La “svolta”
della politica estera di Trump è al centro dello scenario mondiale. L'attacco
militare in Siria, la minaccia militare alla Corea del Nord, si pongono in
evidente linea di continuità.
Larga parte del commentario borghese tradizionale, ma anche gli ambienti
populisti reazionari europei, si erano rappresentati la figura di Trump come
quella di un politico principalmente proiettato sul mercato elettorale
americano, estraneo ai grandi temi della politica internazionale, orientato
alla rottura isolazionista con la tradizionale politica estera
dell'imperialismo USA (inclusa la tradizione repubblicana). Le cancellerie
degli imperialismi alleati, in primo luogo europei e giapponese, vedevano tutto
questo con comprensibile preoccupazione. I diversi ambienti del sovranismo
nazionalista come esempio luminoso. Persino alcuni settori politici e culturali
(particolarmente sciagurati) del “nazionalismo di sinistra” volevano vedere nel
trumpismo un lato positivo nel segno di un supposto disimpegno dal vecchio
imperialismo yankee.
I fatti si sono incaricati di dimostrare, nella forma più brutale,
l'inconsistenza di queste rappresentazioni ideologiche. Da ogni versante.
I RISVOLTI POLITICI INTERNI DEL NUOVO CORSO. LA RISPOSTA ALLA CRISI DELL'IMPERIALISMO USA
I RISVOLTI POLITICI INTERNI DEL NUOVO CORSO. LA RISPOSTA ALLA CRISI DELL'IMPERIALISMO USA
Donald Trump ha sicuramente costituito un candidato outsider, estraneo al
vecchio establishment USA. Proprio la sua estraneità al vecchio potere
americano ha rappresentato la principale leva della sua vittoria. Ma se Trump
poteva in un certo senso vincere “da solo”, certo non poteva e non può
governare “da solo” gli Stati Uniti d'America. Può governare solamente trovando
un punto di equilibrio con l'insieme dell'apparato statale americano in tutta
la sua articolazione e complessità interna (Federal Reserve, Pentagono, corpo
diplomatico, servizi segreti, Corte Suprema, Congresso...).
I primi mesi dell'amministrazione Trump dimostrano che il punto di equilibrio non è facile. La fronda del FBI , la diffidenza della banca centrale, l'ostilità di parte rilevante della magistratura hanno rappresentato ostacoli potenti al consolidamento interno del trumpismo. Il suo blocco sociale elettorale ancora regge fondamentalmente, nonostante lo sviluppo di forme diverse di opposizione politica di massa. Ma la sconfitta clamorosa in sede parlamentare sull'abolizione della riforma sanitaria di Obama, l'invalidazione giudiziaria dei suoi famigerati decreti sull'immigrazione, la campagna anti-Trump sui rapporti ambigui con la Russia condotta da settori dei servizi e della grande stampa, hanno dimostrato alla nuova presidenza USA che governare gli Stati Uniti è cosa ben più complessa di una campagna elettorale o di una somma di tweet.
Il nuovo corso della politica estera di Trump è anche parte della ricerca di un equilibrio nuovo. Il rilancio di una politica muscolare e l'ostentazione della forza rispondono infatti a obiettivi interni molteplici. Da un lato giocano sul richiamo del consenso popolare attorno al prestigio della Nazione e del suo comandante in capo, declinando in forme nuove quella petizione nazionalista ("America First") che ha rappresentato tanta parte dell'ascesa del trumpismo. Dall'altro lato sono funzionali a ricomporre una relazione con ambienti decisivi per l'esercizio della presidenza: con l'insieme del Partito Repubblicano, a partire dal Congresso, e con l'ambiente militare del Pentagono e dei suoi alti gradi, cuore della potenza imperialista degli USA. L'emarginazione dell'ideologo di estrema destra Bannon a favore di esponenti di alta estrazione militare (ministro della Difesa Mattis, consigliere McMaster, ex capo di Stato Maggiore Mullen) accompagna non a caso il nuovo corso.
Ma il nuovo corso vuole rispondere innanzitutto alla lunga crisi di direzione politica dell'imperialismo USA nel mondo. All'esigenza di una risposta nuova alla sfida dell'imperialismo russo e soprattutto, su scala globale, dell'imperialismo cinese. L'attacco in Siria e la minaccia alla Corea del Nord sui mari del Pacifico vogliono segnare un punto di svolta. La fine della “ritirata americana” e la rivendicazione dell'egemonia USA nel mondo.
