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lunedì 20 marzo 2017

Le loro ragioni, il nostro progetto

Prosegue il tesseramento 2017 al PCL



È passato un secolo dalla Rivoluzione d'ottobre. Un secolo da quando per la prima volta nella storia milioni di lavoratori, e con essi tutti gli sfruttati e i diseredati dell'Impero zarista, centro e periferia dell'impero capitalista, presero parola e varcarono il proscenio della storia, impossessandosene, e imposero loro stessi come soggetto e oggetto di un'azione politica che avrebbe cambiato le sorti dell'umanità.

Per molti, a sinistra, tutto ciò sarà tema di rievocazione commossa, con tanto di professione di fede, trovando magari occasione per interrompere per qualche attimo il loro tran tran quotidiano, a ciglio asciutto, fra sottoboschi assessorili e altrettante professioni di fede... alle istituzioni e ai poteri borghesi. Proprio quelle istituzioni e quei poteri che quella rivoluzione aveva mandato gambe all'aria.

Per noi no. Non ci interessano rievocazioni, perché si rievoca ciò che non solo è passato, ma che è concluso; ciò il cui svolgimento è stato compiuto e perciò stesso archiviato. Si rievocano gli spiriti, o i cari estinti. Per noi, invece, quella storia e quelle azioni non si sono interrotte (contrariamente a quello che dicevano venticinque anni fa gli apologeti del mondo libero [del capitale], e che ripete oggi, da buon ultimo, anche Fausto Bertinotti), ma hanno continuato a valere, a parlarci e a parlare. Per noi sono il contenuto di un'attività politica quotidiana, che costituisce la sostanza della nostra lotta contro quel capitalismo che, oggi come un secolo fa, sui suoi fallimenti manda uomini a morire e intere civiltà a schiantarsi.

Ed è in ragione di questa vigenza che sulla tessera del 2017 del Partito Comunista dei Lavoratori ci saranno loro, gli attori della nostra lotta. Migliaia di soldati - lavoratori in uniforme - che in quel fulgido frangente del 1917 marciano in direzione dello Smolny a Pietrogrado, in sostegno ai bolscevichi, innalzando drappi rossi e insegne inneggianti al potere dei Soviet e alla rivoluzione. Ai lati della strada, giovani, donne e bambini che seguono la marcia e si aggregano. Per la prima volta da protagonisti. Quel secolo vale ancora. Quella storia vale ancora.

Partito Comunista dei Lavoratori

martedì 14 marzo 2017

I MURI CI PARLANO



I muri sono le pareti di un contenitore in cui noi viviamo, o meglio un non luogo dove un Moloch costringe le nostre esistenze... Muri per emigranti- prigioni- ghetti- campi profughi- confini ”geografici” che noi sappiamo essere politici… Tutti ricordiamo il muro di Berlino… ma si calcola che ce ne siano di analoghi, in funzione, più di 45, in tutto il mondo. Messico, Belfast, Cisgiordania-Gaza.. questi, sono solo alcuni, forse i più eclatanti ed evidenti. Ma ne esistono altri più simbolici quelli… che ci allontanano dalla conoscenza della verita’ (grazie anche ad una informazione omologata ed asservita)… che ci allontanano dalla giustizia (che è sempre più “cosa loro”)… che ci allontanano dal lavoro (in cui noi “umani” sempre più abbiamo un valore secondario rispetto a quello che produciamo). NOI che siamo tra muri racchiusi in un labirinto controllato e ci illudiamo-ci illudono di essere esseri-liberi, e di vivere in una democrazia... NOI sappiamo che la nostra libertà si limita allo spazio fino al prossimo muro e la certezza di essere rinchiusi ci viene dalla percezione di essere bloccati tra muri... in questo senso I MURI CI PARLANO e solo quando apprendiamo di avere un muro davanti a noi, possiamo avere la coscienza di essere schiavi...
NOI, che abbiamo tenuto viva, dentro e fuori di noi, la memoria di Fausto e Jaio, per quasi 40 anni, sappiamo che cosa sono i muri. Ci ritroveremo, in una specie di festa pagana, qui in via Mancinelli, simbolicamente circondata da muri, anche per parlare di muri perché non vogliamo essere schiavi e che nessun altro lo sia…

venerdì 3 marzo 2017

LA SCISSIONE DEL PD E I MOVIMENTI A SINISTRA



La scissione del Partito Democratico è il fatto nuovo dello scenario politico.
Si tratta di fare una prima valutazione delle ragioni, della natura, delle ricadute politiche di questo evento sia sul versante della situazione politica sia sul versante della geografia della sinistra politica. In attesa di un quadro più definito che consenta i necessari approfondimenti.

