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mercoledì 31 maggio 2017

LISSONE (MB) - AMMINISTRATIVE 11 e 25 GIUGNO 2017


SERVIZI SOCIALI

Occorre interrompere la privatizzazione delle aziende municipalizzate e reinternalizzare quelle già privatizzate. i servizi che riguardano la gestione dei rifiuti, i trasporti pubblici e tutti gli altri servizi di utilità pubblica devono restare pubblici e sotto controllo dei cittadini. Stabilizzare immediatamente i lavoratori che lavorano con contratti a tempo determinato presso le strutture che offrono servizi ai cittadini di Lissone.

Nella cronica carenza di servizi, spicca ancor più l’assenza di attenzione alle fasce più deboli della popolazione: i bambini, gli anziani, i disabili. Proponiamo innanzitutto un piano di investimenti cospicuo per gli asili nido e per le scuole materne ampliandone gli orari di apertura sia giornaliera che annuale. Adeguare gli orari degli asili nido e delle scuole materne, con quello dei genitori lavoratori, diviene una nostra priorità, favorendo anche gli investimenti mirati alla formazione di personale qualificato e per la creazione di nuove figure professionali come per esempio quella della “baby-sitter comunale”. Tutto questo solo chiudendo qualsiasi forma di finanziamento, anche occulto, alle scuole private e confessionali e dirottandolo su quelle pubbliche. Per la fascia anziana della popolazione, occorre sia creare centri di aggregazione aggiuntivi all’attuale, sia incrementarne i servizi, primo fra tutti l’assistenza domiciliare. Bisogna impegnarsi a fondo affinché siano definitivamente abbattute tutte le barriere architettoniche e perché alle persone    disabili siano



riconosciuti tutti i sostegni (economici e di assistenza) di cui hanno bisogno per poter vivere in maniera indipendente e dignitosa. Occorre anche prevedere strutture di accoglienza e di reinserimento in modo da  fare fronte alle varie condizioni di disagio presenti.
Diviene necessario abolire il finanziamento pubblico alle scuole private, laiche o confessionali, devolvendo le risorse così risparmiate all'istruzione e ai nidi pubblici. mettere in sicurezza tutti gli edifici scolastici pubblici con un grande piano di ristrutturazione e recupero di strutture; istituzione di servizi a supporto delle istituzioni scolastiche pubbliche di ogni ordine e grado.


In sintesi il PCL propone per i giovani:


·         la creazione di spazi di aggregazione giovanile completamente autogestite dai giovani stessi;
·         la costituzione di una consulta giovanile e di un consiglio comunale dei ragazzi il cui scopo prioritario sarà quello di creare un canale di privilegio tra amministrazione e giovani, dando loro la possibilità di esporre le proprie istanze e di proporre soluzioni alle problematiche di Lissone;
·         l’individuazione di spazi in cui svolgere attività artistiche quali la musica, il teatro ecc… completamente gratuiti; in questo modo si offre la possibilità al giovane di usufruire di sale prove adeguatamente attrezzate ai fini di esprimere la propria musica e arte in genere;
·         la creazione di una “carta giovanile” che permetta di ottenere agevolazioni tariffarie ( sui mezzi di trasporto pubblici), e particolari sconti per usufruire di cinema o nell’acquisto di libri e più in generale nell’accesso a qualsiasi tipo di attività culurale.

Il PCL per gli anziani propone:



·         il miglioramento del centro anziani già presente sul territorio;
·         la creazione di altri centri anziani nei vari quartieri lissonesi che abbiano la medesima funzione, con l’obbiettivo di coinvolgere le persone anziane che per svariati motivi non sono in grado di raggiungere quello centrale;
·         la realizzazione di una nuova casa di riposo che serva ad ospitare quei pazienti che a causa di quadri clinici complessi ed irreversibili, o per obiettive difficoltà della famiglia ad aiutarli, devono trovare ospitalità in una struttura moderna ed efficiente dotata di tutti quei servizi atti a migliorare le condizioni di vita;
·           l’assistenza domiciliare gratuita

Il PCL per gli immigrati propone:


·         un censimento che permetta poi la realizzazione di servizi (come per esempio una consulenza legale ed un insegnamento linguistico) adeguati alla dimensione del problema;
·         la creazione di un importante punto di incontro interculturale;
·         la creazione di uno sportello comunale interamente gestito dagli stranieri per agevolare reti locali di intervento e di sostegno, soprattutto per favorire  e  sbrigare le pratiche di ricongiungimento;

·         il recupero di edifici dismessi per realizzare abitazioni collettive autogestite dai migranti in attesa di poter accedere alle normali abitazioni.

venerdì 26 maggio 2017

LA CRISI BRASILIANA A UN PUNTO DI SVOLTA



A un anno dall'impeachment di Dilma Rousseff, il Brasile precipita in una nuova crisi politica e istituzionale.

Il ciclone delle inchieste giudiziarie sulla corruzione che aveva investito il PT travolge il governo di Michael Temer. Temer è direttamente coinvolto, sulla base di registrazioni inoppugnabili che documentano il pagamento di mazzette all'ex presidente della Camera (Eduardo Cunha, oggi in carcere) per comprare il suo silenzio; mentre il colosso mondiale della carne (JBS) rivela donazioni illegali negoziate direttamente con Temer che ammonterebbero negli ultimi dieci anni a 4,7 milioni di reales (l'equivalente di un milione e mezzo di euro).

Il presidente grida al complotto e intima al Tribunale Supremo di sospendere le indagini. Ma la sua situazione si fa sempre di più insostenibile. Ben otto mozioni parlamentari rivendicano l'impeachment contro Temer. Suoi stretti collaboratori, come l'assessore speciale Sandro Mabel, si dimettono. Il PSB, partito alleato di governo (un ministro, 35 deputati, 7 senatori), si è ritirato dalla maggioranza e chiede a Temer di rinunciare. I gruppi parlamentari del PSDB, altro partito di maggioranza, vacillano. Ambienti interni allo stesso partito del presidente (PMDB) premono per il suo ritiro. L'Ordine nazionale degli avvocati chiede pubblicamente la revoca di Temer. I principali registi ed attori dell'operazione di destituzione di Roussef sono dunque minacciati da un'analoga sorte.

Ma non si tratta della semplice ripetizione di ciò che accadde un anno fa. Oggi la crisi politica e istituzionale del regime borghese è più grave. Sia per ragioni istituzionali, sia soprattutto per l'irruzione sulla scena politica del movimento operaio brasiliano, il gigante dell'America Latina.


LA PARALISI POLITICA E ISTITUZIONALE

Sul terreno strettamente istituzionale non è agevole trovare lo sbocco della crisi politica.

In caso di dimissioni di Temer, la via delle elezioni anticipate rispetto alla data prevista del dicembre 2018 è ostacolata da una norma costituzionale che prevede una possibile anticipazione delle urne solo nel caso che la rinuncia del presidente avvenga nei primi due anni del suo mandato. Ma Temer era già parte del precedente governo Rousseff, quale vicepresidente. A meno di una riforma costituzionale quello sbocco sembra dunque assai problematico.

