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mercoledì 28 giugno 2017

BANCHE VENETE. LA REALTÀ DEL CAPITALISMO E DEL SUO STATO



Il caso delle banche venete è la perfetta radiografia della natura del capitalismo e dello Stato borghese, contro tutte le false apologia della cosiddetta democrazia e della Costituzione.

I fatti sono noti, e sicuramente brutali nella loro semplicità. Banca Popolare di Vicenza e Veneto Banca sono fallite. Trascinate al fallimento dalla crisi capitalistica del 2008, dall'espansione abnorme di crediti inesigibili, dal collasso dei valori azionari. Soluzione: il governo decreta la liquidazione coatta delle due banche, dividendo il loro patrimonio in due parti. Da un lato gli attivi superstiti, i crediti esigibili, depositi e obbligazioni di valore, i beni immobili; dall'altro tutta la spazzatura dei titoli tossici, crediti senza futuro, attività fallite. La parte sana viene acquistata al prezzo di 1 (uno) euro da Banca Intesa, assieme a Unicredit, la principale banca italiana. La spazzatura tossica l'acquista invece il Tesoro, a carico dei contribuenti. Questi i fatti, di dominio pubblico e di per sé eloquenti: la collettività, già rapinata dalle banche, si accolla i costi del loro fallimento, a vantaggio di una banca che intasca gratis il bottino.

Ma questa è solo la cornice del quadro. I dettagli sono ancor più illuminanti.
Ricordate gli appelli retorici delle istituzioni sulla “necessaria solidarietà nazionale” per “salvare le banche”, che sono “un patrimonio di tutti”? Bene. Le banche italiane hanno rifiutato di pagare la ricapitalizzazione delle banche venete, attraverso una cassa comune, caricando l'onere sullo Stato.
Ricordate l'infinita litania sul debito pubblico della "nazione", sulla mancanza di risorse per servizi sanità e pensioni, sulla necessità obiettiva dei sacrifici per ridurre la spesa sociale? Bene. La crisi del debito pubblico scompare quando si tratta di salvare le banche. Per comprare la spazzatura dei titoli tossici delle banche venete il governo spende per l'immediato oltre cinque miliardi. Che si aggiungono a 12 miliardi di garanzie pubbliche sui titoli regalati a Banca Intesa, che ha preteso e ottenuto copertura totale per i "futuri rischi”. Che si aggiungono a 10 miliardi già messi a garanzia dei bond emessi dalle banche venete negli ultimi mesi, nel tentativo (vano) di rimetterle in pista. Il tutto finanziato dal decreto varato a Natale che caricava sul debito pubblico 20 miliardi per il salvataggio delle banche.
Dunque: le stesse banche italiane che hanno in pancia 400 miliardi di titoli pubblici, che ogni anno intascano 70-80 miliardi di soli interessi sul debito, beneficiano di altre decine di miliardi pubblici per galleggiare sul mercato capitalistico. Grazie a questa operazione di socializzazione delle perdite, la principale banca italiana rilancia alla grande i propri profitti e dividendi, per di più gratis. Banca Intesa ottiene infatti in regalo: 26 miliardi di crediti in ottimo stato, 25 miliardi di raccolta dai depositi, 12 miliardi di obbligazioni, 23 miliardi di raccolta indiretta, oltre alla eliminazione delle due banche concorrenti fagocitate e alla conseguente conquista di un proprio monopolio nel Nord-Est.
Grazie a questo gigantesco regalo ottenuto dallo Stato, le quotazioni azionarie di Banca Intesa sono schizzate in cielo, con immenso gaudio dei grandi azionisti. Altro giro altro regalo, verrebbe da dire: lo Stato è solamente, come diceva Marx, il comitato d'affari del capitale, tanto più in tempo di crisi.

All'altro capo c'è naturalmente chi paga la festa. Non solo la massa dei lavoratori e della popolazione povera cui si chiederà di pagare il conto del debito pubblico accresciuto, a partire dai milioni di lavoratori statali cui si nega il contratto perché ”mancano i soldi”. Ma anche 4000 lavoratori bancari in esubero per la chiusura di due terzi delle 900 filiali delle banche venete (il terzo rimanente va gratis ad Intesa). Ma anche decine di migliaia di piccoli risparmiatori, cui le banche avevano rifilato obbligazioni subordinate truffa in cambio di laute promesse, e persino qualche migliaio di piccoli azionisti.
Il capitalismo ha le sue leggi, che non hanno riguardo per nessuno. Neppure per quella piccola borghesia che spesso si nutre dei suoi miti.

La sola alternativa a questa rapina senza fine è la nazionalizzazione delle banche, senza indennizzo per i piccoli azionisti e sotto il controllo dei lavoratori, con loro concentrazione in un'unica banca pubblica. È l'unica soluzione che può abolire il parassitismo del capitale finanziario e liberare immense risorse per i servizi pubblici e le protezioni sociali. È l'unica soluzione che può trasformare la banca da strumento di rapina in mezzo di sostegno alle necessità dei lavoratori. È l'unica soluzione che può proteggere lo stesso piccolo risparmio.
Ma la nazionalizzazione delle banche non sarà mai realizzata da un governo borghese, fosse pure “di sinistra”, come mostra l'asservimento di Tsipras alla troika e ai suoi banchieri. Può essere realizzata solamente da un governo dei lavoratori, basato sulla loro organizzazione e sulla loro forza, in una prospettiva anticapitalista e socialista. Come dimostrò un secolo fa la Rivoluzione d'Ottobre, l'unica che ha realizzato con mezzi rivoluzionari la nazionalizzazione delle banche.