L'ATTACCO IN SIRIA: IL RIEQUILIBRIO DELLE FORZE CON MOSCA
I primi mesi dell'amministrazione Trump dimostrano che il punto di equilibrio non è facile. La fronda del FBI , la diffidenza della banca centrale, l'ostilità di parte rilevante della magistratura hanno rappresentato ostacoli potenti al consolidamento interno del trumpismo. Il suo blocco sociale elettorale ancora regge fondamentalmente, nonostante lo sviluppo di forme diverse di opposizione politica di massa. Ma la sconfitta clamorosa in sede parlamentare sull'abolizione della riforma sanitaria di Obama, l'invalidazione giudiziaria dei suoi famigerati decreti sull'immigrazione, la campagna anti-Trump sui rapporti ambigui con la Russia condotta da settori dei servizi e della grande stampa, hanno dimostrato alla nuova presidenza USA che governare gli Stati Uniti è cosa ben più complessa di una campagna elettorale o di una somma di tweet.
Il nuovo corso della politica estera di Trump è anche parte della ricerca di un equilibrio nuovo. Il rilancio di una politica muscolare e l'ostentazione della forza rispondono infatti a obiettivi interni molteplici. Da un lato giocano sul richiamo del consenso popolare attorno al prestigio della Nazione e del suo comandante in capo, declinando in forme nuove quella petizione nazionalista ("America First") che ha rappresentato tanta parte dell'ascesa del trumpismo. Dall'altro lato sono funzionali a ricomporre una relazione con ambienti decisivi per l'esercizio della presidenza: con l'insieme del Partito Repubblicano, a partire dal Congresso, e con l'ambiente militare del Pentagono e dei suoi alti gradi, cuore della potenza imperialista degli USA. L'emarginazione dell'ideologo di estrema destra Bannon a favore di esponenti di alta estrazione militare (ministro della Difesa Mattis, consigliere McMaster, ex capo di Stato Maggiore Mullen) accompagna non a caso il nuovo corso.
Ma il nuovo corso vuole rispondere innanzitutto alla lunga crisi di direzione politica dell'imperialismo USA nel mondo. All'esigenza di una risposta nuova alla sfida dell'imperialismo russo e soprattutto, su scala globale, dell'imperialismo cinese. L'attacco in Siria e la minaccia alla Corea del Nord sui mari del Pacifico vogliono segnare un punto di svolta. La fine della “ritirata americana” e la rivendicazione dell'egemonia USA nel mondo.
L'ATTACCO IN SIRIA: IL RIEQUILIBRIO DELLE FORZE CON MOSCA
L'attacco in Siria ha voluto soprattutto marcare un segno di svolta della
politica estera USA nello scenario mediorientale e internazionale, in rapporto
all'imperialismo russo.
Il marcato indebolimento di peso e ruolo dell'imperialismo USA, dopo la disfatta delle guerre di Bush e la lunga paralisi dell'amministrazione Obama, aveva aperto il varco all'inserimento dell'imperialismo russo in Medio Oriente. Sia sul terreno della presenza militare, dove l'intervento russo ha segnato una svolta nella guerra siriana a favore di Assad (Aleppo), sia sul terreno dell'iniziativa politico-diplomatica, dove Putin aveva capitalizzato progressivamente a proprio vantaggio la crisi profonda delle tradizionali alleanze USA: ricostruendo una propria relazione diretta col regime di Erdogan, attivando un proprio rapporto diretto con lo Stato sionista d'Israele, gestendo un ruolo centrale di promozione e regia nel negoziato internazionale attorno alla “soluzione” politica della crisi siriana (negoziati di Astana).
L'attacco di Trump alla Siria esprime la volontà della nuova amministrazione USA di ribaltare questo scenario. L'attacco non prelude probabilmente ad una escalation militare americana in Siria, ma certo ha un significato politico enorme. Trump vuole dire alla Russia e a tutti gli attori della scena mediorientale che ora il gioco è cambiato; che gli USA non intendono più rassegnarsi ad una propria marginalizzazione a vantaggio di Putin; che gli USA vogliono riproporsi come grande potenza capace di ricomporre attorno alla propria forza (e alla propria determinazione ad usarla) la rete delle relazioni in Medio Oriente. A partire dall'asse speciale con lo Stato sionista e la sua attuale leadership, cui si lascia mano libera in Palestina, e che si vuole rassicurare contro l'Iran. Ma con la volontà di recuperare la relazione con l'Arabia Saudita, non a caso plaudente ai bombardamenti americani in funzione anti-iraniana; di ricostruire il rapporto con la Turchia di Erdogan, rapidamente collocatosi al fianco di Trump in funzione dei propri appetiti neo-ottomani (e dello scambio negoziale con garanzie anti-curde); di ostacolare l'avvicinamento in corso dell'Egitto alla Russia, riattivando una relazione diretta con Al-Sisi (per la prima volta ricevuto a Washington). Le ragioni dei bombardamenti USA sono rivelate in queste ore proprio dai primi effetti politici che hanno prodotto. Lo spiazzamento di Putin, che aveva realmente puntato sulla nuova amministrazione Trump, non poteva essere più clamoroso.
