la borghesia rivoluzionaria urbana, per esempio nella Rivoluzione partenopea, diventarono la soldataglia della controrivoluzione aristocratica.

Questa particolarità dello sviluppo del capitalismo nello Stato italiano, simile alla situazione russa per la forte presenza dell’elemento contadino, imponeva come affermava Gramsci a conclusione della Tesi di Lione che:
44. Tutte le agitazioni particolari che il partito conduce e le attività che esso esplica in ogni direzione per mobilitare e unificare le forze della classe lavoratrice devono convergere ed essere riassunte in una formula politica la quale sia agevole a comprendersi dalle masse e abbia il massimo valore di agitazione nei loro confronti. Questa formula è quella del "governo operaio e contadino". Essa indica anche alle masse più arretrate la necessità della conquista del potere per la soluzione dei problemi vitali che le interessano e fornisce il mezzo per portarle sul terreno che è proprio dell’avanguardia operaia più evoluta (lotta per la dittatura del proletariato). In questo senso essa è una formula di agitazione, ma non corrisponde ad una fase reale di sviluppo storico se non allo stesso modo delle soluzioni intermedie di cui al numero precedente.
Una realizzazione di essa infatti non può essere concepita dal partito se non come inizio di una lotta rivoluzionaria diretta, cioè della guerra civile condotta dal proletariato, in alleanza con i contadini, per la conquista del potere. Il partito potrebbe essere portato a gravi deviazioni dal suo compito di guida della rivoluzione qualora interpretasse il governo operaio e contadino come rispondente ad una fase reale di sviluppo della lotta per il potere, cioè se considerasse che questa parola d’ordine indica la possibilità che il problema dello Stato venga risolto nell’interesse della classe operaia in una forma che non sia quella della dittatura del proletariato.

Riconoscendo, quindi, che anche nello Stato italiano si poneva all’ordine del giorno la lotta per la dittatura rivoluzionaria degli organismi democratici delle masse proletarie, Gramsci fu fra i primi a battersi contro i turatiani, per l’altro punto della teoria della rivoluzione permanente: «Senza il diretto appoggio statale del proletariato europeo, la classe operaia russa non potrà restare al potere e trasformare il suo dominio temporaneo in dittatura socialista durevole» (Trotsky, 1906).

Gramsci fu tra i primi nell’Europa occidentale a comprendere l’importanza assegnata da Lenin alle rivoluzioni anticoloniali nella tattica della rivoluzione socialista mondiale la cui tappa iniziale era stata la rivoluzione russa:
«In Europa, in Asia, in America, in Africa giganteggia la sollevazione popolare contro il mercantilismo e l’imperialismo del capitale che continua a generare antagonismi, conflitti, distruzione di vite e di beni, non sazio del sangue e dei disastri di cinque anni di guerra. La lotta è sul piano mondiale: la rivoluzione non può essere più esorcizzata dai democratici truffaldini né soffocata da mercenari senza coscienza» (7 giugno 1919).
Un anno dopo la linea viene ribadita, evidenziando gli effetti epocali a cui la vittoria delle rivoluzioni anticoloniali avrebbe dato luogo:
«La sollevazione coloniale può e tende a diventare un vero e proprio blocco degli Stati capitalistici dell’Europa occidentale; sottraendosi allo sfruttamento capitalistico straniero, le popolazioni coloniali priverebbero di materie prime e di viveri le borghesie industriali europee e farebbero decadere i centri di civiltà formatisi dalla caduta dell’impero romano fino ad oggi» (26 giugno 1920).

Gramsci ha combattuto contro la frazione stalinista in ascesa, a differenza di Togliatti che divenne un fedele servitore di tutte le frazioni della casta burocratica succedutesi al potere in URSS:
«Non sappiamo quale sia stata l’evoluzione di Gramsci nel corso degli undici anni di prigionia, ma possiamo affermare questo: tutta l’attività di Gramsci, tutta la sua concezione del partito e del movimento operaio si oppone in modo assoluto allo stalinismo, alle sue canagliate politiche, alle sue falsificazioni spudorate. Uno degli ultimi atti politici di Gramsci prima del suo arresto, nel 1926, è stato quello di fare approvare dall’Ufficio Politico del partito una lettera all’Ufficio Politico del partito russo chiedendo di contenersi di fronte al compagno Trotsky nei limiti di una discussione fra compagni, e di non adottare i metodi che falsificassero i problemi controversi e impedissero al partito e all’Internazionale di pronunciarsi con piena conoscenza di causa. Questa lettera fu approvata anche da Grieco (Garlandi), Camilla Ravera e Mauro Scocimarro. Ma essa fu inviata su un binario morto da Ercoli (Togliatti) che, essendo a Mosca e avendo scandagliato i destinatari, ha creduto meglio conservarla in tasca.
Possiamo affermare anche che, almeno dopo il 1931 e fino al 1935, la rottura politica e morale con il partito stalinizzato era completa. La prova è data non solamente dal fatto che durante questi anni la stampa ha messo la sordina alla campagna per la liberazione di Gramsci, ma anche il fatto che Gramsci era stato ufficialmente destituito in quanto capo del partito e che, al suo posto, era stato eretto quel clown pronto a tutto che si chiama Ercoli (Togliatti). I compagni usciti di prigione ci hanno comunicato che, da due anni, Gramsci era stato escluso dal partito, esclusione che la direzione aveva deciso di tenere nascosta almeno fino a che Gramsci fosse stato nella possibilità di parlare liberamente.
E ciò al fine di poter sfruttare la personalità di Gramsci ai suoi fini. In ogni caso, i burocrati staliniani si erano arrangiati a seppellire Gramsci politicamente prima che il regime mussoliniano non vi riuscisse fisicamente» (Pietro Tresso, dall’epitaffio per Antonio Gramsci, 14 maggio 1937).