Costruire nella classe lavoratrice, e innanzitutto nella sua avanguardia, la coscienza di questa necessità è la ragione del Partito Comunista dei Lavoratori.


Partito Comunista dei Lavoratori

martedì 20 giugno 2017

PERCHÉ IL REDDITO DI CITTADINANZA NON LIBERA LE DONNE

Una falsa rivendicazione per il movimento delle donne



L’8 marzo in quasi cinquanta Paesi si è tenuto il primo sciopero globale delle donne, un percorso transnazionale nato principalmente sulla spinta del movimento argentino Ni Una Menos - dove il troskismo ha avuto un ruolo importante – e sull’onda dello sciopero del 4 ottobre 2016 delle donne polacche in difesa del diritto all’aborto.

In Italia il percorso dell’8 marzo è stato declinato territorialmente e in molte città italiane sono stati organizzati cortei, presidi e iniziative pubbliche. Le manifestazioni cittadine sono state molto partecipate anche se lo sciopero “produttivo e riproduttivo” ha assunto una dimensione più simbolica che reale. Vanno comunque segnalate alcune realtà di controtendenza: ad esempio FP-SGIL, SIAL Cobas e CUB hanno avuto un ruolo chiave nella mobilitazione delle lavoratrici del comune di Milano, inoltre in alcune fabbriche come l’Electrolux di Susegana vi è stata un’adesione allo sciopero che ha raggiunto l’80%.

Il movimento Non una di meno si configura attualmente come un’esperienza eterogenea, plurale e indiscutibilmente rappresenta un terreno importante in cui intervenire per far emergere quelle posizioni classiste e rivoluzionarie che abbiano la forza di far inquadrare la battaglia contro il patriarcato e il tema della liberazione delle donna e di tutte le minoranze oppresse nell’orizzonte del conflitto fra capitale e lavoro. Una battaglia che non può essere o solo anticapitalista o esclusivamente antipatriarcale, ma necessariamente entrambe: anticapitalista e antipatriarcale.

Dopo le prime tappe romane dell’8 ottobre e del 27 novembre 2016, il 4 e 5 febbraio 2017 a Bologna si è tenuto un incontro nazionale di due giorni del movimento. Anche questo è stato un evento molto partecipato, nel quale sono intervenute quasi duemila attiviste, divisesi in otto tavoli tematici per portare avanti la scrittura del Piano femminista contro la violenza. In questo percorso sono state fatte proprie dal movimento alcune rivendicazioni minime ma certamente importanti quali la battaglia per i diritti civili ai migranti, per la chiusura dei CIE, per lo Ius soli, nonché la battaglia per il pieno funzionamento della legge 194 (interruzione volontaria di gravidanza) e per l’abolizione dell’obiezione di coscienza che rappresenta una questione centrale per la sessualità e la vita di tutte le donne. Ad oggi dunque questa nuova ondata femminista è riuscita a smarcarsi da istanze e problematiche portate avanti dal femminismo borghese come ad esempio la battaglia per la rappresentanza femminile nelle istituzioni e le quote rosa, nonché quella dal sapore moralista come quella contro la "mercificazione delle donne in politica" che sono state il cavallo di battaglia di "Se non ora quando?".

Ma dal percorso di Non una di meno sono emerse anche delle criticità che possono minare lo sviluppo futuro del movimento e portarlo a arenarsi in una involuzione istituzionale.
Dalla lettura del report uscito dal tavolo “Legislativo e giuridico” e soprattutto dalla rivendicazione centrale del reddito di cittadinanza assunta dal tavolo “Lavoro e welfare”, emerge una visione pericolosamente neutra e poco critica dello Stato borghese, nonché uno sguardo ambiguo nei confronti dell’Unione Europea; ciò si evince ad esempio dal richiamo della necessità di ottenere la piena attuazione dei principi della Convenzione di Istanbul del 2011 sulla “prevenzione e la lotta contro la violenza nei confronti delle donne e la violenza domestica” o dalla richiesta che le aziende facciano “corsi di formazione” sulle tematiche della violenza di genere.
Come si può considerare un promotore della liberazione delle donne quello stesso Stato che dello sfruttamento e dell’oppressione è il garante? E come non si può riconoscere che la liberazione delle donne si inscrive in un processo di messa in discussione e necessaria trasformazione dei rapporti di forza vigenti?

Questa incomprensione del ruolo antagonista dello Stato borghese e del sistema economico emerge chiaramente dalla più importante delle rivendicazioni assunte attualmente dal movimento, ossia il reddito di cittadinanza (o di autodeterminazione come viene definito).
Quella per il reddito rappresenta una rivendicazione di retroguardia: già in uso in molti paesi a capitalismo avanzato per prevenire il calo dei consumi causato dalla crisi economica, esso non ha mai rappresentato il frutto di una conquista del movimento operaio poiché non mette minimamente in discussione i privilegi del padronato e anzi, in una certa misura li istituzionalizza ulteriormente, poiché è un’istanza che disconosce il ruolo della lotta di classe come motore della Storia e per questo non riconosce la centralità del lavoro come terreno in cui si produce la contraddizione fra capitale e lavoro, e dunque quelle condizioni necessarie per la rottura rivoluzionaria con il sistema capitalista. È inoltre una istanza che nasce da analisi pseudoscientifiche che non riconoscono la proprietà privata come base delle diseguaglianze sociali e lo sfruttamento come estrazione di plusvalore dal lavoro salariato. È quindi una forma di sussidio non di emancipazione.
Inoltre è uno strumento particolarmente discutibile, tanto in un’ottica marxista quanto femminista, proprio perché rimuove la centralità del lavoro come orizzonte di autodeterminazione delle donne nei confronti della famiglia e la conseguente partecipazione attiva alle dinamiche della lotta di classe come mezzo di conquista di un proprio ruolo politico nella società.