La scissione del PD è stata sospinta dalla sconfitta clamorosa del renzismo nel referendum del 4 dicembre. La combinazione dell'indebolimento verticale del renzismo (a partire dalla caduta del governo Renzi) con la ricerca affannosa da parte di Renzi di una reinvestitura plebiscitaria (o per via di una precipitazione elettorale, o per via di una precipitazione congressuale, o per via dell'una e dell'altra insieme) ha sicuramente rappresentato un fattore di innesco della scissione.
Un segretario con pieni poteri sulle candidature, a partire dai capilista, era una minaccia di annientamento della presenza parlamentare della minoranza. Mentre la svolta tendenzialmente proporzionalistica del sistema politico, a seguito della sconfitta referendaria, favorisce lo spazio di rappresentanza di un nuovo soggetto politico. Anche per questo la scissione è figlia del 4 dicembre.

Al di là della contingenza, le fascine della scissione del PD si erano accumulate progressivamente nel tempo. Il renzismo ha scalato prima il PD e poi il governo, in rapidissima successione: portando una svolta plebiscitaria nella stessa gestione del partito, circondandosi di una giovane guardia di fedelissimi selezionata accuratamente negli anni (il partito della Leopolda), emarginando il vecchio gruppo dirigente del PD (la “rottamazione”). La scissione è anche e innanzitutto la replica vendicativa di settori portanti del vecchio gruppo dirigente contro un renzismo usurpatore, da sempre vissuto come corpo estraneo e abusivo. Massimo D'Alema in particolare ha avuto ed ha un ruolo centrale nell'incarnare questo sentimento e nel dargli una traduzione politica.

Le dimensioni della scissione saranno verificate nelle prossime settimane e nei prossimi mesi. Ma è utile investigare i suoi caratteri politici.


GLI SBOCCHI DELLA SCISSIONE

Dal punto di vista della forma di organizzazione, non sembra che la scissione si dia uno sbocco organico “di partito”. La scelta prevalente sembra essere quella di un movimento politico, dal profilo più sfumato e processuale. La stessa gestione politica pubblica della scissione è stata confusa e minimalista nelle motivazioni (divergenze su date e percorso congressuale del PD, invece che su ragioni pubbliche riconoscibili), è stata segnata da divisioni interne (defezione di Emiliano), è apparsa poco determinata nella stessa azione di rottura (più fuoriuscita che vera scissione). Tutto ciò sembra indebolire al piede di partenza la portata dell'operazione e le sue potenzialità di polarizzazione nei territori.

Dal punto di vista della natura politica del nuovo soggetto è presto per esprimere una valutazione compiuta: un nuovo soggetto politico borghese di tipo ulivista (un PD riveduto e corretto) o una sorta di rifondazione socialdemocratica ( “partito del lavoro” legato alla burocrazia CGIL)? La risposta verrà dalla dinamica del processo in atto.

Le principali componenti politiche promotrici della scissione vengono dal campo borghese liberale. Si tratta della componente dalemiana e dell'area bersaniana del PD. La prima, organizzata attorno alla Fondazione Italianieuropei, ebbe un ruolo di traino nella mutazione progressiva dei DS da socialdemocrazia a partito borghese liberale nella seconda metà degli anni '90, guidando la stagione di controriforme sociali del centrosinistra (1996/2001). La seconda, nata dal ceppo del dalemismo, ha diretto il PD nel passaggio cruciale della grande crisi (2009/2013) gestendo il sostegno al governo Monti e alla relativa macelleria sociale. Complessivamente, il personale dirigente dei governi di centrosinistra dell'imperialismo italiano. L'emarginazione dal potere nella stagione del renzismo ha sicuramente indebolito le ascendenze dirette di questo ambiente presso il grande capitale. Ma non ha cancellato le sue radici politiche. Non a caso è la componente che maggiormente insiste nel rivendicare il nuovo soggetto come riedizione dell'Ulivo, e nel ricercare il coinvolgimento di forze e personalità borghesi del mondo cattolico.