La rottura di Gramsci col partito stalinizzato si consumò sulla sciagurata teoria staliniana del socialfascismo, che impedì ai partiti comunisti di conquistare la maggioranza della classe operaia tedesca, di sconfiggere Hitler e, nel contempo, di porre le condizioni di una lotta rivoluzionaria delle masse per la conquista del potere in Germania. Pietro Tresso e i suoi compagni proseguiranno sulla strada di Gramsci proponendo una tattica rivoluzionaria per liquidare il regime fascista alternativa a quella degli stalinizzati. Alla confusa parola d’ordine togliattiana dell’Assemblea costituente sulla base dei comitati operai e contadini, Pietro Tresso e gli altri compagni di Gramsci opposero la linea del fronte unico (III e IV congresso dell’Internazionale Comunista):
«Tra la lotta che il partito deve condurre per la instaurazione della dittatura del proletariato, e la rivendicazione d’istituti della democrazia come l’Assemblea costituente, non esiste soluzione di continuità. Né il partito può limitarsi – nel periodo che lo separa dalla lotta per il potere – ad opporre la dittatura del proletariato alla democrazia; né esso può limitarsi ad avere delle rivendicazioni democratiche parziali e isolate.
Esso dovrà incorporare nella sua politica le parole d’ordine della democrazia più ardite e condurre per queste una lotta sotto ogni punto di vista conseguente e rivoluzionario. In ciò sta l’importanza per il partito comunista di avere in questo periodo una parola d’ordine come: l’Assemblea costituente eletta con suffragio universale uguale diretto e segreto, esteso a tutti i cittadini di ambo i sessi a partire dai 18 anni.
Nel condurre la lotta per le rivendicazioni democratiche, la sola garanzia per il partito comunista di premunirsi contro tutte le deviazioni sta nel dare a questa lotta una impostazione rivoluzionaria, proletaria.
A questo fine la lotta per la Costituente dovrà unirsi da parte del partito comunista alla lotta per: 
1) l’armamento degli operai e dei contadini,
2) il controllo operaio sulla industria e sulle banche,
3) la terra ai contadini,
4) l’alleanza con l’URSS
Ciò significa che il partito comunista deve condurre una politica e nei confronti degli altri partiti che conservano una base nella classe operaia (politica del fronte unico), e nei confronti dei partiti democratici che esercitano la loro influenza sopra le masse contadine e la piccola borghesia di città (politica e rapporti di alleanza, a seconda delle circostanze, con Giustizia e libertà, il Partito Sardo d’Azione ecc.) Una tale politica esige che il partito comunista italiano faccia con la Internazionale una svolta radicale; che esso rinunci alla teoria del socialfascismo; che esso rinunci alla pratica che consiste a ‘imporre’ alla classe operaia la direzione comunista, direzione la quale invece non può che essere conquistata; che esso ritorni, in breve, alla strategia e alla tattica dei primi quattro congressi dell’Internazionale comunista applicando il fronte unico con tutte le organizzazioni operaie di massa, utilizzando in modo sistematico l’antagonismo tra partiti democratici e fascismo e i contrasti che esistono tra i partiti democratici stessi, al fine di fare del proletariato la vera guida e forza dirigente della rivoluzione italiana.» (Prospettive della rivoluzione italiana e compiti tattici del Partito Comunista – risoluzione della Nuova Opposizione Italiana, frazione del PCd'I, aderente alla Opposizione di Sinistra Internazionale, 15 luglio 1932)

A differenza di Togliatti, che ridusse la questione sarda ad “autonomia democratica non classista”, Pietro Tresso si mantenne dentro le coordinate marxiste della questione sarda poste da Gramsci:
«Oltre la questione delle minoranze nazionali, noi abbiamo avuto in Italia, dal 1919 al 1921, degli altri movimenti autonomisti e separatisti: i due movimenti più caratteristici furono il movimento siciliano e sardo. Quali furono i loro caratteri? Il movimento separatista siciliano era diretto da grandi proprietari terrieri e dalla grande borghesia siciliana. Questo movimento voleva separarsi dall’Italia non perché intendeva spezzare i legami burocratici e di dipendenza con lo Stato borghese italiano, ma perché temeva che la rivoluzione scoppiasse in Italia. La grande borghesia siciliana tentò di sfruttare il malcontento delle masse operaie e contadine di fronte all’oppressione della borghesia continentale e dello Stato italiano per dirottarli in una lotta contro la rivoluzione proletaria italiana. Il movimento autonomista e separatista sardo, al contrario, si proponeva di spezzare i legami con lo Stato italiano perché vedeva in questo l’ostacolo maggiore alle realizzazioni delle rivendicazioni sociali e culturali delle masse popolari della Sardegna. Il primo fu dunque un movimento puramente reazionario. Il secondo, al contrario, fu un movimento rivoluzionario democratico. Quale doveva essere il nostro orientamento di fronte ai due movimenti? Nel primo caso, bisognava smascherare il separatismo della grande borghesia siciliana quale nuovo modo di sfruttare le masse operaie e contadine della Sicilia. Nel secondo caso, bisognava dimostrare alle masse della Sardegna che il loro separatismo non poteva che condurli alla disfatta e che il loro destino era strettamente legato a quello del proletariato italiano. Per raggiungere questo risultato bisognava pertanto, nei due casi, dimostrare con i fatti, tanto alle masse operaie e contadine della Sicilia e quelle della Sardegna, che il proletariato difendeva realmente i loro interessi e le loro aspirazioni contro l’oppressione burocratica-militare e culturale sia dello Stato e della borghesia italiana, sia delle cricche semifeudali siciliane e sarde.» (Marxismo e questione nazionale – 1935)


Partito Comunista dei Lavoratori

giovedì 20 aprile 2017

NO ONE IS ILLEGAL – NESSUNA PERSONA E’ ILLEGALE

martedì 25 Aprile ore 14,00 corso Venezia angolo via Palestro (ingresso Giardini Pubblici)



