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mercoledì 28 dicembre 2016

CONTRATTO DEI METALMECCANICI: LA CONCLUSIONE DI UNA PARABOLA DELLA FIOM



Ripartire dal dissenso per organizzare la resistenza

Con grande trionfalismo FIM, FIOM e UILM hanno dichiarato che l’ipotesi di accordo firmata il 26 novembre è stata approvata dai lavoratori e dalle lavoratrici del settore metalmeccanico con una percentuale dell’80%. Questo dato, che a una prima lettura sembra quasi un plebiscito nei confronti dell’accordo ed un successo dei sindacati firmatari, deve esser guardato con attenzione. L’approvazione dell’accordo, infatti, non è mai stata in discussione, come invece lo è stato in altre recenti consultazioni di questa stagione contrattuale (vedi, ad esempio, il rinnovo dell’igiene ambientale, bocciato secondo i dati ufficiali dal 43% delle aziende pubbliche del settore, nella realtà in quasi tutti i grandi stabilimenti – Genova, Roma, Milano, Bari, ecc. – ed in tantissimi di quelli piccoli, probabilmente dalla maggioranza di lavoratori e lavoratrici coinvolti.)

In primo luogo i metalmeccanici implicati dal contratto erano oltre un milione e mezzo. Non solo la classe operaia centrale, quella organizzata delle grandi e delle medie fabbriche, ma anche quella dispersa nel disperso tessuto produttivo italiano di piccole e piccolissime aziende. Non solo quella delle fabbriche più combattive, in cui sono influenti i delegati e le delegate della sinistra FIOM o (in qualche caso) dei sindacati di base, ma anche quella che segue le indicazioni della FIM, della UILM o che non è neppure sindacalizzata.
Certo, questo era un pessimo contratto. Non solo perché distribuisce pochi soldi in quattro anni (forse una cinquantina di euro, a fronte degli 80-100 degli altri contratti). Era molto di più. È un rinnovo che sfibra l’intero sistema contrattuale, indebolendo significativamente i rapporti di forza complessivi della classe lavoratrice: registra semplicemente l’inflazione reale (ex post), non prevedendo nessuna distribuzione della ricchezza o anche solo della produttività nel CCNL; indirizza pesantemente la contrattazione aziendale su parametri variabili (aumentando così la flessibilità salariale); introduce assicurazioni sociali e buoni carrello (tagliando il salario complessivo e contribuendo a smantellare il welfare universale); conferma le flessibilità organizzative previste nel CCNL 2012 (a partire dagli straordinari obbligatori).

