Ad ottanta
anni dalla morte, in seguito alla dura detenzione nelle carceri fasciste, ricordiamo
Antonio Gramsci, grande dirigente rivoluzionario, cofondatore del PCd’I e capo
del proletariato rivoluzionario durante la prima guerra civile del 1919-1926
Il Capitale di
Marx fu usato, in Russia alla fine del XIX secolo, da alcuni intellettuali
borghesi per giustificare l’inevitabilità del capitalismo in Russia, snaturando
il contenuto scientifico della critica dell’economia politica, trasformandola
in una teoria dello sviluppo capitalistico per negare quello che è: la teoria
delle contraddizioni immanenti del capitalismo, la cui soluzione è affidata
alla rottura rivoluzionaria su scala mondiale col modo di produzione del
capitale e l’attuazione di una dittatura rivoluzionaria fondata sugli organismi
democratici della classe salariata. La politica di subalternità del movimento
operaio dell’impero zarista alla borghesia liberale era la coerente
applicazione di quello stravolgimento.
La stessa operazione è stata fatta da Togliatti con Gramsci, per far passare la linea di collaborazione con la borghesia, invece di rovesciarla durante la guerra civile del 1943-45. Quest’altro stravolgimento della verità storica ha raggiunto il massimo della volgarità in quei dirigenti ex DS (oggi ex PD, e fuoriusciti in seguito a due scissioni fondando l'MDP o confluendo in SI) che alla domanda su cosa volevano conservare del loro patrimonio nel Partito Democratico, rispondono che conserverebbero Gramsci.
Antonio Gramsci è colui che fra i primi, in modo organico e creativo, nel Partito Socialista, si schierò con la teoria della rivoluzione permanente, cioè con la linea della lotta per il passaggio di tutto il potere ai soviet nell’ex impero zarista e per la linea dell’attualità della lotta rivoluzionaria per la conquista del potere nello Stato italiano e nel resto dell’Europa. Si è battuto per affermare questa linea politica contro i massimalisti e contro i riformisti. Per questo si è impegnato a fondo nella organizzazione di una frazione per condurre la lotta politica al fine di dar vita al partito marxista rivoluzionario. Nel quadro dei concetti della teoria della rivoluzione permanente, cioè della lotta rivoluzionaria per il potere, Gramsci analizzò ad esempio, dal 1919 fino al suo arresto, la lotta degli operai, dei contadini sardi e del Partito Sardo d’Azione (in questo contesto va posta la parola d’ordine della repubblica socialista degli operai, dei contadini, dei pastori e pescatori nel quadro della Federazione soviettista italiana e degli Stati uniti socialisti d’Europa, approvata al convegno clandestino di Is arenas - 26 ottobre 1924).
«Ma quello che importa notare qui è che il concetto fondamentale dei comunisti torinesi non è stato la formula magica della divisione del latifondo, ma quello dell’alleanza politica tra operai del nord e i contadini del sud per rovesciare la borghesia dal potere di Stato […] noi eravamo per la formula molto realistica e per nulla magica della terra ai contadini; ma volevamo che essa fosse inquadrata in una azione rivoluzionaria generale delle due classi alleate, sotto la direzione del proletariato industriale» (Gramsci, 1920). Perché le masse contadine alleate devono essere dirette dal proletariato rivoluzionario? La risposta a questa domanda costituisce uno dei due punti centrali della teoria della rivoluzione permanente. «L’esperienza storica dimostra che i contadini sono assolutamente incapaci di una funzione politica indipendente.» (Trotsky, 1906).