L'altra possibilità è la nomina di un nuovo presidente da parte del Congresso, con una elezione pertanto indiretta. Ma un terzo dei deputati e larga parte dei senatori sono coinvolti dalle inchieste giudiziarie per corruzione, come lo sono buona parte dei candidati in pectore alla successione. La via istituzionalmente possibile è dunque politicamente temeraria.

Temer cerca di usare questa impasse per restare in sella, presentandosi alla classe dominante come l'unico possibile garante della governabilità del sistema. Ma il suo indebolimento politico verticale, che l'ha portato a un grado di consenso nettamente inferiore al 10% a livello di massa, sta trasformando proprio la sua ostinata resistenza in un fattore di radicalizzazione della crisi, anche sociale.


L'IRRUZIONE DELLA CLASSE OPERAIA

L'irruzione della classe operaia brasiliana sul terreno della lotta è il fatto nuovo dello scenario politico brasiliano.

La dinamica della lotta di classe e di massa in Brasile ha conosciuto in questi anni un processo contraddittorio, anche in relazione alla crisi capitalistica.
Il prolungato sviluppo economico brasiliano degli anni 2000, trainato dalle materie prime e dallo sviluppo cinese, conosceva un arresto all'inizio del presente decennio, per effetto della crisi capitalistica internazionale. Le mobilitazioni dell'estate 2013 contro il governo Rousseff espressero un'importante reazione diffusa di settori giovanili alle politiche di austerità del governo PT e alla erosione progressiva delle misure redistributive degli anni del boom. Ma la classe operaia, a livello di massa, restò prevalentemente passiva.
Un anno fa l'operazione di destituzione parlamentare di Rousseff fu accompagnata da manifestazioni di massa della destra reazionaria, che cercò di capitalizzare lo scollamento passivo tra grandi masse e PT ponendosi alla testa dell'indignazione popolare contro la corruzione. Il tutto sullo sfondo di una crisi capitalistica molto profonda che nel 2015/2016 ha visto un crollo del 7,2% del PIL brasiliano. Lo stesso avvento del governo Temer, dopo un'estenuante travaglio parlamentare, non innescò un'immediata risposta sociale, nonostante il discredito del personaggio. Le manifestazioni di protesta guidate dal PT coinvolgevano settori di attivisti della sinistra politica, non la massa proletaria. Ancora nel marzo scorso il corrispondente di Le Monde in Brasile poteva scrivere: «Le strade che un anno fa vedevano manifestazioni di massa oggi tacciono».

Quel silenzio non è durato a lungo. E la ragione è semplice. Nel tentativo di consolidare il proprio legame con la grande borghesia brasiliana e il capitale finanziario internazionale, il governo Temer ha promosso un avventuroso attacco frontale alla classe operaia. Ha fatto approvare una legge che blocca la spesa sociale per vent'anni. Ha promosso un disegno di legge che alza l'età minima per accedere alla pensione. Ha annunciato una riforma della legislazione del lavoro che scompone i periodi di ferie secondo le volontà delle imprese, e alza a 12 ore il tetto massimo di lavoro giornaliero. Questo attacco frontale da parte di un governo già impopolare ha innescato la risposta di massa.

Lo sciopero generale del 28 aprile, promosso dalla CUT, è stato il primo sciopero generale dal 1996 e il più grande sciopero generale della storia del Brasile dopo il 1989. Hanno scioperato trentacinque milioni di salariati. Non solo nei trasporti e nei servizi, ma nell'industria. Il proletariato industriale è stato il protagonista della giornata. Nella siderurgia, nelle raffinerie, nei cantieri navali, in tutti gli stabilimenti dell'industria automobilistica (Volkswagen, Ford, General Motors, Renault...). Più volte combinando il blocco della produzione con il blocco delle vie di comunicazione attraverso barricate di strada. Il tutto con una rivendicazione centrale: il ritiro immediato delle misure antioperaie, ma con la sovrapposizione progressiva della rivendicazione politica della cacciata del governo. “Fora Temer” è da un mese la parola d'ordine del movimento operaio brasiliano.

Questa dinamica pone una riflessione di fondo. La svolta a destra di Temer e le sue provocazioni sociali si scontrano con una classe operaia strutturalmente rafforzata dalla fase prolungata del boom economico. È la stessa dinamica che in forme diverse coinvolge l'esperienza Macri in Argentina. La ripresa di massa in entrambi i paesi misura la fragilità della svolta a destra latinoamericana (come analizzato dal documento internazionale del nostro quarto Congresso). Il quadro continentale è lungi dall'essere stabilizzato.


PER L'AUTORGANIZZAZIONE DI MASSA. PER UN GOVERNO DEI LAVORATORI

Il combinarsi della crisi politico istituzionale con la radicalizzazione del movimento operaio può ora innescare sviluppi imprevedibili della situazione brasiliana.

L'enorme manifestazione di massa del 24 maggio a Brasilia, l'incendio di due ministeri assaltati dalla folla, il temerario uso dell'esercito contro i manifestanti come non avveniva dai tempi della dittatura, la revoca obbligata di questa misura repressiva da parte di un governo indebolito e alla sbando, scandiscono negli ultimi giorni l'accelerazione della crisi, e lo spostamento una volta di più del terreno stesso dello scontro, dalle istituzioni alla piazza. La caduta ripetuta della Borsa di San Paolo (-8% il 18 maggio) registra a suo modo la dinamica generale.

Le burocrazie sindacali di CUT e CTB, legate al PT, cercano di contenere e deviare la dinamica di massa sul terreno elettorale attorno alla richiesta di elezioni immediate: è il tentativo del PT di rilanciare la candidatura di Lula alle elezioni presidenziali, prima di una possibile stretta giudiziaria ai suoi danni.

I marxisti rivoluzionari hanno il compito opposto: dare al movimento della classe operaia una prospettiva indipendente sul terreno della lotta. Sciopero generale sino al ritiro delle misure antioperaie! Fora Temer! Un congresso nazionale di delegati operai, eletti nei luoghi di lavoro, che definisca un programma di svolta, per un'alternativa di potere dei lavoratori! A fronte della crisi istituzionale e dell'ascesa del movimento operaio, diventa decisiva l'indicazione di una soluzione politica della crisi: la parola d'ordine dell'autorganizzazione di massa e di un'alternativa politica di classe assume una valenza centrale.

Non si tratta di avanzare la parola d'ordine democratica dell'Assemblea costituente (che sembra divenuta la parola d'ordine universale di alcune organizzazioni trotskiste, dal Venezuela al Brasile). Si tratta di collegare la mobilitazione in atto alla prospettiva del governo dei lavoratori come unica vera soluzione della crisi brasiliana.


Marco Ferrando

mercoledì 24 maggio 2017

CONTRO I POLITICISMO BORGHESI. RILANCIARE L'OPPOSIZIONE DI CLASSE

Testo del volantino nazionale mensile del PCL


Con la vittoria nelle primarie del PD Renzi tenta di rilanciare le proprie ambizioni nello scenario politico italiano.