Però questo contratto, per esser bocciato dalla maggioranza degli operai, avrebbe avuto bisogno di un clima diverso, nella classe e nel Paese. Sarebbe stato necessario costruire questa vertenza in un quadro di mobilitazione e partecipazione, coinvolgendo nella discussione e nella lotta in difesa del contratto nazionale l’insieme della classe. Sarebbe stata cioè necessaria una comprensione di massa della battaglia in corso, dell’attacco del padronato e delle prospettive di resistenza. Quasi nessuno ha invece lavorato nei mesi scorsi per creare questo clima. Non la FIOM, che sin dall’inizio dell’anno si apprestava a firmare un contratto purchessia, spinta dalla ricerca di un nuovo patto di gestione con Camusso e di un nuovo ruolo per Landini, nella segreteria confederale CGIL. Per questo non ha puntato su scioperi e mobilitazioni, per questo non ha quasi mai riunito l’assemblea dei cinquecento, per questo ha abbandonato la propria piattaforma senza colpo ferire. Non è solo responsabilità della FIOM, però. Anche l’insieme della sinistra politica e sociale del nostro paese non ha contribuito a sostenere la partecipazione su questo rinnovo. Partiti, comitati, associazioni, giornali, radio, siti e social: quasi nessuno ha seguito un contratto che rischia di segnare condizioni e prospettive di milioni e milioni di lavoratori e lavoratrici del nostro paese.
È nel contempo tragico e buffo: da anni tutti declamano che per ricostruire una sinistra di massa bisogna partire dal programma, dal lavoro, dalla realtà; però poi negli ultimi mesi si parla soprattutto di rapporto con il PD, di alchimie elettorali, di Brexit e di Trump. Di Monfalcone e della Lega, della FIOM e del CCNL metalmeccanico quasi mai.
I metalmeccanici sono quindi stati lasciati soli: per non disturbare Landini o per non sporcarsi le mani con il conflitto di classe. Non si sono viste dichiarazioni, interviste, post, dibattiti, assemblee, o volantinaggi sulla vicenda. I rapporti di forza alla partenza, allora, erano molto chiari: da una parte i gruppi dirigenti e gli apparati sindacali, nel silenzio della stampa, delle piazze e di larga parte della sinistra; dall’altra un No sostenuto soprattutto dal basso, da delegati e delegate, dall'opposizione CGIL, dai sindacati di base. Seppur, per questi ultimi, talvolta con le solite tentazioni autocentrate: ad esempio USB, nelle prime fasi della campagna, ha rivendicato il boicottaggio del referendum e la costruzione della propria organizzazione come unica possibile soluzione, senza preoccuparsi di costruire fronti di lotta o convergenze neppure con le altre organizzazioni di base (anche se molti delegati e delegate, e poi il profilo dell’assemblea nazionale di Bologna, hanno spinto per il No alla consultazione, seppur giustamente denunciandone tutti i limiti democratici).

Nessuno allora può stupirsi di questo risultato. E nessuno può stupirsene proprio per le modalità di svolgimento del referendum stesso. Le regole che si sono date FIM FIOM e UILM per questa consultazione non prevedevano nessuna possibilità per le ragioni del No di essere espresse nelle assemblee. Landini si è sempre presentato come un campione della democrazia e del pluralismo. Per sé, per la FIOM, ha sempre rivendicato la pari dignità in CGIL, chiedendo nel 2014 che sul Testo Unico fosse presente in ogni assemblea sia il punto di vista del Sì (quello della Camusso), sia quello del No (il suo, tra gli altri). Ma quello che chiede per sé, non lo ha mai concesso alle sue minoranze. Così nelle assemblee hanno potuto parlare solo i funzionari per il Sì. Chi sosteneva il No (delegati e dirigenti FIOM), si è dovuto limitare a intervenire nei propri posti di lavoro. Non solo. La FIOM ha poi cercato di ammonire tutte le strutture (come i direttivi di Trieste e Genova), i dirigenti e funzionari, fino ai delegati che si sono schierati contro questo pessimo accordo. Lo stesso referendum è stato svolto in un periodo caratterizzato da fabbriche mezze vuote per via della crisi (sia per la cassa integrazione e accordi di solidarietà, sia per ragioni di chiusure aziendali per ferie anticipate), con un controllo ferreo da parte della burocrazia sullo svolgimento delle assemblee. Sono state coinvolte solo 5.986 aziende, per un totale di 678.328 dipendenti. Di questi hanno votato in 350.749, quindi in definitiva poco meno di un quarto del milione e seicentomila metalmeccanici a cui viene applicato il CCNL.