La storia delle rivoluzioni che hanno liquidato definitivamente il modo di produzione feudale e la sua ultima sovrastruttura politica (l’assolutismo) comprende le guerre contadine. Ma i contadini vengono diretti dalla borghesia urbana rivoluzionaria. È stato il governo rivoluzionario sorto dopo le due giornate insurrezionali parigine del 31 maggio e del 2 giugno 1793 a dare la terra ai contadini che la lavoravano e a fornire la truppa invincibile all’Armata repubblicana. Dove la borghesia non seppe e non volle porsi a capo di una guerra contadina, come nel Risorgimento, i risultati furono segnati profondamente dai compromessi che la borghesia del continente e delle due isole fece con le forze dell’ancien régime, il peso del Vaticano. In Sardegna, il partito angioyano si pose alla testa dei contadini ma, nel momento decisivo della “guerra civile temuta” (Efisio Luigi Pintor), scappò di fronte alle truppe controrivoluzionarie (Oristano 10 giugno 1794). La vittoria della controrivoluzione sabauda fu la causa della liquidazione dall’alto del feudalesimo in Sardegna e la più completa subordinazione della borghesia sarda alla borghesia italiana e ai diversi regimi politici susseguitisi nello stato post-unitario. Dove i contadini non hanno avuto per guida la borghesia rivoluzionaria urbana, per esempio nella Rivoluzione partenopea, diventarono la soldataglia della controrivoluzione aristocratica.
Questa particolarità dello sviluppo del capitalismo nello Stato italiano, simile alla situazione russa per la forte presenza dell’elemento contadino, imponeva come affermava Gramsci a conclusione della Tesi di Lione che:
44. Tutte le agitazioni particolari che il partito conduce e le attività che esso esplica in ogni direzione per mobilitare e unificare le forze della classe lavoratrice devono convergere ed essere riassunte in una formula politica la quale sia agevole a comprendersi dalle masse e abbia il massimo valore di agitazione nei loro confronti. Questa formula è quella del "governo operaio e contadino". Essa indica anche alle masse più arretrate la necessità della conquista del potere per la soluzione dei problemi vitali che le interessano e fornisce il mezzo per portarle sul terreno che è proprio dell’avanguardia operaia più evoluta (lotta per la dittatura del proletariato). In questo senso essa è una formula di agitazione, ma non corrisponde ad una fase reale di sviluppo storico se non allo stesso modo delle soluzioni intermedie di cui al numero precedente.
Una realizzazione di essa infatti non può essere concepita dal partito se non come inizio di una lotta rivoluzionaria diretta, cioè della guerra civile condotta dal proletariato, in alleanza con i contadini, per la conquista del potere. Il partito potrebbe essere portato a gravi deviazioni dal suo compito di guida della rivoluzione qualora interpretasse il governo operaio e contadino come rispondente ad una fase reale di sviluppo della lotta per il potere, cioè se considerasse che questa parola d’ordine indica la possibilità che il problema dello Stato venga risolto nell’interesse della classe operaia in una forma che non sia quella della dittatura del proletariato.
Riconoscendo, quindi, che anche nello Stato italiano si poneva all’ordine del giorno la lotta per la dittatura rivoluzionaria degli organismi democratici delle masse proletarie, Gramsci fu fra i primi a battersi contro i turatiani, per l’altro punto della teoria della rivoluzione permanente: «Senza il diretto appoggio statale del proletariato europeo, la classe operaia russa non potrà restare al potere e trasformare il suo dominio temporaneo in dittatura socialista durevole» (Trotsky, 1906).
Gramsci fu tra i primi nell’Europa occidentale a comprendere l’importanza assegnata da Lenin alle rivoluzioni anticoloniali nella tattica della rivoluzione socialista mondiale la cui tappa iniziale era stata la rivoluzione russa:
«In Europa, in Asia, in America, in Africa giganteggia la sollevazione popolare contro il mercantilismo e l’imperialismo del capitale che continua a generare antagonismi, conflitti, distruzione di vite e di beni, non sazio del sangue e dei disastri di cinque anni di guerra. La lotta è sul piano mondiale: la rivoluzione non può essere più esorcizzata dai democratici truffaldini né soffocata da mercenari senza coscienza» (7 giugno 1919).