È la stessa esperienza della rivoluzione bolscevica a ricordarcelo. Negli immediatamente anni successivi all’Ottobre vennero infatti messi in moto due processi intimamente connessi: da un lato vennero introdotte in massa le donne all’interno del lavoro produttivo con tutte le conseguenze economiche e politiche che ne conseguivano (diritto di voto e di elezione all’interno dei soviet, autonomia economica e acquisizione della piena cittadinanza); dall’altro lato vennero attuati i primi provvedimenti volti alla liberazione sessuale delle donne, ossia quelle istanze che si ponevano l’obiettivo di svincolarle dal destino biologico e sociale a cui il patriarcato le aveva relegate e di cui la morale borghese e la religione erano i moderni portavoce.
Così la Repubblica dei Soviet fra il 1918 e il 1922 legalizzò l’aborto e il divorzio, approvò le unioni civili, abolì la patria potestas e le differenze fra figli “legittimi” e “illegittimi”; dette avvio anche a una prima fase di socializzazione del lavoro di cura con l’apertura di mense pubbliche, di lavanderie pubbliche e di asili per l’infanzia, affinché fossero dei lavoratori salariati a occuparsi di quei lavori che per secoli le donne avevano dovuto svolgere gratuitamente all’interno della famiglia e in condizioni di subalternità.

Il reddito di cittadinanza invece non contempla tutto ciò; pone gli inoccupati alle dipendenze dello Stato e alla sua disponibilità o meno di elargire denaro (siamo in tempi di crisi economica, quindi o reddito o servizi) e non dunque indipendenti e liberati dalla “schiavitù del lavoro” come sostengono i vari settori movimentisti; tutto questo rischia di rendere ancora più subalterne le donne non solo nei confronti della famiglia, dove la violenta crisi economica le sta rigettando e vincolando al lavoro di cura, ma anche nei confronti dello Stato borghese, lo stesso stato che garantisce i medici obiettori, che fa tagli alla sanità, che riconosce la sacralità di un certo tipo di famiglia e un certo modo di essere genitore a discapito di tutti gli altri, che fa regalie al padronato e alle banche, che garantisce privilegi fiscali alla Chiesa cattolica e l’insegnamento confessionale nella scuola pubblica. Dunque, il reddito di cittadinanza rischia di divenire a tutti gli effetti un salario domestico per casalinghe.

Ma il movimento Non Una di Meno ha ancora il potenziale e la disponibilità di energie per intraprendere un’altra strada e un’altra battaglia per la liberazione delle donne e di tutte le minoranze oppresse, ossia quella per creare nuove condizioni materiali e nuovi rapporti di forza che permettano alle donne di lavorare per se stesse e essere autonome (così che se costruiranno una famiglia, lo faranno da donne libere e per scelta, non per necessità o per mancanza di orizzonti) e a questa battaglia va aggiunta quella per i diritti delle lavoratrici per poter garantir loro gli strumenti di autodeterminazione dentro gli stessi luoghi di lavoro, senza che rischino di perdere il posto e senza che debbano accettare di subire pratiche sessiste (oggi come ieri molto frequenti). Il movimento deve dunque fare propria la battaglia per la redistribuzione del lavoro esistente fra tutti e tutte e la riduzione dell’orario di lavoro a parità di paga, l’abolizione del Jobs Act e di tutte le leggi di precarietà, il reintegro dell’articolo 18 esteso a tutti i lavoratori dipendenti, l’abolizione dell’obiezione di coscienza in tutte le strutture sanitarie pubbliche, l’abolizione della riforma della Buona scuola e dell’insegnamento religioso nella scuola pubblica, la separazione fra Stato e Chiesa e dunque l’abolizione del Concordato.

Chiara Mazzanti

giovedì 15 giugno 2017

ESCALATION DI VIOLENZA E REPRESSIONE NEL SETTORE DELLA LOGISTICA

16 GIUGNO: SCIOPERO GENERALE DELLA LOGISTICA



Il settore della logistica ha rappresentato in questi ultimi anni la punta più avanzata della lotta di classe in Italia: scioperi “selvaggi”, scioperi nazionali, picchetti e blocco delle merci sono stati gli strumenti messi in campo dai lavoratori di questo settore, dove vige la regola del massimo sfruttamento legata ad una illegalità diffusa, dove esistono condizioni di vita e di lavoro disumane fondate sul ricatto, e dove le lotte rappresentano un riscatto per questa classe lavoratrice che non ha nulla da perdere ma tutto da conquistare.