A fianco di queste componenti, confluiscono nell'operazione di scissione con un ruolo rilevante soggetti ed aree del PD non dotate per lo più di configurazione propria (mescolati nel tempo con l'area bersaniana), ma che appaiono maggiormente interessati a una sorta di partito (borghese) “del lavoro”. È il caso del governatore toscano Enrico Rossi, con la suggestione del “partito partigiano del lavoro” e del suo (grottesco) richiamo alla rivoluzione socialista (!). È il caso di Guglielmo Epifani, portavoce della minoranza all'ultima Assemblea nazionale del PD, che ha speso non a caso il proprio intervento nel richiamare le ragioni sociali della separazione (Jobs Act, scuola, tasse). Si tratta di ambienti di una virtuale socialdemocrazia, che vedono la questione sociale come lo spazio politico di costruzione del nuovo soggetto. Ovviamente su una linea borghese governista (sostegno a Gentiloni per la legislatura), e con una prospettiva organica di centrosinistra (coalizione di governo col PD, nazionale e locale), ma con una specifica attenzione al rapporto con l'apparato CGIL, col quale ricostruire una relazione privilegiata. Peraltro la frequentazione delle iniziative scissioniste da parte di ambienti d'apparato CGIL è stata significativa e territorialmente diffusa, espressione della domanda di riferimento politico da parte di una burocrazia sindacale da tempo politicamente orfana.

Se la dinamica del nuovo soggetto porterà a uno sbocco borghese o “socialdemocratico” dipenderà da diverse variabili: il quadro compiuto delle componenti costituenti e il loro equilibrio interno, l'evoluzione della situazione politica, l'eventuale rapporto con le dinamiche in atto nella socialdemocrazia europea.


LE RICADUTE IMMEDIATE A SINISTRA

Di certo la nuova formazione è destinata, da subito, a riflettersi sugli assetti della sinistra italiana e sull'evoluzione della sua crisi.

L'operazione Pisapia, d'intesa con Renzi, (Campo progressista) esce spiazzata e indebolita dal nuovo evento. L'ex sindaco di Milano si è candidato a raggruppare un'area di sinistra da coalizzare con Renzi. Per questo chiede una legge elettorale col premio di maggioranza alla coalizione. Per la stessa ragione Pisapia scongiurava una scissione del PD («una sciagura per l'Italia»): non vuole una concorrenza a sinistra che possa cancellargli lo spazio. Ma ora che la scissione è sostanzialmente compiuta, non può che confluire nella nuova formazione o nel suo campo di riferimento, con un ruolo ben più marginale di quello sognato.

Un problema diverso si pone per Sinistra Italiana (SI), che ha appena concluso il proprio congresso. Una componente rilevante di SI (Scotto, Smeriglio, Ferrara) ha già abbandonato il partito alla vigilia del congresso, prima per trattare direttamente con D'Alema, poi per rivolgersi al Campo progressista di Pisapia, infine per confluire nella nuova formazione. Un'altra componente di SI, oggi minoritaria (D'Attorre), ha apertamente rivendicato in congresso la prospettiva di partecipazione alla costituente unitaria del nuovo soggetto, per poi aggregarsi successivamente ad essa. La maggioranza di SI (Fratoianni-Fassina) si è invece attestata per ora su una posizione autonoma: «Non possiamo fonderci con chi sostiene Gentiloni». In realtà vuole capire quale sarà la dinamica della scissione, cerca di non farsi travolgere da una possibile piena, e soprattutto vuole preservare un proprio peso contrattuale in vista di future possibili ricomposizioni. Fratoianni e Vendola hanno già attivato contatti col giro dalemiano, e Fratoianni ha già pubblicamente avanzato una disponibilità a ipotesi di alleanze elettorali (“liste plurali”) col nuovo soggetto in vista delle elezioni politiche.
Lo spazio e il ruolo di SI nel sommovimento politico in atto dipenderà sia dalla natura compiuta del nuovo soggetto (sbocco borghese o "socialdemocratico"), sia dalla consistenza della nuova formazione e dunque dal rapporto di forza che si verrà a determinare tra il nuovo soggetto e SI.

Le ricadute del 4 dicembre sul sistema politico sono appena iniziate. Anche a sinistra.


Partito Comunista dei Lavoratori

mercoledì 1 marzo 2017

Non una di meno: al movimento delle donne servono le lavoratrici



Al movimento 'Non una di meno' si prospetta un passaggio importante; dovrà avere il coraggio di assumere la prospettiva del rovesciamento di questa società, di questi rapporti di produzione, di questo sfruttamento domestico e lavorativo. Poiché disperdersi in rivendicazioni parziali e non sradicando alla radice la causa dell’oppressione patriarcale e dello sfruttamento capitalista farà perdere a noi donne e a tutte le soggettività oppresse la possibilità concreta di conoscere un altro mondo.