Un anno dopo la linea viene ribadita, evidenziando gli effetti epocali a cui la vittoria delle rivoluzioni anticoloniali avrebbe dato luogo:
«La sollevazione coloniale può e tende a diventare un vero e proprio blocco degli Stati capitalistici dell’Europa occidentale; sottraendosi allo sfruttamento capitalistico straniero, le popolazioni coloniali priverebbero di materie prime e di viveri le borghesie industriali europee e farebbero decadere i centri di civiltà formatisi dalla caduta dell’impero romano fino ad oggi» (26 giugno 1920).
Gramsci ha combattuto contro la frazione stalinista in ascesa, a differenza di Togliatti che divenne un fedele servitore di tutte le frazioni della casta burocratica succedutesi al potere in URSS:
«Non sappiamo quale sia stata l’evoluzione di Gramsci nel corso degli undici anni di prigionia, ma possiamo affermare questo: tutta l’attività di Gramsci, tutta la sua concezione del partito e del movimento operaio si oppone in modo assoluto allo stalinismo, alle sue canagliate politiche, alle sue falsificazioni spudorate. Uno degli ultimi atti politici di Gramsci prima del suo arresto, nel 1926, è stato quello di fare approvare dall’Ufficio Politico del partito una lettera all’Ufficio Politico del partito russo chiedendo di contenersi di fronte al compagno Trotsky nei limiti di una discussione fra compagni, e di non adottare i metodi che falsificassero i problemi controversi e impedissero al partito e all’Internazionale di pronunciarsi con piena conoscenza di causa. Questa lettera fu approvata anche da Grieco (Garlandi), Camilla Ravera e Mauro Scocimarro. Ma essa fu inviata su un binario morto da Ercoli (Togliatti) che, essendo a Mosca e avendo scandagliato i destinatari, ha creduto meglio conservarla in tasca.
Possiamo affermare anche che, almeno dopo il 1931 e fino al 1935, la rottura politica e morale con il partito stalinizzato era completa. La prova è data non solamente dal fatto che durante questi anni la stampa ha messo la sordina alla campagna per la liberazione di Gramsci, ma anche il fatto che Gramsci era stato ufficialmente destituito in quanto capo del partito e che, al suo posto, era stato eretto quel clown pronto a tutto che si chiama Ercoli (Togliatti). I compagni usciti di prigione ci hanno comunicato che, da due anni, Gramsci era stato escluso dal partito, esclusione che la direzione aveva deciso di tenere nascosta almeno fino a che Gramsci fosse stato nella possibilità di parlare liberamente.
E ciò al fine di poter sfruttare la personalità di Gramsci ai suoi fini. In ogni caso, i burocrati staliniani si erano arrangiati a seppellire Gramsci politicamente prima che il regime mussoliniano non vi riuscisse fisicamente» (Pietro Tresso, dall’epitaffio per Antonio Gramsci, 14 maggio 1937).
La rottura di Gramsci col partito stalinizzato si consumò sulla sciagurata teoria staliniana del socialfascismo, che impedì ai partiti comunisti di conquistare la maggioranza della classe operaia tedesca, di sconfiggere Hitler e, nel contempo, di porre le condizioni di una lotta rivoluzionaria delle masse per la conquista del potere in Germania. Pietro Tresso e i suoi compagni proseguiranno sulla strada di Gramsci proponendo una tattica rivoluzionaria per liquidare il regime fascista alternativa a quella degli stalinizzati. Alla confusa parola d’ordine togliattiana dell’Assemblea costituente sulla base dei comitati operai e contadini, Pietro Tresso e gli altri compagni di Gramsci opposero la linea del fronte unico (III e IV congresso dell’Internazionale Comunista):
«Tra la lotta che il partito deve condurre per la instaurazione della dittatura del proletariato, e la rivendicazione d’istituti della democrazia come l’Assemblea costituente, non esiste soluzione di continuità. Né il partito può limitarsi – nel periodo che lo separa dalla lotta per il potere – ad opporre la dittatura del proletariato alla democrazia; né esso può limitarsi ad avere delle rivendicazioni democratiche parziali e isolate.