La presenza del sindacalismo conflittuale, rappresentata da sindacati come il SiCobas (ma anche da altre sigle sindacali e dall’opposizione CGIL – Il Sindacato è un’altra cosa), e la conseguente direzione classista e conflittuale delle lotte, coniugata alla determinazione dei lavoratori del settore, ha permesso un salto di qualità normativo e salariale molto importante, conquistato poco a poco, picchetto per picchetto, vittoria per vittoria.

Proprio per la presenza di questo ciclo di lotte, nel settore della logistica si sta verificando una escalation di repressione e violenze contro i lavoratori e le loro organizzazioni sindacali: nel settembre del 2016 con la morte di Abd El Salam, operaio investito durante un picchetto da un camion della GLS; in gennaio con la repressione nei confronti del SiCobas, attraverso l’arresto di Aldo Milani; in aprile con il tentativo di investire con un tir i lavoratori impegnati in un picchetto alla Artoni di Caorso (Piacenza), seguito immediatamente da un’aggressione a colpi di mazza di ferro. Mentre a fine marzo i lavoratori della Coca Cola di Nogara (Verona), costretti a occupare il tetto dello stabilimento per contrastare i licenziamenti, hanno subito cariche violente con manganelli elettrici, e la chiusura dello stabilimento compiuta dall’azienda per rappresaglia contro le lotte sindacali.

Questi non sono casi isolati, ma i più eclatanti di un generale aumento della repressione a forza di cariche, aggressioni, denunce e fogli di via (anche a qualche militante del PCL); perché questo modello di direzione sindacale risulta scomodo e quindi il padronato e le forze di repressione utilizzano ogni mezzo per cercare di contrastarlo.


VERSO LO SCIOPERO NAZIONALE

Il 9 aprile c’è stata una assemblea nazionale dei delegati del SiCobas e dell’ADL Cobas per discutere e preparare la piattaforma per il rinnovo del Contratto Collettivo Nazionale di Lavoro. Questo è sicuramente un fattore positivo. Da troppo tempo il movimento operaio, sotto le direzioni del sindacato concertativo e filopadronale, tratta sulla piattaforma della controparte - padronato e governo - e non sulle sue proprie rivendicazioni, causando alla classe lavoratrice molto spesso enormi sconfitte.

Per questo, come Partito Comunista dei Lavoratori, sosterremo in pieno lo sciopero nazionale della logistica del 16 giugno partecipando ai picchetti davanti ai magazzini, come già abbiamo fatto negli scorsi scioperi in varie zone d’Italia. I nostri militanti, ovunque sindacalmente collocati, si batteranno per l’adesione allo sciopero della logistica delle proprie sigle sindacali con una propria proposta di estensione e unificazione di tutte le lotte.

Bisogna gettare le basi per la costruzione di una mobilitazione generale e di massa, che a partire dalle generose lotte dei lavoratori della logistica si connetta alle lotte dei lavoratori dei trasporti, del pubblico impiego, della scuola e del settore privato, che metta in discussione tutti gli accordi a perdere che le burocrazie sindacali hanno concesso, che cancelli le leggi antioperaie che hanno precarizzato il lavoro e attaccato i diritti - a partire dal Jobs act - e che metta in campo come parole d’ordine il blocco dei licenziamenti, la ripartizione del lavoro tra tutti e tutte con la riduzione dell’orario di lavoro a parità di paga e l’esproprio senza indennizzo, la nazionalizzazione delle aziende che licenziano, delocalizzano, speculano e inquinano. Solo questo programma può dare forza a una classe lavoratrice sfruttata e oppressa e può aprire lo spazio per l’unica soluzione di classe all’attacco padronale e alla crisi capitalistica.

Perché solo un governo dei lavoratori, basato sulla loro forza e sulla loro organizzazione, può realizzare una vera “repubblica fondata sul lavoro”: rovesciando il potere dei capitalisti e concentrando nelle mani dei lavoratori e delle lavoratrici le leve della produzione.

Partito Comunista dei Lavoratori

domenica 11 giugno 2017

LA CATENA DI SANT'ANTONIO DELLA SINISTRA RIFORMISTA

La crisi politica e la sinistra italiana




È in scena un nuovo passaggio della crisi politica, con ripetute convulsioni e capovolgimenti di fronte.

Il 21 maggio Renzi e Berlusconi sembravano aver concluso uno scambio politico vincente: Renzi concede a Berlusconi una legge elettorale a impianto proporzionale con soglia di sbarramento al 5%, dando la possibilità al Cavaliere di sganciarsi dall'abbraccio della Lega e di correre liberamente per un proprio ritorno di governo (con Renzi); Berlusconi concede a Renzi il semaforo verde per elezioni politiche anticipate, che eviterebbero al fiorentino le spine avvelenate della prossima legge di stabilità, da delegare al prossimo governo dopo il voto. Entrambi interessati, Renzi e Berlusconi, a una legge elettorale che garantiva il pieno controllo delle segreterie su candidature ed eletti.

Attorno a questo patto scattava la improvvisa convergenza di Lega e M5S. La prima libera di giocare in tempi brevi la partita di incasso della recente stagione lepenista, prima che possa disperdersi. Il secondo interessato a capitalizzare l'assenza di ogni premio elettorale di coalizione per giocarsi direttamente il testa a testa col PD , offrendo per di più a Grillo e Casaleggio la selezione dei propri nominati.

Questo patto Renzi-Grillo-Berlusconi-Salvini giungeva a prenotare pubblicamente non solo le elezioni in autunno, ma la data stessa del voto (il 24 settembre), mettendo la presidenza della Repubblica di fronte al fatto compiuto di un accordo apparentemente blindato dall'80% del Parlamento.