LA MINACCIA IMPERIALISTA ALLA COREA E IL CONTENIMENTO DELLA CINA
Il marcato indebolimento di peso e ruolo dell'imperialismo USA, dopo la disfatta delle guerre di Bush e la lunga paralisi dell'amministrazione Obama, aveva aperto il varco all'inserimento dell'imperialismo russo in Medio Oriente. Sia sul terreno della presenza militare, dove l'intervento russo ha segnato una svolta nella guerra siriana a favore di Assad (Aleppo), sia sul terreno dell'iniziativa politico-diplomatica, dove Putin aveva capitalizzato progressivamente a proprio vantaggio la crisi profonda delle tradizionali alleanze USA: ricostruendo una propria relazione diretta col regime di Erdogan, attivando un proprio rapporto diretto con lo Stato sionista d'Israele, gestendo un ruolo centrale di promozione e regia nel negoziato internazionale attorno alla “soluzione” politica della crisi siriana (negoziati di Astana).
L'attacco di Trump alla Siria esprime la volontà della nuova amministrazione USA di ribaltare questo scenario. L'attacco non prelude probabilmente ad una escalation militare americana in Siria, ma certo ha un significato politico enorme. Trump vuole dire alla Russia e a tutti gli attori della scena mediorientale che ora il gioco è cambiato; che gli USA non intendono più rassegnarsi ad una propria marginalizzazione a vantaggio di Putin; che gli USA vogliono riproporsi come grande potenza capace di ricomporre attorno alla propria forza (e alla propria determinazione ad usarla) la rete delle relazioni in Medio Oriente. A partire dall'asse speciale con lo Stato sionista e la sua attuale leadership, cui si lascia mano libera in Palestina, e che si vuole rassicurare contro l'Iran. Ma con la volontà di recuperare la relazione con l'Arabia Saudita, non a caso plaudente ai bombardamenti americani in funzione anti-iraniana; di ricostruire il rapporto con la Turchia di Erdogan, rapidamente collocatosi al fianco di Trump in funzione dei propri appetiti neo-ottomani (e dello scambio negoziale con garanzie anti-curde); di ostacolare l'avvicinamento in corso dell'Egitto alla Russia, riattivando una relazione diretta con Al-Sisi (per la prima volta ricevuto a Washington). Le ragioni dei bombardamenti USA sono rivelate in queste ore proprio dai primi effetti politici che hanno prodotto. Lo spiazzamento di Putin, che aveva realmente puntato sulla nuova amministrazione Trump, non poteva essere più clamoroso.
LA MINACCIA IMPERIALISTA ALLA COREA E IL CONTENIMENTO DELLA CINA
Ma l'attacco di Trump in Siria non ha avuto solo una finalità mediorientale. Ha voluto produrre un segno più ampio nella politica mondiale. Trump ha voluto ricordare che l'imperialismo USA resta la principale potenza militare su scala mondiale, e che è nuovamente disponibile a usare la propria forza, ovunque occorra, nel proprio interesse nazionale. È un segnale inviato non solo alla Russia ma anche (e per alcuni aspetti) soprattutto in Asia.
L'Asia e il Pacifico sono sempre più il terreno centrale di misurazione dei rapporti di forza imperialisti su scala mondiale. È l'area continentale di più elevato sviluppo economico del pianeta, il baricentro delle rotte commerciali, ma soprattutto il terreno di ascesa della grande potenza cinese e delle sue ambizioni espansioniste. Il confronto strategico centrale con l'imperialismo cinese segna da anni la politica estera americana. Il tentativo (fallito) dell'amministrazione Obama di disimpegnarsi dal teatro mediorientale era in funzione della concentrazione delle forze (economiche e militari) sul Pacifico. Il disegno (arenato) dei grandi accordi di libero scambio con la UE (TTIP) e in Asia (TPP) era in funzione dell'isolamento della Cina e di un nuovo bilanciamento delle forze. Trump rimpiazza gli accordi di libero scambio a favore di una politica protezionista, ma sempre in funzione della contrapposizione strategica alla Cina, vera costante della politica USA. Lo stesso ammiccamento iniziale di Trump a Putin, poi radicalmente rimosso, mirava all'indebolimento della Cina. Di certo l'imperialismo USA non può mollare la centralità del Pacifico: significherebbe abbandonare ogni Paese (dal Vietnam alle Filippine di Duterte) all'egemonia cinese e compromettere le relazioni decisive con l'imperialismo giapponese. Garantire i propri alleati asiatici e la loro “sicurezza” è dunque una necessità strategica irrinunciabile per gli USA. Il nuovo corso di Donald Trump mette al servizio di questa necessità la politica delle cannoniere.