Il dissenso comunque non è stato taciuto. Nonostante questa corsa falsata, nonostante le burocrazie compattamente schierate e nonostante una FIOM impegnata contro il dissenso, il No ha raggiunto il 20%: 68.695 mila lavoratori e lavoratrici hanno bocciato questo rinnovo. Prima di guardare ad alcuni profili di questo voto, una parentesi storica per apprezzarne il risultato complessivo. Nel 2008 ci fu l’ultimo rinnovo unitario FIM-FIOM-UILM, prima della lunga stagione dei contratti separati. Su quel contratto i sindacati di base, come anche l’allora sinistra della FIOM (Rete 28 aprile), si espressero contro, per la contrarietà su alcuni punti qualificanti dell’accordo (in particolare su flessibilità e straordinari obbligatori, inquadramento unico, aumenti salariali ridotti). Furono coinvolte nel voto quasi diecimila aziende, cinquecentotrentamila i lavoratori e lavoratrici votanti: il No fu al 25% (centoventinovemila lavoratori e lavoratrici). A sostenere quel voto, però, allora c’era un pezzo significativo della FIOM: un componente della segreteria nazionale, 3-4 funzionari del centro nazionale, segretari regionali e provinciali, molti funzionari nei territori: una presenza oggi infinitamente più ridotta, dopo otto anni di Landini e una sua costante e aggressiva pulizia di ogni dissenso interno. Non solo. Nel 2008 c’era una classe non ancora stremata dalla crisi, un tessuto di delegati e delegate attivo, reduce dalle battaglie di Melfi e sull’articolo 18, impegnato a difendere quel percorso e quella conflittualità. C’era una sinistra politica e sociale, che nonostante una sua incipiente deriva, accompagnò quel rinnovo con un’attenzione infinitamente maggiore a quella di oggi (basti guardare gli articoli, le interviste e le polemiche di allora su diversi giornali e siti).

I quasi sessantanovemila No di oggi sono quindi un numero consistente, in un quadro politico e sociale completamente diverso rispetto a quello di otto anni fa. La cosa più significativa di questo voto, inoltre, è la sua qualità. Il No si è espresso nella maggior parte nelle grosse industrie, nei settori più importati per la concentrazione della classe operaia organizzata e storicamente conflittuale. Dove la stessa FIOM ha ampio consenso o spesso un controllo totale o quasi totale. Ma non solo dove è presente, o influente, l’opposizione CGIL. L’accordo infatti è stato bocciato alla Dalmine di Bergamo, alla Fincantieri di Marghera e di Ancona, nei cantieri liguri, in tutti gli stabilimenti della Electrolux, alla Marcegaglia di Forlì, alla Same, alla Piaggio, alla GKN, all’Ilva di Genova, alla STM di Agrate e di Catania, all’Ansaldo, alle acciaierie AST di Terni e in molte altre fabbriche importanti. Dove le ragioni del No sono state presenti e dove i lavoratori hanno potuto farsi una opinione il dissenso ha raggiunto numeri importanti.

Con questo rinnovo si chiude comunque una fase politica sindacale, che ha visto bene o male la FIOM rappresentare una resistenza contro la gestione padronale della crisi, il tentativo di recuperare margini di profitto attraverso una compressione drastica del salario globale (diretto, indiretto e sociale) ed un aumento dello sfruttamento (durata e intensità del lavoro). Nei contratti separati, nella lotta contro Marchionne, nelle mobilitazioni nazionali del 2010 e del 2012, nello scontro con Camusso, la FIOM ha rappresentato non solo per i metalmeccanici, ma per tutto il mondo del lavoro, un punto di tenuta: il simbolo di un interesse generale, quello di classe. Sappiamo, ed abbiamo sempre denunciato, che da tempo la FIOM aveva abbandonato questa battaglia nella sua azione concreta: con la capitolazione a Grugliasco sul modello Marchionne, con la rinuncia a condurre le lotte in FCA, con la repressione interna delle minoranze, con l’abbandono di ogni mobilitazione di massa e la sua semplice rappresentazione mediatica (la "coalizione sociale"). La firma di questo contratto, però, segna la chiusura anche simbolica di una parabola: il gruppo dirigente storico della FIOM abdica per primo alla difesa del contratto nazionale, normalizza la propria azione nel quadro del Testo Unico del 10 gennaio (che due anni fa contestò) e si approssima ad entrare stabilmente nella maggioranza della CGIL.