Ma le quattro gambe non hanno retto. Le contraddizioni interne a M5S e PD, unite al mal di pancia trasversale di settori parlamentari contrari alla legge elettorale e/o al voto anticipato, hanno prodotto alla Camera un incidente letale al momento del voto sugli emendamenti. Il PD si è rapidamente sfilato annunciando la “morte" della legge e attribuendo la responsabilità al M5S. Il M5S ha gridato al “tradimento" del PD. La verità è che quanto avvenuto misura l'estrema fragilità del patto politico e dei suoi principali contraenti.


LA CRISI POLITICA DI FRONTE A UN NUOVO BIVIO

Ora la crisi politica è di fronte a un nuovo bivio che interroga innanzitutto il PD. Insistere nella richiesta delle elezioni a settembre o accettare il decorso della conclusione della legislatura? Entrambe le vie sono impervie.

Insistere sul voto a settembre significa o riprendere rapidamente la tela del patto saltato provando a ricomporre l'accordo a quattro sulla legge elettorale proporzionale, oppure dichiarare il fallimento definitivo di ogni ipotesi di nuova legge elettorale, sancire la fine del governo Gentiloni, e puntare sul voto anticipato col Consultellum. Soluzioni molto difficili. La prima, sostenuta da Berlusconi, sconta il logoramento dei rapporti politici tra PD e M5S, oltretutto entrambi sfibrati da quanto avvenuto. La seconda richiede di uniformare i sistemi di voto tra Camera e Senato, possibile solo attraverso una legge e non per decreto (data l'indisponibilità di Mattarella). Ma quale legge, con quale maggioranza, e in quali tempi? Il gioco dell'oca riporta le bocce al punto di partenza.

Accettare il decorso di fine legislatura è l'opzione sostenuta dal capitale finanziario, da Confindustria, dalla grande stampa borghese e soprattutto dalla presidenza della Repubblica: tutti interessati a mettere al sicuro la prossima legge di stabilità e ad evitare complicazioni sui mercati. Ma il governo Gentiloni è in grado di reggere la navigazione della propria fragile maggioranza, pesantemente minata dallo scontro avvenuto tra PD e suoi alleati (Alfano e MDP) e attesa dal salto a ostacoli di ogni prova parlamentare (voucher, ius soli, biotestamento e soprattutto legge di stabilità)?

Verificheremo gli sviluppi. Ma quanto è avvenuto misura una volta di più le particolarità della crisi italiana. Il crollo del vecchio bipolarismo non è stato rimpiazzato da un nuovo equilibrio politico. Tutto procede al buio. La crisi di governabilità delle relazioni politiche è il portato fisiologico di questo fatto.


IL GIOCO DELLE MASCHERE A SINISTRA. L'INGANNO DEL 18 GIUGNO

In compenso, al di là del suo epilogo, la vicenda dell'ultimo mese ha rappresentato una formidabile cartina di tornasole della realtà della sinistra italiana, mostrando il volto scoperto di tutti i suoi attori. Lungo il piano inclinato di una infinita catena di sant'Antonio, in un'autentica commedia dell'arte.

Il primo attore di scena è Campo Progressista di Giuliano Pisapia.
Testimonial del Sì al referendum istituzionale, Pisapia ha sperato sino all'ultimo in un accordo col PD di Renzi. E Renzi aveva investito inizialmente sulla figura di Pisapia e sulla possibile coalizione con Campo Progressista per prevenire la scissione del PD e chiuderle lo spazio politico. Ma dopo la sconfitta del 4 dicembre e dopo la scissione, quel ruolo diventava inutile e ingombrante. Ingenerosamente scaricato da Renzi, Pisapia sogna ora il rifacimento del “vero centrosinistra”, con la benedizione di tutti i padri putativi dell'Ulivo (Prodi, Veltroni, Letta) e con la sponsorizzazione di Repubblica. La sua preoccupazione principale sembra quella di indossare i panni (impossibili) di un nuovo Prodi per federare sinistra e PD. Cioè per coalizzarsi con... Renzi nel prossimo Parlamento. La repulsione ostentata verso la sinistra cosiddetta radicale è il pegno della sua fedeltà (postuma) al renzismo. L'imbarco sul proprio carro del personale borghese liberale o di estrazione cattolica è la ricerca di un attestato di affidabilità presso i salotti democratici del capitale.

MDP è il secondo attore.
Minacciati nella loro stessa sopravvivenza politica e istituzionale, Bersani e D'Alema sanno bene che la soglia del 5% è tutt'altro che scontata. Per questo chiedono a Pisapia di evitare ostracismi a sinistra, in particolare verso Sinistra Italiana. C'è bisogno di caricare tutti sul medesimo carro: “una sola lista a sinistra” è la loro parola d'ordine. “Unità, unità, unità”! L'iniziativa del 18 giugno, formalmente promossa da Falcone e Montanari (in realtà da D'Alema) vuole offrire a questa campagna unitaria una coreografia civica e “popolare”. Il tutto per fare cosa? Per sbarcare nel prossimo Parlamento e «chiedere al PD di scegliere tra MDP e Berlusconi», come ha detto Bersani. In altre parole, per fare una coalizione di governo col PD. Cioè con Renzi. C'è forse da meravigliarsi, visto che Bersani e i suoi hanno votato le politiche antioperaie di Renzi (inclusa l'abolizione dell'articolo 18) e si presentano oggi come i migliori tutori del governo Gentiloni?