La minaccia militare USA contro la Corea del Nord si pone in questo scenario generale.
LA POSSIBILITÀ REALE DI UNA GUERRA IN COREA
L'iniziativa militare USA non è ancora compiutamente definita. Ma non siamo in presenza di un bluff. Siamo in presenza realmente di una possibile dinamica di guerra tra USA e Corea, con eventuali riflessi di propagazione in Asia. Mai dagli anni '60 il rischio di un conflitto potenzialmente nucleare ha raggiunto una soglia tanto elevata.
Il nuovo corso dell'amministrazione Trump mira al disarmo nucleare della Corea del Nord, nel momento stesso in cui il regime dinastico nordcoreano usa e rivendica sempre più il proprio armamento nucleare come scudo protettivo e assicurazione sulla vita. Se il regime proseguirà, come annunciato, il lancio propagandistico dei propri missili nucleari, è assai probabile che l'imperialismo USA bombarderà la Corea. Se la flotta americana bombarderà la Corea, fosse pure con armi convenzionali, è possibile una replica militare coreana sulle basi militari americane dell'area, e sugli alleati asiatici degli USA (Corea del Sud e Giappone). Ciò che innescherebbe una dinamica di conflitto più ampia, potenzialmente incontrollabile. Sia dal punto di vista dei paesi coinvolti, sia dal punto di vista del livello militare del conflitto.
Naturalmente questo scenario non è l'unico possibile. L'imperialismo USA sta esercitando la massima pressione sulla Cina, grande protettore del regime nordcoreano, perché provveda a “risolvere il problema”. La Cina, dal canto suo, impegnata nella pacifica espansione della propria area d'influenza su scala mondiale, a partire dall'Asia, non ha alcun interesse a uno scontro militare in Corea. Da qui le molteplici pressioni cinesi sul regime di Kim Jong-un a favore di un suo passo indietro nel contenzioso apertosi. Ma gli strumenti di pressione di Pechino, notevoli sul piano economico (riduzione delle importazioni di carbone e delle esportazione di beni alimentari), sono limitati sul piano politico. La dinastia regnante coreana ha consolidato negli anni una propria autonomia politica dalla Cina, anche attraverso l'eliminazione fisica dei possibili interlocutori interni dell'”alleato” cinese. La Cina non sembra disporre ad oggi di proprie leve politiche con cui operare e imporre un cambio di leadership a Pyongyang. La politica interna di terrore da parte di Kim Jong-un non serve solo a proteggere il regime da ogni possibile ribellione di massa, ma anche a chiudere il varco ad ogni defezione d'apparato. La lunga resistenza alle sanzioni internazionali e alla stessa pressione cinese è la misura del successo (sinora) di questa politica.
Il regime di Kim Jong-un maschera tuttavia con le parate militari la debolezza delle proprie retrovie e le contraddizioni strutturali del paese (contraddizione tra economia pianificata e sviluppo delle venti zone speciali a economia di mercato, crescita di una nuova oligarchia interessata alla proprietà privata, espansione abnorme del mercato nero, collasso cronico della produzione agricola dopo le inondazioni degli anni '90, 41% della popolazione sotto il livello minimo di nutrizione). Sostenere i costi di una guerra con la più grande potenza del pianeta appare un impresa disperata. È possibile dunque che il regime scelga di evitare la guerra rinunciando a nuove esibizioni nucleari. Gli USA userebbero propagandisticamente questa eventualità come risultato della propria prova di forza. La Cina la sbandiererebbe come frutto della propria pressione rivendicando il primato di mezzi pacifici e l'insostituibilità del proprio ruolo diplomatico contro ogni unilateralismo USA.