Il risultato del referendum, come in altri settori le contestazioni a questa nuova stagione contrattuale, dicono però che alcuni settori sono disponibili ad una resistenza. Una resistenza che non è limitata ad avanguardie politiche marginali, ma che trova consenso in settori centrali della classe, in una disponibilità alla lotta in fabbriche e stabilimenti importanti.
Il Partito Comunista dei Lavoratori sarà a fianco - come lo è stato in maniera attiva attraverso i propri militanti durante la campagna per il No - di questa classe operaia che non si è voluta piegare ai diktat di Confindustria e delle burocrazie sindacali, compresa quella che fa a capo Landini. Questi sessantanovemila No, per il peso che portano in dote, devono diventare un esempio da estendere negli atri settori industriali. Da questi settori operai conflittuali bisogna ripartire per costruire una opposizione a questo accordo di restituzione, alle politiche padronali e a quelle di governo.


Partito Comunista dei Lavoratori

martedì 20 dicembre 2016

NO ALL'IPOTESI DI CCNL DEI METALMECCANICI









Questo contratto dà pochi spiccioli ai lavoratori, moltissimo ai padroni e peggiora quello precedente che la FIOM si era rifiutata di firmare. Rimane tutta la parte normativa: orario di lavoro (flessibilità e straordinari obbligatori), gestione ferie e Par, restrizione della malattia e vengono introdotte norme peggiorative per la legge 104. Inoltre, i premi di risultato diventeranno totalmente variabili (in base alla produttività).

PERCHÉ VOTARE NO

Il 26 novembre su “Il Sole 24 ore” si leggeva: “Contratto metalmeccanici: 92 euro fra welfare e busta paga”. Landini, Bentivoglio e Palombella confermavano questo aumento fantasma.

È UNA CIFRA INVENTATA

A tutti i lavoratori verrà riconosciuta l’inflazione con gli aumenti nel contratto nazionale. Verrà calcolata dopo che a maggio sarà stato reso noto dall’ ISTAT il valore dell’ IPCA ( indice dei prezzi a livello europeo).

Si stima per il 2016 un’inflazione dello 0,5% (pari a 9 euro) che si prevede arriverà all’ 1% nel 2017 e all’1,2% nel 2018. Se fossero confermati, si arriverà a un aumento di circa 51 Euro (fra tre anni) in busta paga. L’unica cosa sicura sono 9 Euro (al 5° livello), il resto non si sa. Si tratterebbe sempre di un adeguamento all’inflazione, per cui il potere di acquisto del salario rimarrà uguale.

A decorrere dal 1 gennaio 2017, gli aumenti dei minimi tabellari riconosciuti dopo questa data, assorbiranno gli aumenti individuali, nonché gli aumenti fissi collettivi, concordati in sede aziendale, salvo che siano stati concessi con clausola di non assorbibilità. In pratica, se per qualsiasi motivo la paga aumenta questo adeguamento all’inflazione non ci sarà.



IL GRANDE AFFARE DEI PADRONI? L’ASSISTENZA INTEGRATIVA

Le aziende verseranno per conto di ogni lavoratore 156 Euro all’anno a mètaSalute, “Fondo sanitario metalmeccanici” istituito da FIM, UILM, FEDERMACCANICA e ASSISTAL, nel 2011.

Questi soldi, anziché in busta paga, andranno alle assicurazioni, che (incassati i profitti) daranno pochissimo in rapporto ai soldi ricevuti.

Prima per aderire a questo fondo bisognava fare domanda; con questo contratto l’adesione sarà automatica e se un lavoratore non vorrà, dovrà presentare disdetta scritta, ma in questo caso non prenderà un centesimo. mètaSalute opera tramite Uni-Salute (assicurazione sanitaria) che, a sua volta, fa parte del gruppo Unipol Assicurazioni.

Così i burocrati sindacali diventano complici e soci in affari dei VAMPIRI della sanità privata.

PAGAMENTI IN NATURA: UN RITORNO AL MEDIOEVO

Dal 1° giugno 2017 le aziende attiveranno per tutti i lavoratori dei piani di “flexibel benefit”. Sono buoni spesa, pagamenti in natura, per un costo massimo di 100 euro. Nel 2018 e 2019 l’importo sarà elevato a 150 e 200 euro. Una cosa non è chiara: se c’è un massimo ci deve essere un minimo, quale è e chi lo decide? Nel contratto non è specificato.