Sinistra Italiana è il terzo attore.
La sua massima aspirazione è evitare di essere esclusa dal carro, e rimanere appiedata. Il congresso fondativo di SI aveva formalmente celebrato l'alternatività a Renzi e al renzismo. Di più: aveva sentenziato «la fine del vecchio centrosinistra». Ma era solo il tentativo di difendere lo spazio politico e contrattuale del proprio fortino dalle insidie concorrenziali del nuovo MDP. Ora la campagna di Nicola Fratoianni impugna la bandiera dell'”unica lista a sinistra”. Ossia del blocco con Bersani e Pisapia, aspiranti rifacitori dell'eterno centrosinistra. La manifestazione del 18 giugno serve a riequilibrare il rapporto di forze con Pisapia, a rimuovere le sue resistenze, a sancire la legittimità della presenza di SI nel grande accordo unitario. Lo stesso sostegno di SI alla legge elettorale di Renzi-Berlusconi-Grillo-Salvini, incluso lo sbarramento del 5%, è indicativa: siccome c'è lo sbarramento sarà più facile essere imbarcati a bordo. Ci si può meravigliare se si considera che i gruppi dirigenti di Sinistra Italiana, già coinvolti nei governi Prodi, già in blocco col PD di Bersani, sono gli stessi che tuttora governano diverse regioni col PD di Renzi, con tanto di tagli a sanità e servizi?

Rifondazione Comunista è il quarto attore.
Il suo congresso aveva rivendicato solennemente la fine di ogni ambiguità circa i rapporti col PD e il centrosinistra («liberista e antipopolare»). Il nuovo segretario Maurizio Acerbo aveva formalmente rivendicato sulle colonne de Il Fatto il rifiuto di ogni subordinazione «a Pisapia e D'Alema» nel nome di una sinistra finalmente alternativa. Ma ora Acerbo e l'ex ministro Ferrero figurano tra i primi firmatari dell'appello unitario del 18 giugno per una unica lista della sinistra. Cioè, se le parole hanno un senso, per una lista con Pisapia e Bersani. Gli stessi che rivendicano la prospettiva della coalizione di governo col PD nel prossimo Parlamento. Sotto le vesti truccate di “una lista civica, democratica e costituzionale”, anche il PRC, alla coda di SI, prova dunque a inserirsi nel grande cartello unitario dell'aborrito centrosinistra? Certo, un partito che titola il proprio congresso con la parola “rivoluzione” nel mentre sostiene il governo Tsipras, nuovo governo della troika in Grecia, non merita davvero un attestato di affidabilità.


PER UN PARTITO INDIPENDENTE DEI LAVORATORI

Ora il fallimento del patto tra Renzi e Berlusconi sulla legge elettorale concordata può disfare la tela del grande accordo a sinistra. E magari diversi attori in commedia riprenderanno ognuno la propria maschera. Ma non si può rimuovere la lezione di fondo dell'esperienza avvenuta. Non siamo in presenza di “politiche sbagliate”, per quanto recidive, e di “errori”, per quanto ripetuti. Siamo in presenza di gruppi dirigenti della sinistra italiana la cui unica vera ambizione è la propria salvezza o ricollocazione istituzionale, nel grande gioco della democrazia borghese, nella prospettiva del governo del capitalismo.

La classe lavoratrice, a partire dalla sua avanguardia, ha bisogno di costruire il proprio partito indipendente. Sul solo terreno possibile: quello anticapitalista e rivoluzionario.

Partito Comunista dei Lavoratori

sabato 10 giugno 2017

ELEZIONI IN GRAN BRETAGNA: LA SCONFITTA DELL'OPERAZIONE MAY



Il risultato delle elezioni inglesi è inequivocabile: una sconfitta politica netta della premier Theresa May. La premier inglese aveva puntato ad elezioni politiche anticipate per rafforzare la propria maggioranza in Parlamento. Si ritrova senza una maggioranza autosufficiente, avendo perso 12 seggi, e dovrà probabilmente negoziare un nuovo (precario) equilibrio di governo col piccolo partito protestante unionista del Nord Irlanda. May aveva puntato sulla umiliazione del Labour di Corbyn, contando di capitalizzare i sondaggi promettenti di un mese fa. Si ritrova con un Labour in netta ripresa, che guadagna 31 nuovi seggi e che vede Jeremy Corbyn vincitore morale indiscusso della competizione.
La sconfitta di Theresa May non poteva essere dunque più clamorosa. Un Partito Conservatore già sconfitto e lacerato dalla prova della Brexit - dopo il fallimento della spericolata operazione di Cameron - incassa a un anno di distanza un secondo colpo, che può destabilizzare gli assetti interni del partito e la composizione del suo governo. La stessa tenuta della premier May non è affatto scontata.
Il fatto che tutto questo accada alla vigilia dell'apertura del difficile negoziato della Gran Bretagna con la UE sui rapporti del dopo Brexit è un fattore di comprensibile preoccupazione per il capitale finanziario britannico, e non solo. La caduta della sterlina è un sintomo eloquente del disagio.