Noi siamo la città migrante, meticcia, solidale: lavoratrici e lavoratori, studenti di scuole e università, precari, attivisti, associazioni, abitanti dei quartieri popolari, migranti e persone di seconda e terza generazione.
Viviamo sulla nostra pelle il dissolversi dei diritti del lavoro, l’erosione dei nostri redditi, le politiche urbanistiche e sociali dalle quali ogni orizzonte di giustizia sembra ormai scomparso per lasciare il posto alla criminalizzazione della povertà.
Resistiamo a una condizione di perenne insicurezza che impedisce di dare stabilità ai nostri progetti di vita: fa poca differenza che a produrla siano la disoccupazione e la precarietà, o la restrizione dei diritti alla casa e alla salute, o leggi che ci costringono alla continua lotteria dei permessi di soggiorno.
Ci vorrebbero in guerra gli uni contro gli altri, soffiando sul fuoco della nostra rabbia per disperdere le nostre energie: residenti contro immigrati, precari contro disoccupati, rifugiati contro migranti economici, regolari contro irregolari; a questo servono le politiche che, producendo zone grigie ai margini della legalità, generano paura e razzismo.
Rifiutiamo l’idea che il razzismo sia in qualche modo causato dallo scarso controllo esercitato sui migranti, e che perciò vada combattuto restringendo i diritti delle persone: al contrario, alla base del razzismo sta proprio la creazione dello spauracchio del “clandestino”, alimentata attraverso gli ostacoli al soggiorno legale e la segregazione delle persone migranti; è una tattica che conosciamo già fin troppo bene, e che ha prodotto sotto i regimi nazifascisti i peggiori massacri della storia.
Noi rigettiamo queste false contrapposizioni, perché davanti alla privazione della dignità, l’unica azione concreta è il mutuo soccorso, davanti al comune problema dell’ingiustizia, l’unica risposta efficace è la solidarietà.
Per questo lavoriamo ogni giorno per creare occasioni d’incontro e aiuto reciproco, facendo delle nostre diversità una ricchezza attraverso le attività concrete che portiamo avanti; combattiamo fascismo e razzismo non con i proclami, ma creando conoscenza e condivisione.
Con le nostre mani, col nostro impegno, abbiamo dato vita a una moltitudine di esperienze che ogni giorno praticano solidarietà concreta: associazioni culturali e di volontariato, collettivi studenteschi, comitati di quartiere, scuole d’italiano per migranti, forze sindacali, sportelli legali, palestre popolari e molto altro: siamo i promotori di un’accoglienza degna per tutte e tutti dal basso.
Ovunque in Europa in risposta a situazioni che negano la dignità nascono esperienze di auto-organizzazione che dando supporto concreto alle persone generano relazioni di solidarietà: questa è la vera resistenza ai blocchi e alle politiche xenofobe, questo l’antidoto all’insorgere di tentazioni autoritarie, tanto più forti quanto più i governi si affidano a dispositivi di controllo poliziesco e militare.
Abbiamo raccolto perciò la parola d’ordine “Nessuna persona è illegale”, lanciata dalla grande manifestazione di Barcellona del 18 febbraio, facendone la base per la nostra proposta di un’accoglienza dal basso e circolare, basata sulla reciprocità e sull’autodeterminazione e non sulla militarizzazione e sulla segregazione.
A Milano, come a Barcellona, ci mobilitiamo per denunciare l’incapacità dei governi nazionali e dell’intero sistema europeo di costruire un’accoglienza degna, per portare alla luce la solidarietà che pratichiamo con tutte le cittadine e i cittadini indipendentemente dalla loro provenienza e il nostro impegno per la costruzione di città meticce, per contrapporre alle politiche razziste e fasciste che cancellano i diritti delle persone la nostra proposta e il nostro impegno quotidiano per un’Europa solidale.
Vogliamo aprire da oggi una grande discussione pubblica sulle prospettive di un futuro fondato sul mutuo soccorso e l’arricchimento reciproco: a queste idee vogliamo dare corpo elaborando proposte di breve e lungo periodo a tutti i livelli: locale, nazionale, internazionale.
· Diciamo basta alle politiche europee ed italiane di respingimento ed esclusione: no agli accordi con dittature e paesi in guerra, che finanziano gli aguzzini e moltiplicano i morti, no alla violazione dei diritti umani negli hot spot e nei centri, denunciata tra gli altri da Amnesty International, no ai decreti Minniti che riproducono l’idea del migrante come nemico tramite la detenzione amministrativa, i rimpatri forzati, i tribunali speciali, i poteri straordinari ai sindaci.
 ·  Chiediamo libertà di movimento: vogliamo che tutte le persone siano libere di poter scegliere dove costruire la propria vita e che possano farlo in modo dignitoso; rifiutiamo perciò le strutture-ghetto e la logica razzista dei servizi riservati ai migranti, proponiamo invece che le ingenti risorse destinate al respingimento e alla segregazione siano sottratte alle mani di trafficanti, speculatori e mercanti di armi e dedicate all’accoglienza diffusa e a servizi migliori per tutte e tutti indipendentemente dalla nazionalità.
 Accogliamo l’invito a dar vita nella prossima primavera a un grande corteo come quello di Barcellona sulla base dell’assunto che nessuna persona può essere considerata illegale, sia che scappi da una guerra o da una dittatura, sia che abbandoni territori devastati dagli stessi paesi che poi la respingeranno, sia che parta alla ricerca di un futuro migliore: sfidiamo da oggi le istituzioni che si proclamano antirazziste a prendere posizione sulle politiche di respingimento e di segregazione, e soprattutto ad agire coerentemente alle proprie dichiarazioni nell’esercizio reale dei propri poteri.
Invitiamo intanto tutte le cittadine e i cittadini che come noi pensano che i diritti si allarghino se sono condivisi, che come noi credono nella solidarietà e non nella paura, a fare del prossimo 25 aprile una giornata di antirazzismo e solidarietà insieme alle persone migranti, perché la memoria sia uno strumento per riprendersi il presente e costruire il futuro.

NESSUNA PERSONA È ILLEGALE
NO ONE IS ILLEGAL
PERSONE N’EST ILLÉGAL


Naga – Cantiere – Cambio Passo – Zona 8 Solidale – Milano Senza Frontiere – Comunità Curda di Milano – Associazione Senegalesi di Milano – Convergenza delle Culture – Dimensioni Diverse – Coordinamento dei Collettivi Studenteschi – Scuola Abba Abdoul Guibre – Soy Mendel – Collettivo 20092 – Memoria Antifascista – USB Lombardia – Macao – Lambretta – Alleanza Pais Milano – Spazio di Mutuo Soccorso – Comitato degli Abitanti di San Siro – Black Panthers – CASC – Milano in movimento – PRC Milano – Eterotopia – Sinistra Anticapitalista – Accesso Cooperativa Sociale ONLUS – Partito Comunista dei lavoratori Milano

mercoledì 19 aprile 2017

Contro l'imperialismo guerrafondaio!




Testo del volantino nazionale mensile del PCL


L'intervento militare degli Stati Uniti in Siria con il bombardamento della base siriana di Shayrat, così come la dimostrazione muscolare con il bombardamento in Afganistan rappresentano la smentita nei fatti delle interpretazioni politiche che vedevano gli Stati Uniti pronti a ritirarsi da un ruolo di primo piano nello scenario mondiale sotto la leadership Trump, che in molti ambienti, persino di sinistra, veniva dipinto come il male minore, proprio nella convinzione che un ritorno isolazionista fosse una politica possibile e che questo avrebbe creato le condizioni per un diverso confronto internazionale.