Il voto referendario del 4 dicembre ha seppellito sotto una valanga di no il progetto reazionario di Renzi che mirava a concentrare nelle mani dell'uomo solo al comando tutte le principali leve istituzionali. Le basi materiali della sconfitta di Renzi vanno ricercate nello sfaldamento delle sue basi politiche di appoggio, progressivamente venute meno dopo gli sfondamenti che il governo Renzi ha operato su articolo 18, JobsAct e Buona Scuola. Il 60% di no, in ampia parte di lavoratori e giovani, sono anche il riflesso di quella scollatura e hanno chiuso con una disfatta il primo capitolo della vicenda politica renziana.

Il governo Gentiloni è segnato dalla debolezza della sua maggioranza politica: la sua ritirata sui voucher, con lo scopo malcelato di evitare una seconda sconfitta referendaria, ha dimostrato la sua fragilità. La sua composizione ministeriale, che ha riproposto provocatoriamente i peggiori interpreti del governo Renzi, assume oggi con i rinnovati scandali di molti dei suoi esponenti di spicco a partire da Boschi un carattere di pesantezza sulle rinnovate ambizioni di Renzi, a partire dal delicato passaggio della legge di stabilità di fine anno.

Con il ritorno alla segreteria del PD, Renzi tenta di rilanciare le proprie ambizioni, sganciando definitivamente il PD da ogni logica di vecchio centrosinistra e lanciandosi alla conquista dell'elettorato di Forza Italia e invocando per sé il voto utile di sinistra, in aperta contrapposizione a MDP e al resto della sinistra politica riformista.

Per provare a vincere la sua sfida, Renzi cercherà probabilmente una prova di forza per disegnare una legge elettorale su misura delle sue ambizioni per tentare di arrivare alle elezioni anticipate in autunno.

Ma la domanda centrale che interroga tutti i principali attori dell'establishment italiano è: quale governo dopo le elezioni? Con la fine del vecchio bipolarismo e la disfatta del progetto istituzionale reazionario di Renzi il 4 dicembre, la borghesia italiana è rimasta senza una soluzione di governo.
Il consolidamento di un quadro tripolare e l'impasse istituzionale, a partire dalla legge elettorale, non offre alcuno sbocco stabile di governo. Tutti i principali esponenti sono impegnati a tirare acqua al proprio mulino, dal M5S che tenta di cavalcare ogni scandalo allo scopo della propria affermazione elettorale, alla Lega di Salvini che si barcamena tra ambizioni lepeniste e nostalgie di centrodestra, fino alla stessa ipotesi nuovamente alla ribalta di un governo dell'inciucio tra Berlusconi e Renzi.

Il movimento operaio non ha nulla a che spartire con questi disegni, tutti mirati contro i suoi interessi sociali, tutti interessati a costruire sulla crisi politica della seconda repubblica diverse soluzioni reazionarie.

Difendere l'autonomia del movimento operaio dai tre poli reazionari (renzismo, salvinismo, grillismo), rilanciare e unificare l'opposizione sociale di massa attorno a un proprio programma indipendente, costruire la prospettiva di un'alternativa di classe alla crisi politica borghese, è tanto più oggi il compito dell'avanguardia.

Il PCL si batte e si batterà come sempre in ogni lotta per questa prospettiva.

Partito Comunista dei Lavoratori

giovedì 18 maggio 2017

LISSONE AL VOTO

17 maggio - Dibattito pubblico con i candidati a sindaco di Lissone organizzato dal Giornale Monza Brianza.

Per il Partito Comunista dei Lavoratori

FILIPPO PIACERE




 

mercoledì 17 maggio 2017

RICORDIAMO ALBERTO BRASILI


Giovedì 25 maggio 2017 - ore 18,30 in via Mascagni


LISSONE (MB) - AMMINISTRATIVE 2017

Il Partito Comunista dei Lavoratori con il suo programma si impegna per

IL DIRITTO ALLA CASA
Requisire le case sfitte, a partire da quelle detenute dalle grandi società immobiliari, e porle a disposizione della popolazione povera e bisognosa.
Requisire le grandi proprietà immobiliari del Clero (esclusi i luoghi di culto), e usarle a fini sociali sotto controllo pubblico, a partire da strutture autogestite per i giovani e di strutture di ritrovo per anziani.
Istituzione di un fondo a sostegno degli affitti per offrire garanzie di continuità alle famiglie, una sorta di canone sociale diviso in due parti, una versata dall’inquilino, l’altra dal fondo di sostegno sociale.
Blocco totale ed a tempo indeterminato degli sfratti in corso, il diritto alla casa non è uno slogan, rientra nei bisogni primari, non è un fatto privato ma politico.

IL LAVORO
Promuovere un autonomo controllo, col pieno coinvolgimento di comitati di quartiere e strutture sindacali per censire in modo capillare tutti i casi di sfruttamento odioso del lavoro nero e irregolare, di evasione fiscale e contributiva.
Imporre la regolarizzazione dei lavoratori sfruttati o la requisizione delle aziende responsabili e investire le risorse così recuperate nell'assunzione a tempo indeterminato di tutti i precari della pubblica amministrazione.

L’AMBIENTE E IL TERRITORIO
No alla cementificazione selvaggia del territorio, è ora di dire basta ai regali concessi dalla destra ai soliti costruttori.
Stop a tutte le costruzioni, sia in orizzontale sia in verticale, per riesaminare tutti i piani integrati d’intervento in cantiere.

NO ALLA PEDEMONTANA!
Lunga 157 km totali, invaderà anche Lissone a ridosso di S.Margherita nel tratto C. Il progetto, già attuato in parte, crea un ulteriore grave impatto sul territorio, senza produrre per i cittadini benefici riguardo la viabilità e l’urbanistica.

IL PCL RIVENDICA:
• La centralità del riuso pubblico e popolare del territorio;
• Una nuova politica dei trasporti per ripubblicizzare il settore (sia su ferro che su gomma);
• La lotta contro gli interessi speculativi (appalti, sub appalti, lavoro nero e precario…) che dilapidano risorse finanziarie pubbliche che potrebbero essere utilizzate in modo ben diverso.

IL SOCIALE
Rifiutare di subordinarsi al Patto Finanziario di Stabilità che sta strangolando i Comuni a vantaggio delle banche e ripudiare il debito pubblico contratto con le banche: le risorse così risparmiate e recuperate vanno investite nei servizi pubblici e sociali, a tutela dei lavoratori e della popolazione povera.
Opporsi al finanziamento regionale delle cliniche private, a vantaggio della sanità pubblica e della cancellazione dei tickets.
Abolire il finanziamento pubblico di scuole private, laiche o confessionali, devolvendo le risorse così risparmiate all’istruzione pubblica e agli asili.
Creazione di scuole materne ed asili nido completamente pubblici, abolendo lo sbarramento numerico.
Abbattere i privilegi istituzionali: sindaco, assessori, dirigenti del Comune e delle aziende comunali dovranno avere uno stipendio non superiore a quello di un operaio specializzato. Le risorse così liberate dovranno partecipare al finanziamento di un salario sociale ai disoccupati in cerca di lavoro.