IL FALLIMENTO DI UN DISEGNO DI SFONDAMENTO

Indossando improvvisamente i panni di sostenitrice di una Brexit radicale, Theresa May aveva puntato a capitalizzare l'elettorato del partito reazionario UKIP. Annunciando una retorica preoccupazione “sociale” per la crescita delle disuguaglianze, la premier aveva puntato a una incursione parallela nello stesso elettorato laburista, che immaginava allo sbando. Questa operazione complessiva di sfondamento è fallita. L'elettorato UKIP è stato in parte significativa conquistato (col relativo crollo dell'UKIP), ma l'improbabile immagine sociale di un Partito Conservatore “amico dei poveri” è franata rovinosamente durante la stessa campagna elettorale. La cosiddetta “tassa per la demenza” - la tassa sui beni dei malati cronici per finanziare le loro cure - ha bucato il pallone della propaganda conservatrice, svelandone la cinica ipocrisia. Mentre il peso materiale dei tagli sociali programmati dall'ex ministro delle Finanze Osborne, contro sanità, istruzione, trasporti, sussidi, riproponeva il volto crudo della realtà quotidiana per milioni di sfruttati. Il tentativo di trasformare il Partito Conservatore in una sorta di CDU non ha trovato una base materiale nella crisi capitalistica. Tutte le apologie sulla ripresa inglese, già contraddette dalla modestia dei numeri, si sono scontrate con la materialità della crisi sociale, la stessa che aveva trovato un'espressione distorta in chiave reazionaria nel voto favorevole alla Brexit.

Le elezioni inglesi registrano una seconda sconfitta: quella della destra blairiana del Labour. Dopo i ripetuti fallimenti dei tentativi di rovesciare Corbyn, la destra blairiana puntava tutte le proprie carte su una sconfitta elettorale umiliante del Partito Laburista. Una sconfitta che secondo i piani avrebbe aperto la via di una caduta di Corbyn, o avrebbe legittimato una scissione a destra del Labour. Ma innamorati della propria fiaba, i blairiani hanno ignorato la realtà. La campagna elettorale di Corbyn ha dato impulso a un forte recupero elettorale del Labour, nel segno di una ricomposizione del proprio blocco sociale e in particolare di una forte attrazione del voto giovanile. L'aumento dell'affluenza al voto (69%) è stata principalmente sospinta proprio dal richiamo del Labour.


REALTÀ E IMMAGINE DI JEREMY CORBYN

Intendiamoci: contrariamente a vulgate diffuse a sinistra, il programma e la politica di Corbyn non hanno proprio nulla di rivoluzionario. Come osserva disincantato il direttore di Prospect, Tom Clark, il programma di Corbyn non metterebbe in discussione neppure il grosso dei tagli di Osborne e i loro effetti cumulativi negli anni: un calo annunciato del 10% del reddito dei poveri nei prossimi anni si ridurrebbe a un calo del 7%; i tagli cumulativi di 40 miliardi complessivi alla sanità pubblica si ridurrebbero a 30 miliardi. Peraltro il programma delle terribili “nazionalizzazioni” si riduce sostanzialmente alle ferrovie (in autentico disfacimento dopo le privatizzazioni) e a parte dell'industria energetica. Nei fatti, un programma meno radicale dell'ultimo programma del Labour (Michael Foot, 1980/83) prima del lungo ciclo blairiano.

Ma proprio la lunga esperienza blairiana, col suo ostentato disprezzo per la tradizione riformista del Labour, ha contribuito in modo decisivo a connotare l'immagine di svolta del programma di Corbyn, mentre la rozza polemica frontale di tutto l'establishment britannico contro il suo cosiddetto veteromarxismo ha sicuramente nutrito la popolarità del leader laburista a livello di massa. È un punto importante.

Sinora il fenomeno Corbyn era rimasto essenzialmente circoscritto all'interno del Labour. Il movimento organizzato Momentum aveva sospinto la duplice vittoria di Corbyn alle primarie, mentre il nuovo corso laburista polarizzava l'adesione al partito di una nuova leva di giovani militanti e lavoratori. Con le elezioni politiche dell'8 giugno, il fenomeno Corbyn conosce una legittimazione politica più ampia a livello di massa. Milioni di lavoratori e lavoratrici hanno visto in Corbyn una leva di contrapposizione ai conservatori e alle politiche sociali dominanti. Persino una parte del blocco sociale del malcontento che aveva trovato espressione nel voto alla Brexit, sotto l'egemonia reazionaria dell'UKIP e dello sciovinismo britannico, è travasata nel voto per Corbyn contro May. È la misura di come la sola ombra di un programma sociale alternativo, persino a dispetto della sua (modesta) realtà, possa in parte giocare sulle contraddizioni del blocco sociale reazionario e approfondirle.


PER UNA DIREZIONE ALTERNATIVA DEL PROLETARIATO INGLESE

Verificheremo ora gli sviluppi dello scenario inglese. Verificheremo se e in che misura l'indebolimento del governo May e il successo politico di Corbyn potranno aprire il varco alla ripresa della lotta di classe in Gran Bretagna. Di certo una ripresa di mobilitazione del proletariato, sulla base di una piattaforma di lotta indipendente, potrebbe rappresentare un riferimento centrale per la gioventù precaria e disoccupata e un fattore di precipitazione della crisi politica dei conservatori. Ma la questione decisiva, in Gran Bretagna come ovunque, resta la costruzione di una direzione alternativa del movimento operaio. Sotto questo profilo il corbinismo non è la soluzione, ma un problema. Ogni visione politica che concepisca la costruzione della direzione alternativa del proletariato britannico come semplice frutto di una pressione a sinistra su Corbyn in funzione un uso di classe del riformismo, ripropone l'eterna illusione del centrismo. Tuttavia la radicalizzazione politica dell'avanguardia di classe e della gioventù che oggi si raccoglie attorno a Corbyn è un fenomeno importante e prezioso: riflette la crisi verticale del blairismo e l'emergere di una domanda di svolta. Costruire una relazione attiva con questa domanda e darle una prospettiva rivoluzionaria è un passaggio cruciale per la costruzione del partito leninista in Gran Bretagna.