La vittoria di Trump ha invece dimostrato una volta di più come in questa fase storica segnata dalla grande crisi del capitalismo, non solo si è esaurito lo spazio per ogni ipotesi riformista, ma che anche le vecchie forme della politica borghese conoscono una crisi senza precedenti. Trump ha vinto scalando il Partito Repubblicano e sulle macerie del Partito Democratico: la sconfitta di Hillary Clinton è anche il bilancio degli otto anni di Barack Obama e la misura del fallimento impietoso di tutte le illusioni riformiste che anche tanta sinistra internazionale aveva contribuito a creare intorno alla sua esperienza. Due mandati, quelli di Obama, in cui da un lato si sono salvate le banche con le risorse pubbliche e i capitalisti dell'auto con i tagli dei salari e dei diritti, mentre dall'altro milioni di proletari, studenti e giovani lavoratori conoscono il peggioramento delle loro condizioni di vita sotto forma del caro-polizze di assistenza medica lasciata alle assicurazioni private, di debiti d'onore a vita per sostenere le rette studentesche, nella cronicizzazione dell'alternanza tra disoccupazione e lavori sottopagati e senza tutele. La capitolazione di Bernie Sanders alla Clinton dopo le primarie ha vanificato la grande ricerca di una alternativa potenzialmente anticapitalista che il proletariato statunitense ha dimostrato, in controtendenza, in questi anni.

L'affermazione di Trump è dunque stata un'affermazione reazionaria, che si è nutrita della crisi di egemonia dell'establishment borghese tradizionale, ma che ha bisogno di dare continuità politica reale alla ferocia della sua campagna elettorale. L'utilizzo della bomba MOAB in Afghanistan e le minacce alla Corea del Nord sono la più recente conferma di questa direzione dell'amministrazione Trump.

La politica spericolata e cialtrona di Trump (si veda l'esito del tentativo di rimuovere la riforma sanitaria, dove si è trovato senza voti alla camera) tenta di affermare e concretizzare i suoi slogan elettorali di una rinascita di egemonia mondiale statunitense e le prove di forza con le grandi potenze rivali, a partire dalla Russia, rientrano in questo orizzonte. Gli ammiccamenti tra Trump e Putin dei mesi scorsi devono fare i conti con la cruda realtà della guerra civile siriana dove ciascuna potenza, imperialistica o locale, sfrutta la tragedia della Siria per sviluppare una propria opzione di controllo politico, militare ed economico, sul terreno del Medio Oriente o sul piano globale. La rivoluzione siriana, esplosa nel 2011 nel solco delle rivoluzioni arabe come contraddittoria ma genuina rivolta popolare contro un regime capitalista sanguinario e familistico, è progressivamente sprofondata nella spirale di una guerra civile senza più forze realmente progressive, anzi trasformandosi nell’esempio più eclatante dello scontro interborghese.

Da due angoli del mondo così apparentemente lontani, la guerra civile siriana e gli Stati Uniti a guida Donald Trump, che in quella stessa guerra civile intervengono con uomini e bombardamenti, la lezione che si deve trarre è la medesima:
Dentro la svolta d'epoca segnata dalla grande crisi del capitalismo e del riformismo, non c'è spazio storico duraturo per le vecchie forme della politica borghese né per soluzioni di compromesso. Il bivio di prospettiva storica che interroga il mondo è quello tra rivoluzione o reazione. Il ritardo della rivoluzione socialista genera mostri. La costruzione di un partito rivoluzionario internazionale che lavori ad elevare la coscienza della classe lavoratrice all'altezza di un alternativa globale di sistema è un compito quanto mai urgente e immediato.

Il Partito comunista dei lavoratori, con tutti i suoi militanti, è impegnato in ogni contesto, nazionale ed internazionale, a portare avanti questo progetto.


Partito Comunista dei Lavoratori

domenica 16 aprile 2017

Siria e Corea, il nuovo corso di Donald Trump

La “svolta” della politica estera di Trump è al centro dello scenario mondiale. L'attacco militare in Siria, la minaccia militare alla Corea del Nord, si pongono in evidente linea di continuità. 
Larga parte del commentario borghese tradizionale, ma anche gli ambienti populisti reazionari europei, si erano rappresentati la figura di Trump come quella di un politico principalmente proiettato sul mercato elettorale americano, estraneo ai grandi temi della politica internazionale, orientato alla rottura isolazionista con la tradizionale politica estera dell'imperialismo USA (inclusa la tradizione repubblicana). Le cancellerie degli imperialismi alleati, in primo luogo europei e giapponese, vedevano tutto questo con comprensibile preoccupazione. I diversi ambienti del sovranismo nazionalista come esempio luminoso. Persino alcuni settori politici e culturali (particolarmente sciagurati) del “nazionalismo di sinistra” volevano vedere nel trumpismo un lato positivo nel segno di un supposto disimpegno dal vecchio imperialismo yankee. 
I fatti si sono incaricati di dimostrare, nella forma più brutale, l'inconsistenza di queste rappresentazioni ideologiche. Da ogni versante.