Esso dovrà incorporare nella sua politica le parole d’ordine della democrazia più ardite e condurre per queste una lotta sotto ogni punto di vista conseguente e rivoluzionario. In ciò sta l’importanza per il partito comunista di avere in questo periodo una parola d’ordine come: l’Assemblea costituente eletta con suffragio universale uguale diretto e segreto, esteso a tutti i cittadini di ambo i sessi a partire dai 18 anni.
Nel condurre la lotta per le rivendicazioni democratiche, la sola garanzia per il partito comunista di premunirsi contro tutte le deviazioni sta nel dare a questa lotta una impostazione rivoluzionaria, proletaria.
A questo fine la lotta per la Costituente dovrà unirsi da parte del partito comunista alla lotta per:
1) l’armamento degli operai e dei contadini,
2) il controllo operaio sulla industria e sulle banche,
3) la terra ai contadini,
4) l’alleanza con l’URSS
Ciò significa che il partito comunista deve condurre una politica e nei confronti degli altri partiti che conservano una base nella classe operaia (politica del fronte unico), e nei confronti dei partiti democratici che esercitano la loro influenza sopra le masse contadine e la piccola borghesia di città (politica e rapporti di alleanza, a seconda delle circostanze, con Giustizia e libertà, il Partito Sardo d’Azione ecc.) Una tale politica esige che il partito comunista italiano faccia con la Internazionale una svolta radicale; che esso rinunci alla teoria del socialfascismo; che esso rinunci alla pratica che consiste a ‘imporre’ alla classe operaia la direzione comunista, direzione la quale invece non può che essere conquistata; che esso ritorni, in breve, alla strategia e alla tattica dei primi quattro congressi dell’Internazionale comunista applicando il fronte unico con tutte le organizzazioni operaie di massa, utilizzando in modo sistematico l’antagonismo tra partiti democratici e fascismo e i contrasti che esistono tra i partiti democratici stessi, al fine di fare del proletariato la vera guida e forza dirigente della rivoluzione italiana.» (Prospettive della rivoluzione italiana e compiti tattici del Partito Comunista – risoluzione della Nuova Opposizione Italiana, frazione del PCd'I, aderente alla Opposizione di Sinistra Internazionale, 15 luglio 1932)
A differenza di Togliatti, che ridusse la questione sarda ad “autonomia democratica non classista”, Pietro Tresso si mantenne dentro le coordinate marxiste della questione sarda poste da Gramsci:
«Oltre la questione delle minoranze nazionali, noi abbiamo avuto in Italia, dal 1919 al 1921, degli altri movimenti autonomisti e separatisti: i due movimenti più caratteristici furono il movimento siciliano e sardo. Quali furono i loro caratteri? Il movimento separatista siciliano era diretto da grandi proprietari terrieri e dalla grande borghesia siciliana. Questo movimento voleva separarsi dall’Italia non perché intendeva spezzare i legami burocratici e di dipendenza con lo Stato borghese italiano, ma perché temeva che la rivoluzione scoppiasse in Italia. La grande borghesia siciliana tentò di sfruttare il malcontento delle masse operaie e contadine di fronte all’oppressione della borghesia continentale e dello Stato italiano per dirottarli in una lotta contro la rivoluzione proletaria italiana. Il movimento autonomista e separatista sardo, al contrario, si proponeva di spezzare i legami con lo Stato italiano perché vedeva in questo l’ostacolo maggiore alle realizzazioni delle rivendicazioni sociali e culturali delle masse popolari della Sardegna. Il primo fu dunque un movimento puramente reazionario. Il secondo, al contrario, fu un movimento rivoluzionario democratico. Quale doveva essere il nostro orientamento di fronte ai due movimenti? Nel primo caso, bisognava smascherare il separatismo della grande borghesia siciliana quale nuovo modo di sfruttare le masse operaie e contadine della Sicilia. Nel secondo caso, bisognava dimostrare alle masse della Sardegna che il loro separatismo non poteva che condurli alla disfatta e che il loro destino era strettamente legato a quello del proletariato italiano. Per raggiungere questo risultato bisognava pertanto, nei due casi, dimostrare con i fatti, tanto alle masse operaie e contadine della Sicilia e quelle della Sardegna, che il proletariato difendeva realmente i loro interessi e le loro aspirazioni contro l’oppressione burocratica-militare e culturale sia dello Stato e della borghesia italiana, sia delle cricche semifeudali siciliane e sarde.» (Marxismo e questione nazionale – 1935)
La stessa operazione è stata fatta da Togliatti con Gramsci, per far passare la linea di collaborazione con la borghesia, invece di rovesciarla durante la guerra civile del 1943-45. Quest’altro stravolgimento della verità storica ha raggiunto il massimo della volgarità in quei dirigenti ex DS (oggi ex PD, e fuoriusciti in seguito a due scissioni fondando l'MDP o confluendo in SI) che alla domanda su cosa volevano conservare del loro patrimonio nel Partito Democratico, rispondono che conserverebbero Gramsci.