Tutti i servizi sociali devono essere pubblici, sotto controllo sociale. Tutte le aziende e servizi privatizzati a Lissone in tanti anni, vanno recuperati al controllo pubblico.

martedì 16 maggio 2017

Gli Anni '70 e la costruzione di un Partito Marxista Rivoluzionario

Franco Grisolia, dirigente del Partito Comunista dei Lavoratori parla degli anni '70 e la costruzione del Gruppo Bolscevico Leninista.



 

lunedì 15 maggio 2017

ELEZIONI AMMINISTRATIVE 11 e 25 GIUGNO 2017 - LISSONE (MB)

Non siamo alla ricerca di pacche sulle spalle da parte di ambienti benpensanti, né della loro legittimazione. Noi non abbiamo altro interesse da difendere che l'interesse dei lavoratori. Non facciamo politica per prendere voti, ma chiediamo voti per una politica. Una politica intransigente per la difesa del lavoro.



 

domenica 14 maggio 2017

C’E’ BISOGNO DI SINISTRA… QUELLA VERA!



Il Partito Comunista dei Lavoratori partecipa alle elezioni comunali di Lissone con un punto di vista alternativo: quello dei lavoratori/lavoratrici, dei nativi e dei migranti, dei giovani, dei precari e dei disoccupati.
Noi non abbiamo altro interesse da difendere che quello dei lavoratori e la loro liberazione. Non facciamo politica per prendere voti, ma chiediamo voti a una politica: una politica intransigente di difesa del lavoro.
Per questo siamo contro le destre (quella di Renzi, di Salvini e di Grillo) che si contendono il potere ma che, tutte, sia pure in modo diverso, sono contro i lavoratori. In particolare il M5S disvela sempre più il proprio programma antioperaio. Una ideologia, quella grillina, che dissolve le classi, le loro rappresentanze sindacali, il conflitto in una massa indistinta di “cittadini” atomizzati", soli davanti al computer. Basta con gli operai contro i padroni; uno vale uno e tutti sono uguali.
“Ogni lavoratore si rappresenti da solo, il sindacato non serve a nulla”, affermava il grillino Di Maio a proposito dei licenziamenti dei lavoratori della società Almaviva. Ovviamente nulla di più gradito per padroni grandi e piccoli ma nulla di più falso storicamente e nella vita quotidiana di milioni di lavoratori.
Le nostre rivendicazioni programmatiche, sul terreno generale, sono dichiaratamente “di parte”: la parte del lavoro, dei giovani precari, dei disoccupati, dei migranti (la larga maggioranza della popolazione lissonese) contro la parte dei salotti, della borghesia benpensante, dei poteri forti cittadini (la piccola minoranza di banchieri, industriali, costruttori, Curia, e dei loro ambienti ramificati).
Rifiutiamo la scelta tra la peste e il colera, europeisti e sovranisti-nazionalisti sono la faccia della stessa medaglia: liberista, regressiva, antisociale. Costruiamo insieme l’alternativa socialista e rivoluzionaria al sistema capitalista.

sabato 13 maggio 2017

PER UNA SOLUZIONE ANTICAPITALISTA IN VENEZUELA




La crisi del nazionalismo latinoamericano ha trovato in Venezuela il suo punto di massima precipitazione. La crisi ha una precisa base materiale, connessa alla crisi capitalistica internazionale iniziata nel 2008.

Il Venezuela è il paese che ha i maggiori giacimenti petroliferi del mondo. Il modello capitalistico venezuelano si reggeva e si regge sull'esportazione del petrolio. Il regime “bolivariano” ha fatto dell'esportazione petrolifera la fonte di finanziamento di misure sociali per ampi settori di massa, attraverso il sistema delle cosiddette missiones. Misure sociali sicuramente più limitate di quelle elargite a suo tempo, in un altro contesto storico, dal nazionalismo peronista in Argentina, e tuttavia capaci di assicurare al chavismo una vasta base di appoggio negli strati popolari, urbani e rurali. L'appoggio popolare, a sua volta, diveniva la principale leva negoziale del regime nazionalista nel proprio rapporto con la borghesia venezuelana (innanzitutto la Federcameras), con gli stati imperialisti (a partire dagli USA), con le loro multinazionali (in particolare nel campo estrattivo). L'organizzazione attiva della base di massa del chavismo era in funzione di questa politica. L'osmosi del regime con l'apparato militare, attraverso l'offerta di ruoli centrali agli ufficiali in campo economico (aziende statali) e istituzionale (governatorati), metteva in sicurezza questo equilibrio sociale.

All'interno di questo equilibrio non sono certo mancate contraddizioni profonde tra il regime nazionalista e l'imperialismo, perché il chavismo è, a suo modo, politicamente autonomo dall'imperialismo, a differenza dei vecchi partiti borghesi venezuelani. Tuttavia il regime nazionalista, lungi dal rompere con l'imperialismo, ha sempre salvaguardato un rapporto di collaborazione: ha pagato regolarmente il debito pubblico al capitale finanziario internazionale; ha tutelato le grandi imprese americane ed europee, anche nel caso di parziali interventi di nazionalizzazione, attraverso il sistema di lauti indennizzi (a volte superiori alle stesse quotazioni di borsa); ha risparmiato le proprietà della ricca borghesia venezuelana spesso intrecciata con gli interessi imperialisti. Ciò che ha inoltre alimentato lo sviluppo abnorme di una nuova borghesia affaristica e corruttrice (la cosiddetta “boliborghesia”), cresciuta nello spazio di intermediazione del regime col capitale finanziario, e per questo indissolubilmente legata al chavismo.
È quello che larga parte della sinistra ha chiamato... il “socialismo del XXI secolo”.


LA CRISI PROFONDA DEL CHAVISMO

Questo equilibrio sociale ha retto sino a che ha retto la rendita petrolifera. La rendita assicurata da un barile di petrolio a (oltre) cento dollari consentiva un ampio spazio di manovra al regime nazionalista e alla sua autorappresentazione propagandistica di baluardo del popolo. Tutto si teneva: i sussidi e i servizi a favore delle periferie assieme alla corruzione dilagante e al pagamento del debito. Ma proprio per questa ragione il crollo del prezzo del petrolio sino a 40 dollari (per poi risalire di poco) ha minato le fondamenta dell'intero edificio, confermando una dipendenza strutturale del Venezuela dal greggio che il chavismo non ha mai neppure scalfito.