I RISVOLTI POLITICI INTERNI DEL NUOVO CORSO. LA RISPOSTA ALLA CRISI DELL'IMPERIALISMO USA 

Donald Trump ha sicuramente costituito un candidato outsider, estraneo al vecchio establishment USA. Proprio la sua estraneità al vecchio potere americano ha rappresentato la principale leva della sua vittoria. Ma se Trump poteva in un certo senso vincere “da solo”, certo non poteva e non può governare “da solo” gli Stati Uniti d'America. Può governare solamente trovando un punto di equilibrio con l'insieme dell'apparato statale americano in tutta la sua articolazione e complessità interna (Federal Reserve, Pentagono, corpo diplomatico, servizi segreti, Corte Suprema, Congresso...).
I primi mesi dell'amministrazione Trump dimostrano che il punto di equilibrio non è facile. La fronda del FBI , la diffidenza della banca centrale, l'ostilità di parte rilevante della magistratura hanno rappresentato ostacoli potenti al consolidamento interno del trumpismo. Il suo blocco sociale elettorale ancora regge fondamentalmente, nonostante lo sviluppo di forme diverse di opposizione politica di massa. Ma la sconfitta clamorosa in sede parlamentare sull'abolizione della riforma sanitaria di Obama, l'invalidazione giudiziaria dei suoi famigerati decreti sull'immigrazione, la campagna anti-Trump sui rapporti ambigui con la Russia condotta da settori dei servizi e della grande stampa, hanno dimostrato alla nuova presidenza USA che governare gli Stati Uniti è cosa ben più complessa di una campagna elettorale o di una somma di tweet.
Il nuovo corso della politica estera di Trump è anche parte della ricerca di un equilibrio nuovo. Il rilancio di una politica muscolare e l'ostentazione della forza rispondono infatti a obiettivi interni molteplici. Da un lato giocano sul richiamo del consenso popolare attorno al prestigio della Nazione e del suo comandante in capo, declinando in forme nuove quella petizione nazionalista ("America First") che ha rappresentato tanta parte dell'ascesa del trumpismo. Dall'altro lato sono funzionali a ricomporre una relazione con ambienti decisivi per l'esercizio della presidenza: con l'insieme del Partito Repubblicano, a partire dal Congresso, e con l'ambiente militare del Pentagono e dei suoi alti gradi, cuore della potenza imperialista degli USA. L'emarginazione dell'ideologo di estrema destra Bannon a favore di esponenti di alta estrazione militare (ministro della Difesa Mattis, consigliere McMaster, ex capo di Stato Maggiore Mullen) accompagna non a caso il nuovo corso.
Ma il nuovo corso vuole rispondere innanzitutto alla lunga crisi di direzione politica dell'imperialismo USA nel mondo. All'esigenza di una risposta nuova alla sfida dell'imperialismo russo e soprattutto, su scala globale, dell'imperialismo cinese. L'attacco in Siria e la minaccia alla Corea del Nord sui mari del Pacifico vogliono segnare un punto di svolta. La fine della “ritirata americana” e la rivendicazione dell'egemonia USA nel mondo.

L'ATTACCO IN SIRIA: IL RIEQUILIBRIO DELLE FORZE CON MOSCA 

L'attacco in Siria ha voluto soprattutto marcare un segno di svolta della politica estera USA nello scenario mediorientale e internazionale, in rapporto all'imperialismo russo.
Il marcato indebolimento di peso e ruolo dell'imperialismo USA, dopo la disfatta delle guerre di Bush e la lunga paralisi dell'amministrazione Obama, aveva aperto il varco all'inserimento dell'imperialismo russo in Medio Oriente. Sia sul terreno della presenza militare, dove l'intervento russo ha segnato una svolta nella guerra siriana a favore di Assad (Aleppo), sia sul terreno dell'iniziativa politico-diplomatica, dove Putin aveva capitalizzato progressivamente a proprio vantaggio la crisi profonda delle tradizionali alleanze USA: ricostruendo una propria relazione diretta col regime di Erdogan, attivando un proprio rapporto diretto con lo Stato sionista d'Israele, gestendo un ruolo centrale di promozione e regia nel negoziato internazionale attorno alla “soluzione” politica della crisi siriana (negoziati di Astana).
L'attacco di Trump alla Siria esprime la volontà della nuova amministrazione USA di ribaltare questo scenario. L'attacco non prelude probabilmente ad una escalation militare americana in Siria, ma certo ha un significato politico enorme. Trump vuole dire alla Russia e a tutti gli attori della scena mediorientale che ora il gioco è cambiato; che gli USA non intendono più rassegnarsi ad una propria marginalizzazione a vantaggio di Putin; che gli USA vogliono riproporsi come grande potenza capace di ricomporre attorno alla propria forza (e alla propria determinazione ad usarla) la rete delle relazioni in Medio Oriente. A partire dall'asse speciale con lo Stato sionista e la sua attuale leadership, cui si lascia mano libera in Palestina, e che si vuole rassicurare contro l'Iran. Ma con la volontà di recuperare la relazione con l'Arabia Saudita, non a caso plaudente ai bombardamenti americani in funzione anti-iraniana; di ricostruire il rapporto con la Turchia di Erdogan, rapidamente collocatosi al fianco di Trump in funzione dei propri appetiti neo-ottomani (e dello scambio negoziale con garanzie anti-curde); di ostacolare l'avvicinamento in corso dell'Egitto alla Russia, riattivando una relazione diretta con Al-Sisi (per la prima volta ricevuto a Washington). Le ragioni dei bombardamenti USA sono rivelate in queste ore proprio dai primi effetti politici che hanno prodotto. Lo spiazzamento di Putin, che aveva realmente puntato sulla nuova amministrazione Trump, non poteva essere più clamoroso.

LA MINACCIA IMPERIALISTA ALLA COREA E IL CONTENIMENTO DELLA CINA 

Ma l'attacco di Trump in Siria non ha avuto solo una finalità mediorientale. Ha voluto produrre un segno più ampio nella politica mondiale. Trump ha voluto ricordare che l'imperialismo USA resta la principale potenza militare su scala mondiale, e che è nuovamente disponibile a usare la propria forza, ovunque occorra, nel proprio interesse nazionale. È un segnale inviato non solo alla Russia ma anche (e per alcuni aspetti) soprattutto in Asia.
L'Asia e il Pacifico sono sempre più il terreno centrale di misurazione dei rapporti di forza imperialisti su scala mondiale. È l'area continentale di più elevato sviluppo economico del pianeta, il baricentro delle rotte commerciali, ma soprattutto il terreno di ascesa della grande potenza cinese e delle sue ambizioni espansioniste. Il confronto strategico centrale con l'imperialismo cinese segna da anni la politica estera americana. Il tentativo (fallito) dell'amministrazione Obama di disimpegnarsi dal teatro mediorientale era in funzione della concentrazione delle forze (economiche e militari) sul Pacifico. Il disegno (arenato) dei grandi accordi di libero scambio con la UE (TTIP) e in Asia (TPP) era in funzione dell'isolamento della Cina e di un nuovo bilanciamento delle forze. Trump rimpiazza gli accordi di libero scambio a favore di una politica protezionista, ma sempre in funzione della contrapposizione strategica alla Cina, vera costante della politica USA. Lo stesso ammiccamento iniziale di Trump a Putin, poi radicalmente rimosso, mirava all'indebolimento della Cina. Di certo l'imperialismo USA non può mollare la centralità del Pacifico: significherebbe abbandonare ogni Paese (dal Vietnam alle Filippine di Duterte) all'egemonia cinese e compromettere le relazioni decisive con l'imperialismo giapponese. Garantire i propri alleati asiatici e la loro “sicurezza” è dunque una necessità strategica irrinunciabile per gli USA. Il nuovo corso di Donald Trump mette al servizio di questa necessità la politica delle cannoniere.
La minaccia militare USA contro la Corea del Nord si pone in questo scenario generale.