Nelle giornate del 4-5 febbraio a Bologna si è svolta l’assemblea nazionale autorganizzata di 'Non una di meno' per continuare la scrittura del “piano nazionale femminista contro la violenza” e definire le modalità dello sciopero globale transnazionale dell’8 marzo, cui l’Italia aderisce insieme ad altri quaranta paesi. L’incontro si è svolto su otto tavoli tematici, in cui sono stati individuati gli otto punti da inserire nel documento comune in vista dello sciopero.

Tuttavia le modalità di gestione della discussione e i risultati del tavolo 'Lavoro e welfare' sono apparsi a nostro avviso poco democratici.
Non condividiamo l’atteggiamento prevenuto delle organizzatrici dell’assemblea nei confronti delle donne appartenenti a un partito politico marxista, come se l'organizzarsi politicamente e avere una collocazione nella politica generale non possa appartenere anche alle donne, o come se le rivendicazioni femministe non abbiano legami con le scelte politiche attuate fino ad ora. E soprattutto non condividiamo la delegittimazione della prospettiva che il femminismo non possa integrarsi con un progetto di radicale trasformazione della società, con la prospettiva cioè dell’abbattimento del capitalismo e la fondazione di una società nuova dove non vige il principio dell’oppressione di una classe sull’altra, dell’uomo sulla donna e dell’uomo sull’ambiente.

Siamo rimaste inoltre basite dall’aggressività mostrata verso alcune compagne che ponevano all’attenzione dell’assemblea alcune rivendicazioni importanti per le donne e totalmente assenti nelle proposte delle organizzatrici dell’assemblea, proprio sul tema del lavoro. I rilievi alle lacune rivendicative, emerse anche dal dibattito del giorno 4, sono stati stigmatizzati come strumentali e facenti parte del movimento operaio – quindi “maschili” – e totalmente omessi nel report del giorno dopo. Il report, peraltro, non contiene affatto tutte le posizioni esposte, ma una sintesi (vagamente censoria) che le stesse organizzatrici si sono rifiutate di emendare in assemblea, e che per di più non è stato votato.
Il punto centrale che è emerso dal tavolo è il reddito di cittadinanza - o di autodeterminazione, come viene definito - assieme a un non meglio precisato salario minimo europeo ispirato al modello americano (15 dollari orari), che potrebbero essere un boomerang: un salario minimo su cui il padronato potrebbe attestarsi, livellando al ribasso le paghe generali, soprattutto se la rivendicazione del salario non viene unita alla battaglia per l’abolizione di tutte le leggi sulla precarietà, dai voucher alle infinite varietà di lavoro sommerso e non pagato. Il reddito di cittadinanza, slegato quindi dalla condizione lavorativa, non garantisce autonomia, ma al contrario, dati i rapporti reali tra i sessi e le classi, prospetta maggiori probabilità di rinchiudere le donne in casa vincolandole definitivamente a sostituire i servizi sociali nel lavoro di cura. Dunque non cambierebbe nulla della società che lo eroga, ma anzi potrebbe aggravare lo stato di cose esistenti; non influenza i rapporti sociali di sfruttamento e oppressione delle donne, ma al contrario rischia di istituzionalizzarli.

In secondo piano, o totalmente assenti, sono alcune rivendicazioni che pongono al centro il lavoro e la battaglia dentro ai luoghi di lavoro come terreno effettivo di autodeterminazione delle donne: la parità salariale, l’introduzione di un salario garantito per chi è in cerca di occupazione, il ripristino della scala mobile dei salari e delle pensioni, il rafforzamento degli ammortizzatori sociali, la lotta contro lo smantellamento della legge 104, la lotta alle vergognose forme di schiavismo a cui sono sottoposte alcune categorie di lavoratrici (badanti, braccianti...), la fine degli incentivi statali alle aziende che delocalizzano o chiudono attraverso accordi e tavoli istituzionali. Tutte queste istanze si ricollegano alla generale battaglia per la redistribuzione del lavoro fra tutti e tutte, e la conseguente riduzione dell’orario di lavoro a parità di paga con la prospettiva della socializzazione del lavoro di cura: l’unica vertenza che consenta a tutti, e soprattutto a tutte, di definire in piena libertà la forma delle proprie relazioni sentimentali e sessuali, senza subordinarsi ai vincoli imposti dal bisogno materiale.