La recessione che ha colpito il Venezuela ha pochi paragoni al mondo: nei soli due ultimi anni il PIL è calato del 18%, si prevede un ulteriore calo del 4% quest'anno. L'inflazione è salita al 600%. La penuria di luce elettrica, acqua corrente, medicinali, beni alimentari segna la vita quotidiana delle masse popolari. I prezzi calmierati sanciti dal governo sono aggirati da un mercato nero sempre più vasto e incontrollato. Tutto ciò mentre la borghesia venezuelana osserva la crisi dalle lussuose terrazze di Caracas e porta all'estero i propri capitali attraverso il canale delle banche.

La crisi di consenso del chavismo, ulteriormente aggravata dalla morte di Ugo Chavez, ha trovato una espressione inequivocabile nelle elezioni politiche dell'Assemblea Nazionale del 6 dicembre 2015. Per la prima volta il chavismo perdeva la maggioranza in Parlamento a vantaggio della destra della MUD. Le dimensioni della sconfitta (MUD al 56%, PSUV al 40%) davano la misura del tracollo. Si configurava così quella sorta di dualismo di poteri tra Assemblea Nazionale da un lato, governo e regime chavista dall'altro, che segna l'attuale precipitazione della crisi politica.


FUORI E CONTRO LA MOBILITAZIONE REAZIONARIA E FILOIMPERIALISTA

La mobilitazione di massa animata dalla MUD ha il segno indiscutibile della reazione.

Il personale politico del MUD, a partire da Voluntad Popular, è in larga parte lo stesso che aveva puntato al rovesciamento golpista di Chavez nel 2002. Esso cerca di sfruttare l'onda lunga della svolta a destra in Argentina e Brasile ai fini della propria rivincita. Ha il sostegno politico e materiale dell'imperialismo USA, che ambisce riprendere il controllo politico diretto del Venezuela attraverso il proprio personale fiduciario, tanto più in un contesto in cui la Russia e soprattutto la Cina hanno allargato la propria presenza nel paese.

Il programma della MUD punta a smantellare l'intero sistema delle missiones chaviste per imporre una drastica svolta liberista: privatizzazione generale, liberalizzazione dei prezzi, vendita delle case popolari, licenziamenti di massa nella pubblica amministrazione, cancellazione dei sussidi. La bandiera propagandistica delle libere elezioni, della lotta alla corruzione, di una libera costituente, avvolge questo preciso contenuto sociale, antioperaio e antipopolare.

La destra venezuelana ha sicuramente conquistato una base attiva nelle libere professioni, nella piccola borghesia, in settori popolari (in particolare studenteschi), facendone uno strumento di mobilitazione di massa. Le contraddizioni politiche tradizionali all'interno della MUD (tra un settore borghese liberale disposto a negoziare col chavismo e il settore più apertamente golpista) sembrano temporaneamente congelate dalla polarizzazione dello scontro col governo e dalla crisi dello stesso spazio negoziale. La parola d'ordine unificante della mobilitazione della destra è oggi “dimissioni di Maduro”. Il suo metodo di lotta l'occupazione delle piazze.

Da questo punto di vista, appaiono totalmente sbagliate le posizioni di quei settori della sinistra trotskista che in nome dell'opposizione al chavismo si schierano, formalmente o di fatto, al fianco della mobilitazione in atto. È il caso della LIT e della sua sezione venezuelana (UST), che ha appoggiato il referendum revocatorio promosso dalla destra con la parola d'ordine “via Maduro”. È il caso della UIT e della sua organizzazione in Venezuela (PSL) che il 20 aprile ha pubblicamente rivendicato il pieno sostegno alla mobilitazione della MUD, salvo richiedere "un'altra sua direzione politica”. La stessa rivendicazione da parte della FT-QI di “una costituente libera e sovrana”, pur combinandosi con una denuncia della natura reazionaria della MUD, rischia oggi di avallare, al di là di ogni intenzione, la campagna “democratica” della destra.

I marxisti rivoluzionari non possono collocarsi all'interno o al fianco di una mobilitazione reazionaria, sia pure con proprie parole d'ordine. Valeva per piazza Maidan in Ucraina, vale per l'attuale mobilitazione della destra venezuelana. La denuncia della sua natura, la sconfitta dei suoi obiettivi, la disgregazione del suo campo, sono e debbono essere un aspetto centrale della politica rivoluzionaria.


NESSUN SOSTEGNO POLITICO A MADURO

Questo significa allora sostegno politico a Maduro? Per nulla.

Il governo chavista è il primo responsabile della crisi sociale e della stessa avanzata della destra. Il suo modello economico e sociale è fallito. La sua pretesa di continuare a pagare il debito pubblico al capitale finanziario (70 miliardi negli ultimi tre anni), riducendo parallelamente le importazioni alimentari, concorre alla miseria popolare. La sua volontà di preservare la proprietà privata di quella stessa industria alimentare (Polar) che promuove il sabotaggio economico imboscando prodotti per il mercato nero è complice della crisi. La sua difesa delle banche private copre di fatto l'evasione fiscale e l'esportazione di capitali all'estero, colpendo al cuore la bilancia dei pagamenti.

Il regime ha tentato di uscire dalla crisi ricercando un dialogo di pacificazione con l'opposizione della MUD, attraverso i canali della diplomazia internazionale (il Vaticano e Zapatero). Ma il risultato è stato quello di agevolare la sua campagna reazionaria. Maduro è giunto persino a ricercare buoni rapporti con la nuova amministrazione Trump, con la donazione di 500.000 dollari per le celebrazioni della investitura del nuovo presidente USA attraverso la PDSVA. Ma il risultato è il pubblico sostegno di Trump alla mobilitazione della MUD nel nome improbabile della libertà.

Di fronte al vicolo cieco del regime, di fronte alle crepe interne al chavismo che minacciano la sua tenuta, Maduro ha cercato nell'ultima fase una soluzione bonapartista alla crisi, in più direzioni. Prima col tentativo di attribuire i poteri parlamentari alla Corte Costituzionale controllata dal chavismo, tentativo bloccato da settori chavisti della magistratura (Luisa Ortega) e alla fine revocato. Poi con il lancio pubblico e solenne, nel giorno del primo maggio, di una “costituente operaia, veramente operaia” per ridisegnare la costituzione del '99. È il tentativo estremo del chavismo di riattivare la propria base sociale d'appoggio, profondamente incrinata, ma ancora presente in diverse fabbriche e aziende.

Ma la rivendicazione del potere della classe operaia”in bocca a Maduro ha lo stesso valore che aveva il socialismo del XXI secolo sulla bocca di Chavez. La cosiddetta costituente viene convocata da una Commissione presidenziale guidata dall'attuale ministro dell'educazione (Elías Jaua), sotto il controllo del regime. Alla sua elezione non possono concorrere i partiti, e peraltro diversi partiti della sinistra venezuelana si vedono tuttora privati di un riconoscimento legale. La sua composizione di 500 delegati costituenti vedrebbe per la metà rappresentanti “della classe operaia” designati in realtà dalla burocrazia sindacale chavista (in un contesto in cui le elezioni sindacali nelle aziende sono bloccate per decreto); per l'altra metà da esponenti designati dalle associazioni d'impresa, dalle professioni liberali, da strutture comunali controllate dal chavismo. L'Assemblea costituente “veramente operaia” si riduce dunque a una finzione burocratica, alla ricerca di una collaborazione istituzionale e “patriottica” tra le classi sociali sotto il controllo del regime bolivariano.