LA POSSIBILITÀ REALE DI UNA GUERRA IN COREA 
L'iniziativa militare USA non è ancora compiutamente definita. Ma non siamo in presenza di un bluff. Siamo in presenza realmente di una possibile dinamica di guerra tra USA e Corea, con eventuali riflessi di propagazione in Asia. Mai dagli anni '60 il rischio di un conflitto potenzialmente nucleare ha raggiunto una soglia tanto elevata.
Il nuovo corso dell'amministrazione Trump mira al disarmo nucleare della Corea del Nord, nel momento stesso in cui il regime dinastico nordcoreano usa e rivendica sempre più il proprio armamento nucleare come scudo protettivo e assicurazione sulla vita. Se il regime proseguirà, come annunciato, il lancio propagandistico dei propri missili nucleari, è assai probabile che l'imperialismo USA bombarderà la Corea. Se la flotta americana bombarderà la Corea, fosse pure con armi convenzionali, è possibile una replica militare coreana sulle basi militari americane dell'area, e sugli alleati asiatici degli USA (Corea del Sud e Giappone). Ciò che innescherebbe una dinamica di conflitto più ampia, potenzialmente incontrollabile. Sia dal punto di vista dei paesi coinvolti, sia dal punto di vista del livello militare del conflitto.
Naturalmente questo scenario non è l'unico possibile. L'imperialismo USA sta esercitando la massima pressione sulla Cina, grande protettore del regime nordcoreano, perché provveda a “risolvere il problema”. La Cina, dal canto suo, impegnata nella pacifica espansione della propria area d'influenza su scala mondiale, a partire dall'Asia, non ha alcun interesse a uno scontro militare in Corea. Da qui le molteplici pressioni cinesi sul regime di Kim Jong-un a favore di un suo passo indietro nel contenzioso apertosi. Ma gli strumenti di pressione di Pechino, notevoli sul piano economico (riduzione delle importazioni di carbone e delle esportazione di beni alimentari), sono limitati sul piano politico. La dinastia regnante coreana ha consolidato negli anni una propria autonomia politica dalla Cina, anche attraverso l'eliminazione fisica dei possibili interlocutori interni dell'”alleato” cinese. La Cina non sembra disporre ad oggi di proprie leve politiche con cui operare e imporre un cambio di leadership a Pyongyang. La politica interna di terrore da parte di Kim Jong-un non serve solo a proteggere il regime da ogni possibile ribellione di massa, ma anche a chiudere il varco ad ogni defezione d'apparato. La lunga resistenza alle sanzioni internazionali e alla stessa pressione cinese è la misura del successo (sinora) di questa politica.
Il regime di Kim Jong-un maschera tuttavia con le parate militari la debolezza delle proprie retrovie e le contraddizioni strutturali del paese (contraddizione tra economia pianificata e sviluppo delle venti zone speciali a economia di mercato, crescita di una nuova oligarchia interessata alla proprietà privata, espansione abnorme del mercato nero, collasso cronico della produzione agricola dopo le inondazioni degli anni '90, 41% della popolazione sotto il livello minimo di nutrizione). Sostenere i costi di una guerra con la più grande potenza del pianeta appare un impresa disperata. È possibile dunque che il regime scelga di evitare la guerra rinunciando a nuove esibizioni nucleari. Gli USA userebbero propagandisticamente questa eventualità come risultato della propria prova di forza. La Cina la sbandiererebbe come frutto della propria pressione rivendicando il primato di mezzi pacifici e l'insostituibilità del proprio ruolo diplomatico contro ogni unilateralismo USA.
Ma se la dinamica di guerra si aprirà, occorrerà misurare la sua ampiezza. Nel caso di un attacco militare americano limitato e “simbolico”, come avvenuto in Siria, non si può escludere una risposta unicamente politico-propagandista del regime in funzione della propria autoconservazione. In caso contrario, o nel caso di un'escalation dell'imperialismo USA che mettesse in gioco la sopravvivenza del regime, la Cina si troverebbe di fronte a un bivio drammatico: assistere passivamente alla sconfitta di un proprio alleato per mano americana, al rischio di una riunificazione americana delle due Coree, al mutamento dei rapporti di forza in Asia; o sostenere il proprio “alleato” al prezzo di un confronto militare potenzialmente incontrollabile, che può mettere a rischio l'intero progetto di ascesa Cinese? Di certo l'imperialismo USA non potrebbe subire passivamente ritorsioni coreane sui propri alleati asiatici, proprio nel momento in cui rivendica il proprio primato mondiale agli occhi innanzitutto della Cina.

PER UNA MOBILITAZIONE CONTRO LA GUERRA E L'IMPERIALISMO 
Vedremo gli sviluppi dello scontro nei prossimi giorni e settimane. Certo colpisce il divario drammatico tra il livello delle minacce di guerra e l'assenza di mobilitazione internazionale. È necessario da subito che tutte le forze del movimento operaio, in ogni Paese, sviluppino un'iniziativa di massa contro la guerra. Sul nostro versante, italiano ed europeo, una mobilitazione innanzitutto contro l'imperialismo USA, la più grande potenza militare del pianeta, e la sua pretesa intollerabile di riproporsi come il gendarme dell'ordine mondiale; una mobilitazione contro ogni forma di solidarietà e sostegno all'imperialismo USA da parte dell'imperialismo italiano e degli imperialismi europei. Che dopo aver fatto campagna ideologica anti-Trump sui propri fronti interni si sono tutti dichiarati “trumpisti” in occasione dell'attacco militare USA in Siria, nel nome del superiore interesse della NATO e della solidarietà atlantica.
Ma ciò che sta avvenendo in queste settimane assume un significato che va al di là del contingente. Chi credeva all'isolazionismo di Trump ha dimenticato che nessuna potenza imperialista può “isolarsi” dalla competizione mondiale. Tanto meno può farlo la più grande potenza imperialista del mondo, come del resto dimostra l'intera storia del Novecento. “America First” non solo non significa disimpegno USA dagli affari mondiali, ma rappresenta l'armatura ideologica di una nuova politica di potenza dell'imperialismo americano, la sua volontà di reagire ad ogni rischio di declassamento e alla sfida dei nuovi imperialismi. Il nuovo corso dell'amministrazione Trump, al di là delle sue motivazioni interne e dei suoi aspetti empirici, annuncia dunque una stagione nuova delle relazioni internazionali. Il rilancio dei nazionalismi imperialisti, delle guerre commerciali e valutarie, delle minacce e pratiche protezioniste, della contesa di vecchie e nuove aree di influenza, a partire dall'Asia, si accompagna al grande ritorno delle politiche di guerra. Con tutti i rischi di prospettiva, su scala storica, per il futuro stesso dell'umanità. Per questo, tanto più oggi, la mobilitazione contro la guerra è inseparabile dalla lotta per il rovesciamento del capitalismo e dell'imperialismo - di ogni imperialismo - e dalla lotta per la rivoluzione socialista internazionale. L'unica vera alternativa alla barbarie.