Antonio Gramsci è colui che fra i primi, in modo organico e creativo, nel Partito Socialista, si schierò con la teoria della rivoluzione permanente, cioè con la linea della lotta per il passaggio di tutto il potere ai soviet nell’ex impero zarista e per la linea dell’attualità della lotta rivoluzionaria per la conquista del potere nello Stato italiano e nel resto dell’Europa. Si è battuto per affermare questa linea politica contro i massimalisti e contro i riformisti. Per questo si è impegnato a fondo nella organizzazione di una frazione per condurre la lotta politica al fine di dar vita al partito marxista rivoluzionario. Nel quadro dei concetti della teoria della rivoluzione permanente, cioè della lotta rivoluzionaria per il potere, Gramsci analizzò ad esempio, dal 1919 fino al suo arresto, la lotta degli operai, dei contadini sardi e del Partito Sardo d’Azione (in questo contesto va posta la parola d’ordine della repubblica socialista degli operai, dei contadini, dei pastori e pescatori nel quadro della Federazione soviettista italiana e degli Stati uniti socialisti d’Europa, approvata al convegno clandestino di Is arenas - 26 ottobre 1924).
«Ma quello che importa notare qui è che il concetto fondamentale dei comunisti torinesi non è stato la formula magica della divisione del latifondo, ma quello dell’alleanza politica tra operai del nord e i contadini del sud per rovesciare la borghesia dal potere di Stato […] noi eravamo per la formula molto realistica e per nulla magica della terra ai contadini; ma volevamo che essa fosse inquadrata in una azione rivoluzionaria generale delle due classi alleate, sotto la direzione del proletariato industriale» (Gramsci, 1920). Perché le masse contadine alleate devono essere dirette dal proletariato rivoluzionario? La risposta a questa domanda costituisce uno dei due punti centrali della teoria della rivoluzione permanente. «L’esperienza storica dimostra che i contadini sono assolutamente incapaci di una funzione politica indipendente.» (Trotsky, 1906).
La storia delle rivoluzioni che hanno liquidato definitivamente il modo di produzione feudale e la sua ultima sovrastruttura politica (l’assolutismo) comprende le guerre contadine. Ma i contadini vengono diretti dalla borghesia urbana rivoluzionaria. È stato il governo rivoluzionario sorto dopo le due giornate insurrezionali parigine del 31 maggio e del 2 giugno 1793 a dare la terra ai contadini che la lavoravano e a fornire la truppa invincibile all’Armata repubblicana. Dove la borghesia non seppe e non volle porsi a capo di una guerra contadina, come nel Risorgimento, i risultati furono segnati profondamente dai compromessi che la borghesia del continente e delle due isole fece con le forze dell’ancien régime, il peso del Vaticano. In Sardegna, il partito angioyano si pose alla testa dei contadini ma, nel momento decisivo della “guerra civile temuta” (Efisio Luigi Pintor), scappò di fronte alle truppe controrivoluzionarie (Oristano 10 giugno 1794). La vittoria della controrivoluzione sabauda fu la causa della liquidazione dall’alto del feudalesimo in Sardegna e la più completa subordinazione della borghesia sarda alla borghesia italiana e ai diversi regimi politici susseguitisi nello stato post-unitario. Dove i contadini non hanno avuto per guida la borghesia rivoluzionaria urbana, per esempio nella Rivoluzione partenopea, diventarono la soldataglia della controrivoluzione aristocratica.