PER UNA MOBILITAZIONE DI CLASSE INDIPENDENTE

Una reale mobilitazione “veramente operaia” è invece l'unica via per indicare una soluzione progressiva della crisi venezuelana. Ma può svilupparsi solamente in piena autonomia dal regime chavista e in aperta opposizione al governo Maduro.

La linea della sinistra critica chavista, è finita su un binario morto. È la linea seguita da Marea Socialista (sezione osservatrice del Segretariato Unificato della Quarta Internazionale), che ha rotto col PSUV nel 2015, e, in forme diverse, dal PCV (Partito Comunista Venezuelano) stalinista. Una linea che ha a lungo rivendicato una correzione a sinistra della linea del governo nel nome di un mitologico “chavismo originario”. Questa linea si è scontrata con la natura irriformabile del regime nazionalista, con la sua sua politica organica di subordinazione e irregimentazione del movimento operaio e popolare in funzione della salvaguardia del proprio potere e della collaborazione con la borghesia. Il fatto che sia Marea Socialista sia il PCV si siano visti respingere la semplice richiesta del proprio riconoscimento giuridico come partiti indipendenti dà la misura del loro scacco. Il sostegno critico di Marea Socialista alla linea del dialogo con la MUD con la parola d'ordine delle elezioni esprime una politica insieme codista verso il chavismo ed equivoca di fatto verso la mobilitazione della MUD: una somma di subalternità.

Una mobilitazione “veramente operaia” richiede invece un programma di lotta indipendente, in aperta contrapposizione alla politica del chavismo come alla mobilitazione della destra. Un programma straordinario di emergenza imposto dalla drammaticità della crisi. Un programma di rottura anticapitalista e antimperialista.

Scala mobile dei salari, per proteggersi dal carovita. Difesa del lavoro e blocco dei licenziamenti, con l'esproprio sotto controllo dei lavoratori di tutte le aziende che licenziano. Cessazione immediata del pagamento del debito pubblico al capitale finanziario, per destinare le risorse così risparmiate alla protezione sociale e alimentare. Nazionalizzazione delle banche e loro unificazione in un unica banca pubblica, sotto controllo sociale, per stroncare la fuga dei capitali. Controllo operaio sulla produzione, per il colpire sabotaggio economico. Nazionalizzazione sotto controllo operaio e senza indennizzo dell'industria petrolifera e del commercio con l'estero, per troncare gli artigli della speculazione e della corruzione.
Senza queste misure di svolta non vi sarà alcuna via d'uscita dalla crisi. Solo una mobilitazione indipendente della classe operaia attorno a questo programma di svolta può ricomporre un blocco sociale alternativo, disgregare il blocco reazionario, capovolgere i rapporti di forza, aprire la via di una alternativa anticapitalista.


PER UN GOVERNO DEI LAVORATORI BASATO SULLA LORO FORZA

Questo programma di mobilitazione è inseparabile dall'autorganizzazione democratica di massa.

Una autorganizzazione “veramente operaia” passa per la rivendicazione di libere elezioni sindacali. Ma anche per la libera elezione nei luoghi di lavoro di consigli di lavoratori, quali strutture di controllo della economia, nel campo della produzione e della distribuzione (innanzitutto oggi dei beni alimentari e dei medicinali), nella prospettiva di un loro coordinamento e centralizzazione su scala nazionale. Un congresso nazionale di delegati eletti nei luoghi di lavoro, a partire dalle fabbriche, può diventare riferimento centrale e punto di aggregazione per più ampi strati di popolazione povera, immiseriti dalla crisi, segnati dalla disperazione, che rischiano oggi di cercare a destra ciò che non trovano a sinistra.

Un'organizzazione indipendente della classe lavoratrice ha diritto a provvedere alla propria autodifesa, con tutti i mezzi necessari. Anche intervenendo nelle contraddizioni dell'esercito. La destra filoimperialista si rivolge alle gerarchie militari per chiedere loro un golpe reazionario contro Maduro. Maduro cerca di assicurarsi il sostegno fedele dell'apparato militare offrendogli ruolo politico e ricche prebende. Il movimento operaio non può certo fare affidamento sui generali chavisti. Può e deve rivolgersi ai soldati e ai gradi inferiori dell'esercito venezuelano per assicurarsi il loro sostegno contro ogni golpe reazionario, così come contro ogni repressione del regime. Ma può farlo solo sviluppando innanzitutto la propria forza organizzata di massa.

La prospettiva indipendente di un governo dei lavoratori e delle lavoratrici, basato sulla forza della classe operaia, sulla sua mobilitazione, sulla sua capacità di autodifesa, è l'unica reale prospettiva di svolta per le masse oppresse del Venezuela. Non esistono soluzioni istituzionali progressive della crisi in corso al di fuori di una soluzione socialista.


LA MATURAZIONE DI UN'AVANGUARDIA DI CLASSE

La classe operaia venezuelana è oggi prevalentemente passiva e disorientata, sotto il peso della delusione verso il chavismo e della drammatica crisi sociale. È l'aspetto politico più problematico della crisi in corso.

Ma settori di avanguardia della classe vanno maturando un orientamento nuovo e più avanzato. Sono ad esempio i settori che si sono raccolti attorno alla Plataforma del pueblo en lucha, che rivendica la cessazione del pagamento del debito e la nazionalizzazione dell'industria petrolifera. Questa piattaforma è divenuta un punto di confluenza di ambienti classisti della sinistra e di settori di sinistra del chavismo (Fronte Nazionale Simon Bolivar). Al di là della linea politica errata dei gruppi dirigenti di queste sinistre, emerge un settore della classe operaia che cerca una propria via d'uscita dalla crisi politica e sociale. I marxisti rivoluzionari venezuelani possono sviluppare in questo bacino d'avanguardia un lavoro prezioso di propaganda e agitazione, in funzione della propria politica di raggruppamento e della costruzione del partito rivoluzionario della classe. Che resta in Venezuela, come ovunque, la questione strategica decisiva.