Le aziende avranno due vantaggi. Primo, questi importi non saranno sottoposti al pagamento dei contributi (come se fossero pagamenti in nero). Secondo, una parte del salario anziché anticipata in busta paga sarà posticipata. Cioè, l’azienda pagherà questi “buoni” dopo che il lavoratore li avrà spesi.

VERSO LA DEMOLIZIONE DELLA 104

La legge 104 prevede il diritto a tre giorni di permesso al mese, a scelta del lavoratore e senza preavviso, per l’assistenza a un familiare invalido, malato o non autosufficiente.

Questo contratto prevede che, per avere i permessi, “il lavoratore presenti un piano di programmazione mensile degli stessi con un anticipo di 10 giorni rispetto al mese di fruizione, fatto salvi i casi di necessità e urgenza”. Chi stabilisce e con quali criteri i casi di urgenza e necessità? Nel contratto non è specificato.

È INACCETTABILE

Dichiarano di proteggere la salute dei lavoratori e dei loro familiari (con l’obbligo di aderire alla sanità integrativa), ma attaccano il diritto alla cura dei malati.

A pagarne di più le conseguenze saranno le donne, che in genere sono quelle su cui pesa maggiormente il lavoro d’assistenza parentale.

Il NO a questo contratto deve diventare il NO a decenni di sacrifici che sono serviti solo a ingrassare i padroni e impoverire i lavoratori.

NON AUMENTA IL SALARIO

DIMINUISCE I DIRITTI

APRE LA STRADA ALLA PRIVATIZZAZIONE DELLA SANITÀ

NO A UN ALTRO CONTRATTO TRUFFA!


Partito Comunista dei Lavoratori - Sezione Romagna "D. Maltoni"

venerdì 16 dicembre 2016

Expo criminale: il sindaco manager al servizio del capitale Anche Sala finisce nel registro degli indagati sull'affare Expo.



Un sindaco manager che negli anni si è mosso e districato con particolare astuzia nei rapporti tra politica, poteri forti e malaffare, prima al servizio della giunta di centrodestra a guida Letizia Moratti, poi folgorato sulla via del centrosinistra con la sua candidatura a sindaco della città di Milano sostenuta da tutta la sinistra democratica e riformista, compresa quella della Milano in Comune di Basilio Rizzo, pronta e prona a offrire il suo sostegno al ballottaggio.
L'uomo Expo, quello che doveva incarnare il proseguimento della (disastrosa) stagione arancione di Pisapia, l'uomo che ancora non ha presentato il bilancio ufficiale di Expo. L'uomo degno rappresentante di una sinistra cialtrona,complice dei poteri forti e del malaffare.
Expo è stata l'ennesima dimostrazione di come politici e affaristi vari si riempiono la bocca presentando i grandi eventi  e le grandi opere come opportunità di crescita e di sviluppo per le nostre città e per il nostro Paese.
Nella realtà dei fatti Expo non è stato altro che un grande banchetto per capitalisti e malaffare.
Altro che nutrire il pianeta! Ad essere nutrite sone state le tasche di pochi. A farne le spese i lavoratori e gli sfruttati di questa città, le periferie abbandonate che da Expo nulla hanno guadagnato.

Il Partito Comunista dei Lavoratori, l'unico partito che a sinistra si è presentato con una propria lista autonoma contro Sala, coerente con il suo programma, rivendica la cacciata di Sala.

Contro tutti i partiti che banchettano approfittando delle nostre risorse e del nostro territorio rivendichiamo l'unico governo in grado di spazzare il malaffare e la corruzione, il Governo dei lavoratori!

Se ne vadano tutti, governino i lavoratori!