Questa particolarità dello sviluppo del capitalismo nello Stato italiano, simile alla situazione russa per la forte presenza dell’elemento contadino, imponeva come affermava Gramsci a conclusione della Tesi di Lione che:
44. Tutte le agitazioni particolari che il partito conduce e le attività che esso esplica in ogni direzione per mobilitare e unificare le forze della classe lavoratrice devono convergere ed essere riassunte in una formula politica la quale sia agevole a comprendersi dalle masse e abbia il massimo valore di agitazione nei loro confronti. Questa formula è quella del "governo operaio e contadino". Essa indica anche alle masse più arretrate la necessità della conquista del potere per la soluzione dei problemi vitali che le interessano e fornisce il mezzo per portarle sul terreno che è proprio dell’avanguardia operaia più evoluta (lotta per la dittatura del proletariato). In questo senso essa è una formula di agitazione, ma non corrisponde ad una fase reale di sviluppo storico se non allo stesso modo delle soluzioni intermedie di cui al numero precedente.
Una realizzazione di essa infatti non può essere concepita dal partito se non come inizio di una lotta rivoluzionaria diretta, cioè della guerra civile condotta dal proletariato, in alleanza con i contadini, per la conquista del potere. Il partito potrebbe essere portato a gravi deviazioni dal suo compito di guida della rivoluzione qualora interpretasse il governo operaio e contadino come rispondente ad una fase reale di sviluppo della lotta per il potere, cioè se considerasse che questa parola d’ordine indica la possibilità che il problema dello Stato venga risolto nell’interesse della classe operaia in una forma che non sia quella della dittatura del proletariato.
Riconoscendo, quindi, che anche nello Stato italiano si poneva all’ordine del giorno la lotta per la dittatura rivoluzionaria degli organismi democratici delle masse proletarie, Gramsci fu fra i primi a battersi contro i turatiani, per l’altro punto della teoria della rivoluzione permanente: «Senza il diretto appoggio statale del proletariato europeo, la classe operaia russa non potrà restare al potere e trasformare il suo dominio temporaneo in dittatura socialista durevole» (Trotsky, 1906).
Gramsci fu tra i primi nell’Europa occidentale a comprendere l’importanza assegnata da Lenin alle rivoluzioni anticoloniali nella tattica della rivoluzione socialista mondiale la cui tappa iniziale era stata la rivoluzione russa:
«In Europa, in Asia, in America, in Africa giganteggia la sollevazione popolare contro il mercantilismo e l’imperialismo del capitale che continua a generare antagonismi, conflitti, distruzione di vite e di beni, non sazio del sangue e dei disastri di cinque anni di guerra. La lotta è sul piano mondiale: la rivoluzione non può essere più esorcizzata dai democratici truffaldini né soffocata da mercenari senza coscienza» (7 giugno 1919).
Un anno dopo la linea viene ribadita, evidenziando gli effetti epocali a cui la vittoria delle rivoluzioni anticoloniali avrebbe dato luogo:
«La sollevazione coloniale può e tende a diventare un vero e proprio blocco degli Stati capitalistici dell’Europa occidentale; sottraendosi allo sfruttamento capitalistico straniero, le popolazioni coloniali priverebbero di materie prime e di viveri le borghesie industriali europee e farebbero decadere i centri di civiltà formatisi dalla caduta dell’impero romano fino ad oggi» (26 giugno 1920).