Marco Ferrando


venerdì 12 maggio 2017

Elezioni Lissone:17 maggio primo faccia a faccia fra candidati, mercoledì sera

L'appuntamento alle 21, al teatro comunale di Palazzo Terragni in piazza Libertà. 
Sarà targato Giornale di Monza il primo faccia a faccia fra i sei candidati che si scontreranno per conquistare la poltrona di sindaco di Lissone. 
I candidati sindaco Sono sei i pretendenti che si confronteranno all’incontro organizzato dal nostro Giornale: 
• Concetta Monguzzi, sindaco uscente sostenuta da Partito Democratico, Listone, “Lissone bene comune” e lista “Concetta Monguzzi Sindaco”; 
• Fabio Meroni, candidato di Lega Nord, Forza Italia, Fratelli             d’Italia, “Per Lissone Oggi” e lista “Meroni 2022”; 
• Emanuele Sana, candidato del Movimento 5 Stelle; 
• Mauro Guglielmin, candidato della lista “Lissone la mia città”; 
• Filippo Piacere, candidato del Partito comunista dei lavoratori; 
• Roberto Perego, candidato delle liste “Lissone in movimento” e “Lissone futuro”. Una serata per conoscere meglio i candidati, la loro proposta politica e i rispettivi programmi elettorali. 

giovedì 11 maggio 2017

PRC: NUOVO SEGRETARIO, VECCHIO VIZIO




Il Partito della Rifondazione Comunista ha un nuovo segretario. La scelta di Paolo Ferrero, segretario uscente, di non ricandidarsi alla leadership di Rifondazione era nota da tempo.

In questi ultimi anni, Ferrero ha visto lo sgretolarsi del PRC: la perdita di qualsiasi posto nel Parlamento e nelle istituzioni, tranne qualche piccola eccezione, il calo drastico degli iscritti, dai circa 40.000 del 2008, ai 17.000 attuali – per non considerare i 100/120.000 iscritti dei primi anni 2000 – la chiusura definitiva di Liberazione, la fuoruscita di varie correnti, e più in generale una marginalizzazione politica ed elettorale del suo partito.

Questa crisi ha causato non poche grane nel controllo interno del PRC: senza una maggioranza stabile nel Comitato Politico, più volte messo in minoranza, più volte criticato dai suoi compagni di maggioranza e di minoranza. Una crisi di Rifondazione e della leadership interna di Ferrero che non è stata figlia del destino cinico e baro, ma è la diretta conseguenza della compromissione di governo – con i voti all’aumento delle spese militari, alla riduzione delle imposte sui profitti, alla precarizzazione del mondo del lavoro (pacchetto Treu) – da parte del Partito della Rifondazione Comunista nei governi di centrosinistra, e in prima persona di Paolo Ferrero come Ministro del welfare nel secondo governo Prodi.


UNA (FINTA) SVOLTA PER USCIRE DALLA CRISI

Il gruppo dirigente di Rifondazione, per uscire da questa impasse, opta per il cambio di segretario. Maurizio Acerbo, già consigliere comunale a Pescara e parlamentare dal 2006 al 2008, è stato eletto Segretario dal Comitato Politico riunitosi subito dopo il congresso, che si è svolto dal 31 Marzo al 2 aprile.

Il nuovo segretario ha dimostrato, fin da subito, la propria continuità con la precedente linea Ferrero, che non a caso ha sempre sostenuto negli organi dirigenti del PRC. Un generico richiamo all’“unità della sinistra”, senza alcuna delimitazione programmatica, all’“ antiliberismo”, coltivando l’illusione di un capitalismo buono (Keynes), a una “sinistra di governo: come Chavez, Lula e Tsipras”, non cogliendo che sono regimi profondamente in crisi, per colpa delle loro politiche di compromesso col capitale internazionale (accordo di Tsipras con la troika e di Lula con il FMI) e con i partiti della borghesia nazionale (AnEl in Grecia e PMDB in Brasile) che li ha portati alla catastrofe economica e a misure di austerità sociale verso i lavoratori e i ceti popolari.

Questa torta di opportunismo ha la sua ciliegina: la netta apertura a De Magistris, «compagno che se domani mattina si mettesse a disposizione di una soggettività a sinistra, gli darei la mano e lo applaudirei», perché ha un programma di «rivoluzione, radicalità, affidabilità di governo e innovazione». Anche la subordinazione al populismo questurino non è una novità della Rifondazione Comunista a guida Ferrero. Già c’era stata la subordinazione a Di Pietro e a Ingroia, nelle varie liste civiche e “civili”, ovviamente con l’uso (o meglio abuso) della parola “rivoluzione”.

Come si vede dall’intervento congressuale del compagno Acerbo - da cui sono state prese le citazioni - non c’è alcun cambio nel PRC. Lo spartito è rimasto lo stesso. Solo, è cambiato il direttore d’orchestra.
Per questo chiamiamo tutti i veri comunisti a costruire il partito della rivoluzione socialista, l’unica vera rivoluzione possibile, il Partito Comunista dei Lavoratori: un partito che non si subordina al populismo, che ha un chiaro programma anticapitalista, di rottura con il capitale internazionale e nazionale, e che si batte sì per un governo, ma per un governo dei lavoratori.


Michele Amura

lunedì 8 maggio 2017

EMMANUEL MACRON, LA VITTORIA DEL GRANDE CAPITALE



La vittoria di Macron alle elezioni presidenziali ha avuto proporzioni consistenti. Nelle sue dimensioni quantitative, e nella sua estensione omogenea alla quasi totalità del territorio francese e di oltremare. È un'affermazione che ha capitalizzato fattori diversi: la domanda di sicurezza di ampi settori di classe media che temono le ricadute di un'uscita dall'euro sui propri risparmi; il profilo d'immagine di un candidato giovane, estraneo alle vecchie nomenclature degli (ex) partiti dominanti, capace di intercettare una confusa domanda popolare di cambiamento; il richiamo della contrapposizione al lepenismo, non travolgente come nel 2002, ma tuttora capace di motivare al voto ampi settori dell'elettorato della sinistra (compresa la maggioranza dell'elettorato di Mélenchon, che è cosa diversa dalla maggioranza degli attivisti di Francia Ribelle) e dello stesso elettorato gollista.

La vittoria di Macron è indubbiamente un fattore di tenuta dell'Unione capitalistica europea. Il tripudio delle Borse, la soddisfazione dei governi imperialisti del vecchio continente, sono comprensibili. La rappresentazione di una Unione irreversibilmente condannata a un rapido crollo sotto la pressione travolgente dei partiti populisti - rappresentazione diffusa in ambienti diversi della sinistra dopo l'affermazione della Brexit - si è rivelata prematura e sbagliata. Il risultato delle elezioni olandesi e francesi ci parla di un quadro più complesso, in cui fenomeni di polarizzazione politica ed elettorale si combinano con riflessi conservatori. Il ridimensionamento annunciato del nazionalismo populista in Germania porta lo stesso segno.

Al tempo stesso sarebbe ugualmente sbagliato ricavare dalla vittoria di Macron un quadro di facile stabilizzazione. Un conto è la sconfitta del lepenismo e della sua minaccia destabilizzante, di fatto mortale per l'Unione. Altra cosa è la costruzione di un nuovo equilibrio politico e istituzionale. Ciò vale innanzitutto per la Francia.


MACRON ALLA RICERCA DI UNA MAGGIORANZA PARLAMENTARE

Le elezioni del primo turno hanno fotografato la crisi profonda di quel bipolarismo che aveva incardinato la lunga storia della V Repubblica. Il Partito Socialista è collassato e rischia una autentica "pasokizzazione". Il partito gollista, per la prima volta escluso dal ballottaggio, è attraversato da una guerra intestina lacerante. Da un lato Le Pen e il suo alleato Dupont, dall'altro Mélenchon hanno polarizzato sul piano elettorale questa crisi. Insieme hanno raccolto quasi la metà dell'elettorato francese.