Partito Comunista dei Lavoratori

Sezione di Milano

mercoledì 14 dicembre 2016

Governo Gentiloni: il renzismo senza Renzi



Il “nuovo” governo Gentiloni è la continuità mascherata del renzismo. Una forma di renzismo senza Renzi. Un governo-ponte che nelle intenzioni di Renzi dovrebbe dargli il tempo di preparare la sospirata rivincita elettorale. Il più presto possibile, s'intende, nella speranza di travasare sul PD il 41% del Sì alla riforma costituzionale (bocciata).

Per coltivare il sogno della rivincita, Renzi aveva tre necessità complementari. La prima: fare un (breve) passo indietro nella scena politica, per onorare le promesse pubbliche in caso di sconfitta e provare a riabilitare la propria immagine ammaccata. La seconda: disporre di un potere di controllo sul nuovo governo ed in particolare sulle scelte delicate in fatto di nomine pubbliche (che sono parte del blocco di potere del renzismo). La terza: disporre di un governo sufficientemente debole, incapace di fargli ombra, incapace di travalicare i tempi brevi che Renzi gli ha assegnato.

Il governo Gentiloni risponde a queste necessità. Matteo Renzi conserva una propria presenza diretta nell'esecutivo grazie all'inserimento di Luca Lotti e di Maria Elena Boschi, la più stretta scuderia renziana. Affida la partita decisiva della prossima legge elettorale ad Anna Finocchiaro, la cui fedeltà è stata già sperimentata nel fiancheggiamento diretto di Boschi lungo lo scontro sulla riforma istituzionale. Preserva i propri ministri economici fondamentali (Padoan e Poletti), per preservare il patto di ferro con Confindustria e con le banche. Offre rappresentanza ministeriale a tutte le correnti della maggioranza filorenziana del PD, per assicurarsi il controllo del fronte interno al partito al piede di partenza del suo congresso. Cancella la sola ministra Giannini, ormai bruciata sull'altare della Buona Scuola, e zavorra più di ogni altra per l'immagine del renzismo. Respinge infine la candidatura ministeriale di Verdini, sia per evitare nuovi appesantimenti di immagine, sia soprattutto perché un governo più ballerino sui numeri al Senato avrà maggiori difficoltà a durare, e potrà essere più facilmente sfiduciato.

Questa operazione tuttavia ha due punti di debolezza.
La prima è l'immagine pubblica obiettivamente provocatoria di un governo che schiera in prima fila tutte le figure sconfitte dal No del 4 dicembre: la garanzia di controllo renziano sul governo viene pagata al caro prezzo di una sfrontata continuità ministeriale. Il renzismo senza Renzi oltre una certa soglia di impudicizia rischia di zavorrare ulteriormente proprio l'immagine di Renzi e le sue ambizioni di rivincita.

Il secondo fattore di complicazione riguarda il rapporto con una parte non irrilevante dei poteri forti. Poteri a suo tempo tutti schierati col renzismo nel momento della sua ascesa e delle sue promesse di stabilizzazione reazionaria, ma che oggi diffidano dello spirito avventuriero di un (aspirante) Bonaparte sconfitto che rischia di anteporre la propria sete di rivincita all'interesse generale di sistema. Lo sguardo critico della grande stampa borghese verso un governo paravento delle ambizioni del renzismo è sintomatico di questa preoccupazione. La stessa Presidenza della Repubblica ne è investita.

Resta il fatto che il governo Gentiloni continuerà le pratiche correnti del renzismo e del grande capitale contro i lavoratori italiani. La continuità della gestione del Jobs Act. La continuità della detassazione dei profitti già sigillata dall'ultima Legge di stabilità, a carico di spese e protezioni sociali. La continuità del soccorso pubblico al potere bancario, con l'annunciato salvataggio del Monte dei Paschi di Siena a carico dei lavoratori contribuenti. La continuità delle politiche di segregazione e di espulsione dei migranti, in sintonia con la campagna del populismo reazionario (Salvini e Di Battista).

La costruzione di un'opposizione sociale, unitaria e di massa, contro il renzismo e la sua versione mascherata, è l'unica via per dare una prospettiva progressiva alla vittoria del No del 4 dicembre.