Marco Ferrando

sabato 15 aprile 2017

ALITALIA: IL NUOVO CAPITOLO DI UN'AGGRESSIONE AL LAVORO



Nuovo capitolo della vicenda Alitalia. Nuova operazione di ristrutturazione aziendale sulla pelle di chi lavora. Nuova regalia di soldi pubblici ai capitalisti.

Nel 2008, a seguito di un durissimo scontro sindacale, governo Berlusconi e burocrazie sindacali imposero la privatizzazione della compagnia di bandiera. Una parte della società (la bad company) fu accollata coi suoi debiti alla gestione commissariale, cioè all'erario pubblico. L'altra parte, liberata da una grande massa di lavoratori e lavoratrici e dei loro diritti sindacali (e contrattuali), fu venduta a una cordata di banchieri e capitalisti tricolori, capitanata da Roberto Colaninno (la Cai). Questa soluzione fu presentata da governo e burocrazie confederali come premessa del futuro rilancio. Una parte del sindacalismo di base (SdL, futura USB), pur critica, rinunciò alla lotta. Solo la CUB, e al suo fianco il nostro partito, ingaggiò una opposizione reale all'accordo, attorno alla parola d'ordine della nazionalizzazione dell'azienda sotto il controllo dei lavoratori. Ma il boicottaggio degli altri sindacati (e l'indifferenza delle sinistre) chiuse ogni varco.

I fatti hanno dimostrato che quel pesantissimo accordo antioperaio non solo comportò un drastico peggioramento delle condizioni di vita e di lavoro di chi rimaneva, ma era del tutto incapace di “rilanciare” l'azienda. Tra il 2012 e il 2014 la crisi della cordata capitalistica italiana, nonostante il sostegno di enormi risorse pubbliche, precipitò ininterrottamente. La compagnia fu salvata dal capitale finanziario degli Emirati Arabi Uniti, attraverso l'ingresso della loro compagnia di bandiera (Etihad) col 49% delle azioni. Anche in questo caso nuove restrizioni e sacrifici per i lavoratori quale merce di scambio per l'ingresso del capitale arabo. Anche in questo caso mirabolanti annunci circa il salvataggio “definitivo” e il rilancio della compagnia. Il governo Letta e il PD furono i massimi alfieri dell'operazione di propaganda.

Ma i fatti ancora una volta hanno dimostrato l'ipocrisia degli attori. La nuova gestione Montezemolo si rivelò fallimentare. L'obiettivo di tornare in utile nel 2017 si tradusse nel passaggio da 199 milioni di perdite annue a ben 400 milioni di perdite. Da qui il nuovo intervento del governo Renzi e poi di Gentiloni per l'ennesimo salvataggio della compagnia, sotto la dettatura di creditori ed azionisti. Le grandi banche italiane di sistema - Banca Intesa e Unicredit - hanno condizionato il proprio "soccorso" al varo dell'ennesimo piano di lacrime e sangue contro i lavoratori: un nuovo pesante abbattimento di posti di lavoro (tra esuberi e mancato rinnovo dei contratti a termine) in una azienda che dal 2004 ad oggi è già passata da 22.000 dipendenti a 13.000; un nuovo aumento dei carichi di lavoro per il personale navigante; una ulteriore riduzione degli stipendi, incluse le indennità di missione; una riduzione delle ferie annuali; un salario dimezzato per i nuovi assunti. Il governo copre il tutto con una manciata di mini-ammortizzatori.

Come ogni volta, tutti i protagonisti, vecchi e nuovi, annunciano la buona novella (pasquale) della resurrezione di Alitalia. Come ogni volta mentono. Non a caso la stessa stampa borghese parla già di una soluzione ponte di due anni in attesa di una possibile vendita della compagnia a Lufthansa. La quale, inutile dirlo, porrà a sua volta le proprie condizioni d'acquisto in fatto di tagli al lavoro e ai salari. Sino a quando? Da qui il nostro no all'accordo siglato, nelle assemblee e nel referendum annunciato.

Ma la vicenda richiama considerazioni più generali, che vanno alla radice del problema. In realtà le vecchie compagnie tradizionali di bandiera sono vittima in tutto il mondo della liberalizzazione del mercato della mobilità aerea. La moltiplicazione delle compagnie low cost, che praticano tariffe stracciate anche grazie a privilegi fiscali e alla privazione dei diritti sindacali, ha trascinato una competizione selvaggia per l'abbattimento del costo del lavoro nelle compagnie aeree. Ciò che spesso si traduce (come nel sistema ferroviario) in riduzione di manutenzione e sicurezza anche per i viaggiatori. Ma l'aspetto meno noto è che questa libertà del mercato, celebrata come somma virtù dalla cultura dominante, è foraggiata da risorse pubbliche infilate nel portafoglio di tutti gli azionisti privati. Così, se lo Stato italiano, secondo calcoli di Mediobanca, avrebbe pagato quasi otto miliardi i ripetuti salvataggi delle compagnie private Alitalia negli ultimi dieci anni, le compagnie low cost come Ryanair ricevono complessivamente centinaia di milioni di risorse pubbliche da parte di Regioni e Comuni, attraverso le quali possono concorrere con Alitalia e piegarla. È il caso di dire che lo Stato borghese è davvero il rappresentante dell'interesse generale dei capitalisti, al di là dei confini di bandiera e di compagnia, nella loro guerra di tutti contro tutti per la massimizzazione dei profitti. Una guerra scaricata in primo luogo sui lavoratori.