Ma se la dinamica di guerra si aprirà, occorrerà misurare la sua ampiezza. Nel caso di un attacco militare americano limitato e “simbolico”, come avvenuto in Siria, non si può escludere una risposta unicamente politico-propagandista del regime in funzione della propria autoconservazione. In caso contrario, o nel caso di un'escalation dell'imperialismo USA che mettesse in gioco la sopravvivenza del regime, la Cina si troverebbe di fronte a un bivio drammatico: assistere passivamente alla sconfitta di un proprio alleato per mano americana, al rischio di una riunificazione americana delle due Coree, al mutamento dei rapporti di forza in Asia; o sostenere il proprio “alleato” al prezzo di un confronto militare potenzialmente incontrollabile, che può mettere a rischio l'intero progetto di ascesa Cinese? Di certo l'imperialismo USA non potrebbe subire passivamente ritorsioni coreane sui propri alleati asiatici, proprio nel momento in cui rivendica il proprio primato mondiale agli occhi innanzitutto della Cina.
PER UNA MOBILITAZIONE CONTRO LA GUERRA E L'IMPERIALISMO
Vedremo gli sviluppi dello scontro nei prossimi giorni e settimane. Certo
colpisce il divario drammatico tra il livello delle minacce di guerra e
l'assenza di mobilitazione internazionale. È necessario da subito che tutte le
forze del movimento operaio, in ogni Paese, sviluppino un'iniziativa di massa
contro la guerra. Sul nostro versante, italiano ed europeo, una mobilitazione
innanzitutto contro l'imperialismo USA, la più grande potenza militare del
pianeta, e la sua pretesa intollerabile di riproporsi come il gendarme
dell'ordine mondiale; una mobilitazione contro ogni forma di solidarietà e
sostegno all'imperialismo USA da parte dell'imperialismo italiano e degli
imperialismi europei. Che dopo aver fatto campagna ideologica anti-Trump sui
propri fronti interni si sono tutti dichiarati “trumpisti” in occasione
dell'attacco militare USA in Siria, nel nome del superiore interesse della NATO
e della solidarietà atlantica.
Ma ciò che sta avvenendo in queste settimane assume un significato che va al di là del contingente. Chi credeva all'isolazionismo di Trump ha dimenticato che nessuna potenza imperialista può “isolarsi” dalla competizione mondiale. Tanto meno può farlo la più grande potenza imperialista del mondo, come del resto dimostra l'intera storia del Novecento. “America First” non solo non significa disimpegno USA dagli affari mondiali, ma rappresenta l'armatura ideologica di una nuova politica di potenza dell'imperialismo americano, la sua volontà di reagire ad ogni rischio di declassamento e alla sfida dei nuovi imperialismi. Il nuovo corso dell'amministrazione Trump, al di là delle sue motivazioni interne e dei suoi aspetti empirici, annuncia dunque una stagione nuova delle relazioni internazionali. Il rilancio dei nazionalismi imperialisti, delle guerre commerciali e valutarie, delle minacce e pratiche protezioniste, della contesa di vecchie e nuove aree di influenza, a partire dall'Asia, si accompagna al grande ritorno delle politiche di guerra. Con tutti i rischi di prospettiva, su scala storica, per il futuro stesso dell'umanità. Per questo, tanto più oggi, la mobilitazione contro la guerra è inseparabile dalla lotta per il rovesciamento del capitalismo e dell'imperialismo - di ogni imperialismo - e dalla lotta per la rivoluzione socialista internazionale. L'unica vera alternativa alla barbarie.
Ma ciò che sta avvenendo in queste settimane assume un significato che va al di là del contingente. Chi credeva all'isolazionismo di Trump ha dimenticato che nessuna potenza imperialista può “isolarsi” dalla competizione mondiale. Tanto meno può farlo la più grande potenza imperialista del mondo, come del resto dimostra l'intera storia del Novecento. “America First” non solo non significa disimpegno USA dagli affari mondiali, ma rappresenta l'armatura ideologica di una nuova politica di potenza dell'imperialismo americano, la sua volontà di reagire ad ogni rischio di declassamento e alla sfida dei nuovi imperialismi. Il nuovo corso dell'amministrazione Trump, al di là delle sue motivazioni interne e dei suoi aspetti empirici, annuncia dunque una stagione nuova delle relazioni internazionali. Il rilancio dei nazionalismi imperialisti, delle guerre commerciali e valutarie, delle minacce e pratiche protezioniste, della contesa di vecchie e nuove aree di influenza, a partire dall'Asia, si accompagna al grande ritorno delle politiche di guerra. Con tutti i rischi di prospettiva, su scala storica, per il futuro stesso dell'umanità. Per questo, tanto più oggi, la mobilitazione contro la guerra è inseparabile dalla lotta per il rovesciamento del capitalismo e dell'imperialismo - di ogni imperialismo - e dalla lotta per la rivoluzione socialista internazionale. L'unica vera alternativa alla barbarie.
Marco
Ferrando
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