Partito Comunista dei Lavoratori

giovedì 1 giugno 2017

DALLA PARTE DEI LAVORATORI DELL'ILVA



Com'era prevedibile la vendita dell'Ilva al miglior offerente si traduce in un attacco pesante ai lavoratori: 6000 operai in “esubero”, prevalentemente a Taranto ma non solo. Questo è il conto presentato dal gruppo d'AcelorMittal, vincitore della gara d'acquisto. Gli stessi operai sfruttati per decenni e falcidiati dai tumori si vedono ora minacciati dalla privazione del lavoro. I licenziamenti come “risarcimento” delle morti. Se poi i sindacati vorranno ridurre gli “esuberi” dovranno accettare l'abbattimento dei salari, ha aggiunto a mezza bocca la nuova proprietà. Non è tutto. I nuovi padroni offrono la miseria di appena 25 milioni per investire in “salute, sicurezza, ambiente” ( un terzo di quanto ha offerto la cordata dei pescecani concorrenti di Acciaitalia) dopo aver già incassato come condizione preliminare d'acquisto l'esonero da ogni controversia legale in fatto di tutela ambientale. Mentre annunciano che la sola copertura dei parchi minerari (da cui si alzano le polveri che uccidono i lavoratori tarantini) richiederà ben 5 anni, contro i 2 previsti dal piano ambientale originario. Insomma: lavoro e salute sono incompatibili col profitto.

Sole 24 Ore, quotidiano di Confindustria celebra la vendita dell'Ilva con parole alate. “ L'Ilva ha un acquirente. L'asta ha funzionato. E' stato ristabilito un principio di realtà. Non vi piace la parola mercato? Usiamo la parola industria. E' stato reintrodotto nel discorso sull'Ilva il principio della sostenibilità del numero di dipendenti rispetto alla finanza d'impresa e all'attività produttiva... Va richiesto realismo ai lavoratori e ai sindacati” ( 31/5). Più chiaro di così! Il principio di realtà è l'interesse del padrone. Le sue vittime se ne facciano una ragione. Peraltro non si tratta di un caso particolare. In tutto il mondo l'enorme sovrapproduzione siderurgica trascina un attacco frontale ai posti di lavoro, dentro una selvaggia concorrenza per la spartizione del mercato. Anche in Europa. Non a caso l'Antitrust europeo ha già notificato al gruppo Acelor il rischio che la sua acquisizione dell'Ilva possa configurare una posizione dominante incompatibile con le regole della concorrenza nella UE. Acelor ha replicato che se necessario rinuncerà ad alcune produzioni: tagliando posti di lavoro in Polonia, in Germania, in Francia, in Lussemburgo. L'attacco al lavoro degli operai dell'Ilva è parte dunque di questo scenario globale.

Per questa stessa ragione la difesa del lavoro e della salute degli operai dell'Ilva richiede una soluzione anticapitalista. Era chiaro sin dall'inizio che nessun nuovo capitalista acquirente avrebbe garantito lavoro e salute. La riduzione dei posti di lavoro e degli investimenti ambientali era al contrario il terreno stesso della gara d'acquisto. Gli acquirenti comprano in funzione del massimo profitto, e il massimo profitto richiede l'abbattimento del “costo” del lavoro e dei “costi” ambientali. L'offerta Acelor è stata accettata e premiata dal governo Gentiloni e dal ministro Calenda, quali piazzisti del capitale. Non può essere accettata dagli operai dell'Ilva. Occorre una opposizione di massa che unisca i lavoratori dei diversi stabilimenti Ilva, contro ogni logica mirata a dividerli. Occorre costruire una opposizione di lotta radicale, quanto radicale è l'attacco del padrone. Occorre ricondurre l'azione di lotta all'unica soluzione che possa garantire la difesa del lavoro e della salute degli operai: quella della nazionalizzazione dell'Ilva, senza indennizzo e sotto il controllo dei lavoratori. Fuori da questa prospettiva, come i fatti dimostrano, si prepara solamente il peggio.

Il PCL sostiene da sempre incondizionatamente la lotta dei lavoratori dell'Ilva, come la lotta di Genova di un anno fa. Portando in questa lotta, come in ogni lotta, la prospettiva politica del governo dei lavoratori. L'unica vera alternativa. L'unica che possa riorganizzare la società dalle sue fondamenta, rovesciando la dittatura del profitto.


PARTITO COMUNISTA DEI LAVORATORI

Elezioni a Lissone, l’intervista a Filippo Piacere del Partito Comunista dei Lavoratori

Alle prossime elezioni a Lissone parteciperà anche Filippo Piacere, candidato sindaco sostenuto dal Partito comunista dei lavoratori. L’intervista a cura di Omar Porro - Giornale di Monza.it