Anche le modalità dello sciopero dell’8 marzo, che si vuole si svolga su due piani, quello "produttivo" e quello "riproduttivo", non sono veramente efficaci.
Sul piano produttivo, Non una di meno non ha costruito una vera interlocuzione con i sindacati, producendo la possibilità di organizzare lo sciopero su una piattaforma rivendicativa articolata in termini di difesa dei salari e dei diritti delle lavoratrici. Ci si è fermate alla richiesta di un loro appoggio, ma rifiutandosi essenzialmente di condividerne la gestione, cosa che non ha impedito ai sindacati di base di aderire anche se con modalità non unificanti, mentre ha dato sponda alla maggioranza della CGIL di lasciare il tutto nel vago e di non assumersi la sua responsabilità per la riuscita dello sciopero, con risultati che non saranno di grande impatto, malgrado la posizione favorevole dell’area di opposizione interna “Il sindacato è un’altra cosa” e la convocazione dello sciopero da parte della FLC. Dati questi presupposti, si tratta di uno sciopero che temiamo non darà i frutti che avrebbe potuto, e che non darà un segno di reale contrapposizione all’oppressione nei luoghi di lavoro e al capitalismo. Le donne che lavorano faranno fatica a capire perché scioperare senza rivendicazioni in merito ai loro diritti perduti, o per aumenti salariali e miglioramento delle condizioni di lavoro. Perché questo non le fa avanzare di un passo verso quella indipendenza economica necessaria alla liberazione dalla violenza e dalla schiavitù lavorativa e domestica.
Ancora meno efficace ci sembra lo "sciopero riproduttivo", che riguarda tutte quelle donne estromesse dal mondo della produzione capitalista che svolgono attività domestiche, di cura e assistenzialistiche a titolo gratuito al posto dello Stato, oltre a casalinghe, disoccupate, studentesse ecc. Per aderire ideologicamente allo sciopero, queste donne per un giorno non si dovrebbero occupare della cura di anziani e bambini e lavori domestici. In molti casi sarà difficile che qualcun'altro in famiglia lo faccia al loro posto, a meno che non dispongano di un sostegno maschile “democratico”, perché certamente a farlo non sarà lo Stato borghese, che ha scaricato sulle loro spalle una enorme quantità di lavoro invisibile risparmiando ingenti quantità di denaro.
L’evento simbolico non modifica né mette in discussione i rapporti reali.

Noi crediamo che sia invece necessario costruire una piattaforma politica che rivendichi l’abolizione delle leggi e normative sui servizi sociali che sono attualmente scaricati sulle donne (la sussidiarietà, le leggi regionali sulla cura dei malati e degli anziani, il taglio degli investimenti sulla scuola dell’infanzia...) così come delle controriforme della sanità che tolgono esami e screening per una vasta gamma di patologie femminili, tolgono finanziamenti ai centri antiviolenza e trasferiscono fondi ai consultori confessionali, riducendo i servizi dei consultori pubblici, tra l’altro trasformati, questi ultimi, in ambulatori di servizi di base, dove le donne sono semplicemente “utenti”. Ma vogliamo combattere anche contro i finanziamenti a pioggia di fondi ad asili e scuole paritarie, tutte confessionali, dove si formano bambini e bambine a misura di un mondo bigotto e misogino. È dunque di una società realmente laica che le donne e tutte le soggettività oppresse necessitano, una società liberata dagli interessi della Chiesa cattolica. In questo senso la battaglia per l’emancipazione femminile si inscrive in un processo rivoluzionario di rottura con la morale e con l’organizzazione economica e politica della società attuale, che prospetti come passaggio imprescindibile l’abolizione unilaterale del Concordato fra Vaticano e Stato, l’abolizione di tutti i privilegi fiscali, giuridici, normativi, assicurati alla Chiesa cattolica, a partire dalla truffa dell’8 per mille e dall’insegnamento religioso confessionale nella scuola pubblica.

Al movimento Non una di meno si prospetta dunque un passaggio importante: dovrà avere il coraggio di assumere la prospettiva del rovesciamento di questa società, di questi rapporti di produzione, di questo sfruttamento domestico e lavorativo. Poiché disperdersi in rivendicazioni parziali e non sradicando alla radice la causa dell’oppressione patriarcale e dello sfruttamento capitalista farà perdere a noi donne e a tutte le soggettività oppresse la possibilità concreta di conoscere un altro mondo.
Non una marea, ma mille rivoli che in queste condizioni non potranno mettere veramente in discussione chi oggi vive sullo sfruttamento delle donne.


Partito Comunista dei Lavoratori - Commissione di genere