Gramsci ha combattuto contro la frazione stalinista in ascesa, a differenza di Togliatti che divenne un fedele servitore di tutte le frazioni della casta burocratica succedutesi al potere in URSS:
«Non sappiamo quale sia stata l’evoluzione di Gramsci nel corso degli undici anni di prigionia, ma possiamo affermare questo: tutta l’attività di Gramsci, tutta la sua concezione del partito e del movimento operaio si oppone in modo assoluto allo stalinismo, alle sue canagliate politiche, alle sue falsificazioni spudorate. Uno degli ultimi atti politici di Gramsci prima del suo arresto, nel 1926, è stato quello di fare approvare dall’Ufficio Politico del partito una lettera all’Ufficio Politico del partito russo chiedendo di contenersi di fronte al compagno Trotsky nei limiti di una discussione fra compagni, e di non adottare i metodi che falsificassero i problemi controversi e impedissero al partito e all’Internazionale di pronunciarsi con piena conoscenza di causa. Questa lettera fu approvata anche da Grieco (Garlandi), Camilla Ravera e Mauro Scocimarro. Ma essa fu inviata su un binario morto da Ercoli (Togliatti) che, essendo a Mosca e avendo scandagliato i destinatari, ha creduto meglio conservarla in tasca.
Possiamo affermare anche che, almeno dopo il 1931 e fino al 1935, la rottura politica e morale con il partito stalinizzato era completa. La prova è data non solamente dal fatto che durante questi anni la stampa ha messo la sordina alla campagna per la liberazione di Gramsci, ma anche il fatto che Gramsci era stato ufficialmente destituito in quanto capo del partito e che, al suo posto, era stato eretto quel clown pronto a tutto che si chiama Ercoli (Togliatti). I compagni usciti di prigione ci hanno comunicato che, da due anni, Gramsci era stato escluso dal partito, esclusione che la direzione aveva deciso di tenere nascosta almeno fino a che Gramsci fosse stato nella possibilità di parlare liberamente.
E ciò al fine di poter sfruttare la personalità di Gramsci ai suoi fini. In ogni caso, i burocrati staliniani si erano arrangiati a seppellire Gramsci politicamente prima che il regime mussoliniano non vi riuscisse fisicamente» (Pietro Tresso, dall’epitaffio per Antonio Gramsci, 14 maggio 1937).
La rottura di Gramsci col partito stalinizzato si consumò sulla sciagurata teoria staliniana del socialfascismo, che impedì ai partiti comunisti di conquistare la maggioranza della classe operaia tedesca, di sconfiggere Hitler e, nel contempo, di porre le condizioni di una lotta rivoluzionaria delle masse per la conquista del potere in Germania. Pietro Tresso e i suoi compagni proseguiranno sulla strada di Gramsci proponendo una tattica rivoluzionaria per liquidare il regime fascista alternativa a quella degli stalinizzati. Alla confusa parola d’ordine togliattiana dell’Assemblea costituente sulla base dei comitati operai e contadini, Pietro Tresso e gli altri compagni di Gramsci opposero la linea del fronte unico (III e IV congresso dell’Internazionale Comunista):
«Tra la lotta che il partito deve condurre per la instaurazione della dittatura del proletariato, e la rivendicazione d’istituti della democrazia come l’Assemblea costituente, non esiste soluzione di continuità. Né il partito può limitarsi – nel periodo che lo separa dalla lotta per il potere – ad opporre la dittatura del proletariato alla democrazia; né esso può limitarsi ad avere delle rivendicazioni democratiche parziali e isolate.
Esso dovrà incorporare nella sua politica le parole d’ordine della democrazia più ardite e condurre per queste una lotta sotto ogni punto di vista conseguente e rivoluzionario. In ciò sta l’importanza per il partito comunista di avere in questo periodo una parola d’ordine come: l’Assemblea costituente eletta con suffragio universale uguale diretto e segreto, esteso a tutti i cittadini di ambo i sessi a partire dai 18 anni.
Nel condurre la lotta per le rivendicazioni democratiche, la sola garanzia per il partito comunista di premunirsi contro tutte le deviazioni sta nel dare a questa lotta una impostazione rivoluzionaria, proletaria.