Partito Comunista dei Lavoratori

mercoledì 7 dicembre 2016

TRE VOLTE NO OLTRE IL NO A RENZI, RESPINGERE IL CCNL METALMECCANICI



La disfatta che il NO al referendum ha imposto al populismo di governo e al progetto bonapartista di Renzi rappresentano per i lavoratori un fatto straordinariamente positivo. Il governo Renzi si è caratterizzato come uno dei governi più antioperai della storia della Repubblica, coniugando questo suo tratto con il tentativo di istituzionalizzare l'azione di governo a basso consenso, attraverso la combinazione della riforma costituzionale e di una legge elettorale tra le più antidemocratiche mai proposte. Proprio le resistenze sociali alle principali bandiere del renzismo,  il Jobs Act e la Buona Scuola, hanno gettato i semi di una crisi di consenso che è sfociata nel tracollo referendario. La sconfitta del governo Renzi e della sua riforma significa dunque anche un freno all'avanzata dei padroni sul terreno del conflitto di classe dal versante istituzionale.
Il NO al referendum è stato caratterizzato anche dalla natura composita dei fronti tanto sociali quanto politici che lo hanno sostenuto. Le destre populiste (Grillo, Salvini, Berlusconi) si stanno  già lanciando come avvoltoi sul cadavere del renzismo per riuscire a capitalizzare a loro uso e consumo il risultato del voto tutte nel nome di una loro specifica soluzione reazionaria della crisi in corso. La Lega punta alla ricompattazione del centrodestra intorno a Salvini, nel nome dell'imitazione di Donald Trump, della caccia ai migranti e del più becero nazionalismo; Berlusconi tenta di spingere il PD, ora visibilmente indebolito, ad un nuovo abbraccio su legge elettorale, riforme istituzionali e detassazione delle imprese; il M5S invoca elezioni immediate (con l'Italicum) per coronare la corsa al governo imperniata su un programma che contrappone frontalmente il reddito di cittadinanza alla redistribuzione del lavoro, punta all'abolizione dell'IRAP e spinge su umori xenofobi e nazionalisti.
Il movimento operaio non ha niente da spartire con nessuna di queste alternative. Un sonoro NO dunque deve essere risposto anche ad ogni subordinazione passiva alle destre che si contendono il bottino di guerra. La posta in gioco ora è una risposta di classe alla crisi in corso, risposta che solo il movimento operaio può promuovere.
Per fare ciò occorre mettere in campo una mobilitazione straordinaria che metta sul piatto un programma di rottura, in grado di voltare pagina; un programma che porti le bandiere della cancellazione di tutte le leggi antioperaie promosse negli ultimi 30 anni, a partire dal Jobs Act e dalla Buona scuola, che rompa con ogni feticcio della governabilità borghese e pretenda  una legge elettorale compiutamente proporzionale, che possa abolire il debito pubblico verso le banche che possa licenziare i licenziatori e ripartire tra tutti il lavoro esistente, attraverso la riduzione generale dell'orario di lavoro a parità di salario. Un NO, dunque, anche alla pesante eredità che il Governo Renzi ci lascia in termini di sfondamento padronale sui diritti e sui salari dei lavoratori.
Al servizio di questa prospettiva autonoma, di questo programma indipendente dei lavoratori, è necessario costruire il più ampio fronte di lotta del movimento operaio e delle sue organizzazioni. E al servizio di tutto ciò vanno respinti con chiaro e forte NO tutti gli accordi sindacali a perdere che la burocrazia sindacale ha regalato al governo alla vigilia del referendum, nella pubblica amministrazione come nei servizi dell'igene ambientale, come per i metalmeccanici. Sarà fondamentale respingere nelle assemblee operaie del 19/20/21 il CCNL metalmeccanico: il NO a Renzi deve diventare il NO operaio a decenni di sacrifici, l'unico NO che può aprire lo spazio per la risalita della china, l'unico che può garantire una soluzione di classe della crisi.