Il sistema elettorale del doppio turno ha salvato la Presidenza della Repubblica dagli effetti di questa polarizzazione, incoronando Emmanuel Macron. Ma nessun sistema elettorale può annullare una geografia politica. Da questo punto di vista le prossime elezioni legislative dell'11 giugno saranno un test complicato. Il doppio turno di collegio tra i partiti che superano l'asticella elettorale del 12,5% sarà esposto alle risultanze imprevedibili del nuovo quadro politico. Forte del proprio successo presidenziale, Macron chiede e chiederà un voto di “governabilità” a favore dei propri candidati: ma non dispone di una propria ossatura di partito e di un radicamento sul territorio. Raccoglierà sul carro del vincitore forze di diversa provenienza liberate dalla crisi dei vecchi partiti (Valls si è già prenotato, ambienti gollisti segnalano il proprio interesse), ma può rivelarsi un'ammucchiata imbarazzante per l'immagine dell'”uomo nuovo”. E la competizione collegio per collegio, dove le vecchie strutture di partito e le loro clientele hanno maggiore resistenza, sarà in ogni caso senza risparmio di colpi. Ad oggi Macron non ha a disposizione una maggioranza parlamentare, ma dovrà cercarla nelle urne.


LA RIORGANIZZAZIONE IN CORSO NELLE OPPOSIZIONI

Parallelamente, tutto si muove sul versante delle opposizioni, in un quadro altrettanto instabile e incerto.

Le Pen annuncia la costituente di un “nuovo partito patriottico” con un nuovo nome. È il tentativo di investire nella crisi del gollismo completando il processo di mutazione politica del Front National in direzione di un partito di governo “sdoganato”. Ma sconta non solo l'opposizione pubblica del padre (“Non consentirò la svendita del nostro nome”), bensì anche quella di Marion Le Pen, già candidata alla successione nel nome dell'integralismo cattolico.

A sinistra Mélenchon punta a investire il proprio straordinario successo elettorale al primo turno (quasi il 20%) nella costruzione della propria forza politica (sovranista di sinistra) con l'ambizione di costruire una forte presenza parlamentare; ma per questa stessa ragione si scontra frontalmente con il PCF che vorrebbe negoziare accordi di desistenza nei collegi. Un accordo reso difficile proprio dai nuovi rapporti di forza. Mentre lo stesso Partito Socialista sarà attraversato sul territorio dalla polarizzazione interna tra Macron e Mélenchon.

La composizione politica del prossimo parlamento francese sarà la risultante imprevedibile di questo quadro di frantumazione. La vittoria di Macron dovrà dunque confrontarsi con uno scenario politico in pieno movimento, ancora senza baricentro, segnato da molte incognite.


IL PROGRAMMA DI MACRON ALLA PROVA DEL FRONTE SOCIALE

Un secondo ordine di difficoltà è dato dal segno del programma Macron. È il programma del capitale finanziario. Un programma che sviluppa ulteriormente a destra la politica del governo Hollande: aumento dell'età pensionabile, appesantimento della legge El Khomri, taglio verticale della spesa sociale, attacco frontale al posto di lavoro nel settore pubblico. La campagna d'immagine attorno alla propria figura e la contrapposizione a Le Pen hanno in parte velato questo programma, ma esso indica la bussola reale della nuova presidenza. Macron punta a una riforma strutturale del capitalismo francese, combinata con la ricerca negoziale di un nuovo equilibrio con la Germania, dentro il quadro della UE.

Questo progetto passa per una linea d'attacco al movimento operaio. Il movimento operaio francese ha subito una sconfitta sulla legge El Khomri, per responsabilità preminente delle sue direzioni. Ma ha accumulato un'esperienza di lotta che ha selezionato nuovi settori d'avanguardia, e dispone di un potenziale combattivo non ancora domato. Il fronte sociale può tornare ad essere, come in tanti passaggi della storia francese, il banco di prova del nuovo governo. Per molti aspetti il più difficile.


PER UN PARTITO RIVOLUZIONARIO DELLA CLASSE LAVORATRICE

L'estrema sinistra francese ha raccolto complessivamente al primo turno il voto prezioso di un'avanguardia politica della classe lavoratrice (oltre 600.000 voti tra NPA e LO), in contrapposizione ai candidati padronali, ma anche al sovranismo di sinistra di Mélenchon.

L'indicazione di astensione al secondo turno, fuori e contro ogni fronte repubblicano a sostegno di Macron, ha rappresentato un'indicazione corretta. Tanto più importante considerando la (grave) indicazione di appoggio a Chirac da parte della LCR nel ballottaggio Chirac-Le Pen del 2002. La parola d'ordine “né la peste né il colera” ha costituito il punto di riferimento di mobilitazioni d'avanguardia, conquistando l'adesione di strutture sindacali di classe (a partire dalla CGT della Goodyear). È un capitale da investire nella costruzione di una opposizione sociale radicale e di massa al futuro governo.

La costruzione del partito rivoluzionario della classe operaia francese resta la questione strategica fondamentale. Ed anche il banco di prova di tutti i marxisti rivoluzionari francesi, a partire dalla nuova maggioranza rivoluzionaria nell'NPA.


Partito Comunista dei Lavoratori

martedì 2 maggio 2017

K-FLEX, PARTITE LE LETTERE DI LICENZIAMENTO

Roncello MB



L'azienda invia 187 telegrammi senza attendere l'udienza del 4 maggio, quella in cui il giudice deciderà sull'annullamento della procedura.

È l'ennesimo schiaffo ai lavoratori. La decisione unilaterale, infatti, arriva a pochi giorni dall'udienza del 4 maggio presso il Tribunale di Monza, dove il giudice deciderà in merito alla richiesta dei sindacati di annullare la procedura di licenziamento. Intanto i lavoratori che continuano la loro protesta con il presidio in attesa che si faccia giustizia ripristinando gli accordi sindacali sul mantenimento dei posti.
Nell'ultimo incontro del 26 aprile, si è registrata l'indisponibilità dell'azienda a discutere di un piano industriale che prevedesse il mantenimento di un insediamento produttivo in Italia, e la mancata disponibilità a creare le condizioni per concedere ammortizzatori sociali ordinari e straordinari. Sindacati e lavoratori sono comunque ottimisti: “Confidiamo che la giustizia possa restituire ai lavoratori i loro diritti e il rispetto degli accordi sindacali sottoscritti”.
I sindacati infine chiedono “alle istituzioni, a tutti gli schieramenti politici e al governo di mantenere il più ampio sostegno ai lavoratori e di produrre interventi immediati in grado di impedire che aziende che prendono finanziamenti pubblici e che vedono lo Stato nella compagine azionaria delocalizzino e licenzino i lavoratori”.