Una volta di più si conferma che la nazionalizzazione senza indennizzo e sotto il controllo dei lavoratori dell'azienda Alitalia e di tutto il trasporto aereo è l'unica via per salvare le condizioni dei lavoratori (e degli utenti) dagli effetti del mercato capitalistico, riorganizzando alla radice il trasporto aereo come trasporto pubblico al servizio esclusivo della collettività, secondo un piano razionale.

Solo un governo dei lavoratori e delle lavoratrici potrà realizzare questa misura di svolta.


Partito Comunista dei Lavoratori

mercoledì 12 aprile 2017

No alla parata nazifascista al Campo 10 – Portiamo un fiore al partigiano




Da troppo tempo a Milano si assiste al preoccupante ripetersi di manifestazioni e iniziative promosse da organizzazioni neofasciste e neonaziste.

Da qualche anno, nella giornata del 25 aprile, consacrata alle celebrazioni della Liberazione, il Cimitero Maggiore di Milano è divenuto teatro di parate nazifasciste che si concludono al campo 10 dove sono sepolti volontari italiani delle SS, delle brigate nere, della x Mas, oltre a protagonisti della storia del ventennio fascista e della Repubblica di Salò.


La manifestazione nazifascista promossa proprio nella ricorrenza della Liberazione dal regime fascista e dall’occupazione nazista, rappresenta una gravissima provocazione per Milano Città Medaglia d’Oro della Resistenza e per i Combattenti per la Libertà ai quali è stato dedicato nello stesso Cimitero Maggiore di Milano, il Campo della Gloria.


La Milano antifascista non può più tollerare questa inaccettabile ferita e oltraggio alla Memoria di chi ha sacrificato la propria giovane vita per la nostra libertà e per la costruzione di un mondo migliore.
Un gruppo eterogeneo di soggettività antifasciste si mobiliterà il 25 aprile per impedire che questo scempio abbia luogo

.
Ci rivolgiamo anche alle istituzioni, alle pubbliche autorità, a partire dal Sindaco di Milano, perché intervengano per impedire lo svolgimento di questa ignobile parata che si ripete ormai da qualche anno nella giornata del 25 aprile.


Manifestazione in aperta violazione dei principi della Costituzione repubblicana nata dalla Resistenza e delle leggi Scelba e Mancino.


Chiamiamo i milanesi a partecipare numerosi alla mobilitazione promossa dall’ANPI della Zona 8 e dalle Associazioni democratiche e antifasciste la mattina del 25 aprile al Cimitero Maggiore, per ribadire che questi sfregi sono intollerabili.


Nel corso della nostra iniziativa porteremo un fiore ai partigiani sepolti al Campo 64, il Campo della Gloria del Cimitero Maggiore.


PROMUOVONO
Anpi Zona 8 – ANPI Provinciale di Milano – Aned diMilano – Arci – Camera del Lavoro Metropolitana di Milano -Coro Resistente – Fiom Cgil Milano- Memoria Antifascista – Osservatorio democratico sulle nuove destre – Rete della Conoscenza Milano – Csoa Lambretta – ZAM – Cs Cantiere
Media partner Radio Popolare


PER INFO E ADESIONI
portaunfiore2017@gmail.com



Adesioni:
Partito Comunista dei lavoratori di Milano
Comitato Lombardo Antifascista
Partito della Rifondazione Comunista di Milano
Sinistra Italiana Milano
Possibile – Milano
I Sentinelli di Milano
Comune di Mezzago

sabato 8 aprile 2017

No All'attacco Militare Dell'imperialismo Usa In Siria



Ancora una volta l'imperialismo Usa interviene militarmente nel mondo. Noi non possiamo sapere chi è il responsabile del nuovo massacro sui civili con l'uso dei gas. Se cioè esso rappresenta un nuovo crimine del regime di Assad o se sono stati colpiti dei depositi di armi dei ribelli. Non è questo il punto. Gli Usa, i responsabili nel mondo e in Siria stessa dei peggiori massacri di civili, si ergono nuovamente a poliziotti del globo in funzione dei propri interessi reazionari. Trump cerca di affermare e rendere concreti i suoi slogan elettorali sulla rinascita di una egemonia totale Usa; e vuole lanciare un messaggio alle grandi potenze concorrenti, in primis la Russia, con cui la "luna di miele" degli scorsi mesi entra in crisi, e alle potenze minori, nemici strategici, come Corea del Nord e Iran. In realtà le varie potenze imperialiste e i minori potentati locali, come Turchia e Arabia Saudita utilizzano la realtà tragica della Siria e della sua guerra civile per sviluppare le loro opzioni di controllo politico, militare ed economico, sul terreno del Medio Oriente o sul piano globale.

La rivoluzione Siriana, nata nel 2011, nell'ambito delle rivoluzioni arabe, come genuina, anche se contraddittoria, progressiva ribellione popolare contro un regime capitalista familistico oppressivo e sanguinario, si è progressivamente trasformata in una guerra civile senza forze realmente progressive. Questo si è verificato in particolare nell'ultima fase. Se le forze islamiste radicali sono state fin dall'inizio una non alternativa, se non peggiore, al regime di Assad, oggi l'Esercito Libero Siriano si è trasformato in uno strumento della politica turca e le Forze Democratiche Siriane (basate essenzialmente sui/le combattenti curd@) hanno capitolato, sia pure per interesse proprio, all'imperialismo Usa, combattendo fianco a fianco coi suoi marines e forze speciali. Nessuna delle forze in campo merita il sostegno, fosse puro critico, come in passato, del proletariato internazionale.

Fermo restando il sostegno alle resistenze popolari locali nella difesa contro pulizie etniche e/ o religiose i maxisti rivoluzionari non si schierano con nessuno dei contendenti nel macello siriano.
Solo la nascita di una direzione alternativa, basata su una prospettiva di pace con giustizia e rispetto per tutte le comunità, cioè una forza socialista e rivoluzionaria può creare le condizioni di uno sviluppo positivo della situazione siriana. Fino ad allora o se tale nascita non si verificherà la Siria resterà un mattatoio, utilizzato dalle grandi e piccole potenze per lo sviluppo dei loro rapaci interessi. Che sono la ragione reale dell'ultimo intervento militare imperialista degli Usa.


Partito Comunista dei Lavoratori