A questo fine la lotta per la Costituente dovrà unirsi da parte del partito comunista alla lotta per:
1) l’armamento degli operai e dei contadini,
2) il controllo operaio sulla industria e sulle banche,
3) la terra ai contadini,
4) l’alleanza con l’URSS
Ciò significa che il partito comunista deve condurre una politica e nei confronti degli altri partiti che conservano una base nella classe operaia (politica del fronte unico), e nei confronti dei partiti democratici che esercitano la loro influenza sopra le masse contadine e la piccola borghesia di città (politica e rapporti di alleanza, a seconda delle circostanze, con Giustizia e libertà, il Partito Sardo d’Azione ecc.) Una tale politica esige che il partito comunista italiano faccia con la Internazionale una svolta radicale; che esso rinunci alla teoria del socialfascismo; che esso rinunci alla pratica che consiste a ‘imporre’ alla classe operaia la direzione comunista, direzione la quale invece non può che essere conquistata; che esso ritorni, in breve, alla strategia e alla tattica dei primi quattro congressi dell’Internazionale comunista applicando il fronte unico con tutte le organizzazioni operaie di massa, utilizzando in modo sistematico l’antagonismo tra partiti democratici e fascismo e i contrasti che esistono tra i partiti democratici stessi, al fine di fare del proletariato la vera guida e forza dirigente della rivoluzione italiana.» (Prospettive della rivoluzione italiana e compiti tattici del Partito Comunista – risoluzione della Nuova Opposizione Italiana, frazione del PCd'I, aderente alla Opposizione di Sinistra Internazionale, 15 luglio 1932)
A differenza di Togliatti, che ridusse la questione sarda ad “autonomia democratica non classista”, Pietro Tresso si mantenne dentro le coordinate marxiste della questione sarda poste da Gramsci:
«Oltre la questione delle minoranze nazionali, noi abbiamo avuto in Italia, dal 1919 al 1921, degli altri movimenti autonomisti e separatisti: i due movimenti più caratteristici furono il movimento siciliano e sardo. Quali furono i loro caratteri? Il movimento separatista siciliano era diretto da grandi proprietari terrieri e dalla grande borghesia siciliana. Questo movimento voleva separarsi dall’Italia non perché intendeva spezzare i legami burocratici e di dipendenza con lo Stato borghese italiano, ma perché temeva che la rivoluzione scoppiasse in Italia. La grande borghesia siciliana tentò di sfruttare il malcontento delle masse operaie e contadine di fronte all’oppressione della borghesia continentale e dello Stato italiano per dirottarli in una lotta contro la rivoluzione proletaria italiana. Il movimento autonomista e separatista sardo, al contrario, si proponeva di spezzare i legami con lo Stato italiano perché vedeva in questo l’ostacolo maggiore alle realizzazioni delle rivendicazioni sociali e culturali delle masse popolari della Sardegna. Il primo fu dunque un movimento puramente reazionario. Il secondo, al contrario, fu un movimento rivoluzionario democratico. Quale doveva essere il nostro orientamento di fronte ai due movimenti? Nel primo caso, bisognava smascherare il separatismo della grande borghesia siciliana quale nuovo modo di sfruttare le masse operaie e contadine della Sicilia. Nel secondo caso, bisognava dimostrare alle masse della Sardegna che il loro separatismo non poteva che condurli alla disfatta e che il loro destino era strettamente legato a quello del proletariato italiano. Per raggiungere questo risultato bisognava pertanto, nei due casi, dimostrare con i fatti, tanto alle masse operaie e contadine della Sicilia e quelle della Sardegna, che il proletariato difendeva realmente i loro interessi e le loro aspirazioni contro l’oppressione burocratica-militare e culturale sia dello Stato e della borghesia italiana, sia delle cricche semifeudali siciliane e sarde.» (Marxismo e questione nazionale – 1935)
Partito
Comunista dei Lavoratori
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