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mercoledì 30 settembre 2015

CASO VOLKSWAGEN : LA REALTA' DEL CAPITALISMO



Il “caso” Volksfagen occupa da giorni il commentario pubblico della stampa borghese.
Fior di esperti , di economisti, di autorità di governo, in tutto il mondo- ed in particolare in Europa-si interrogano sulle ricadute del “diesel gate” sul capitalismo mondiale. E' comprensibile.

In una economia internazionale segnata dal rallentamento dello sviluppo cinese , dalla recessione del resto dei Brics, dalle difficoltà di una ripresa europea gravata dalla difficoltà della stessa ( modesta) crescita tedesca, il caso Volksfagen aggiunge nuovi effetti potenzialmente dirompenti. La debolissima ripresa capitalistica del continente dipende infatti in larga misura dalla forte ripresa dell'industria automobilistica. In Italia, ad esempio, in termini sostanzialmente esclusivi. Un calo o addirittura un crollo del mercato automobilistico potrebbe avere un effetto di trascinamento recessivo in Europa, con conseguenze indubbie sulla ripresa mondiale.

Ma ciò che colpisce del commentario pubblico, anche a sinistra ( v. Il Manifesto), è l'assenza clamorosa di ogni riflessione sul significato rivelatore del “caso” circa la natura stessa del capitalismo. Per anni e decenni, tante culture “progressiste” ci hanno spiegato le virtù del “capitalismo renano” rispetto al “capitalismo anglosassone”, a dimostrazione della possibilità di un “capitalismo etico”, “sociale”, “partecipativo”, “attento all'interesse generale”. Questa campagna ideologica, che ha unito un vasto arco politico e sindacale ( dal liberalismo borghese ai gruppi dirigenti FIOM), è stata talmente ossessiva da resistere persino all'evidenza delle politiche antioperaie di precarizzazione del lavoro ( mini Job) e di disarticolazione dei contratti nazionali portate avanti dal capitalismo tedesco a partire dai primi anni 2000. Persino la rapina del capitale finanziario tedesco ( e francese, e italiano) ai danni della Grecia, e le dannate politiche di austerità a trazione tedesca- che pure hanno prodotto una diffusa reazione in Europa ( talvolta con tratti sciovinisti) hanno risparmiato il mito ideologico del cosiddetto “capitalismo renano”: l'”attenzione dello Stato alle fortune della propria industria”, l'”attenzione dell'industria tedesca alle relazioni col proprio territorio e con i sindacati”, l'”integrazione partecipativa dei sindacati nei consigli di amministrazione e vigilanza” dell'impresa. Paradossalmente, proprio la Volkswagen ha recitato il ruolo di testimonial di cotanta virtù. Quante volte il profilo virtuoso Volkswagen è stato contrapposto come modello di riferimento allo stile del padronato FIAT?

Ora si scopre che la virtuosa Volkswagen ha prodotto migliaia di tonnellate di veleno in giro per il mondo, truffando ogni regola; che gli ambienti istituzionali tedeschi , che partecipano al capitale aziendale ( incluse le banche territoriali dei Land) hanno coperto la truffa ; che la burocrazia sindacale tedesca, chiamata a “vigilare”, ha chiuso un occhio a tutela dei padroni; che gli operai saranno chiamati a pagare i crimini dei loro capitalisti mentre i manager aziendali responsabili prendono buonuscite faraoniche di decine di milioni; che esiste infine il fondato sospetto che le condotte truffaldine della Volkswagen, siano in realtà praticate in varie forme anche dalle altre case automobilistiche concorrenti, che infatti osservano sul caso un silenzio diplomatico sin troppo eloquente.

La verità che emerge allora dal “caso” Volkswagen è molto semplice: non esiste e non può esistere alcun capitalismo “buono”. La dittatura del profitto è l'unica vera legge inossidabile del mercato. A dispetto di ogni altra legge, e di ogni valore morale. Solo una alternativa di società e di potere può liberare l'umanità da questa dittatura. Solo la rivoluzione socialista può cambiare le cose.


PARTITO COMUNISTA DEI LAVORATORI

Giù le mani dalla sanità pubblica! Mobilitazione generale contro il governo!

Mentre prosegue il piano contro la scuola, Renzi muove un nuovo attacco alla sanità pubblica. Nei termini più odiosi. Vuole che siano tagliati i cosiddetti esami inutili. Cioè quelli che accertano la salute. Ma come si fa ad accertare la buona salute senza esami? In realtà il governo vuole risparmiare sulla pelle dei malati. Vuole costringere milioni di lavoratori, lavoratrici, precari, disoccupati, pensionati, che non possono permettersi i costi dei privati, a rinunciare al controllo sulla propria salute. I medici che prescrivono esami “inutili” saranno puniti. Per ottenere la loro complicità si annulla di fatto il potere di ricorso dei malati. Questo piano di “risparmio” è di fatto un investimento cinico sulla patologia e sulla morte delle persone.
E tutto questo perché? Per risparmiare i miliardi necessari per abolire la Tasi anche sulle case di lusso e l'Imu sui capannoni degli industriali. Cioè per continuare a fare le politiche di Berlusconi puntando all'elettorato di destra. Questo mentre si pretende che ogni (eventuale) anticipo d'uscita dal lavoro sia pagato dalla riduzione pesante di pensioni già da fame; mentre non si destina un euro al rinnovo dei contratti pubblici, bloccati da sei anni; mentre si promuove un nuovo attacco al diritto di sciopero nei servizi pubblici colpiti dai tagli; mentre la Confindustria, amica di Renzi, rifiuta di rinnovare i contratti del settore privato pretendendo lo svuotamento preventivo del CCNL, addirittura chiedendo soldi indietro agli operai.
Cosa bisogna attendere per promuovere una mobilitazione e uno sciopero generale contro il governo e il padronato? I vertici sindacali (inclusi Camusso e Landini) continuano a balbettare senza muovere un dito. Un anno fa promossero una mobilitazione (debole e tardiva) contro il Job Act, per poi condurla su un binario morto. Quest'anno neppure quella. Neppure di fronte a un governo che umilia lo stesso sindacato. Nel migliore dei casi si “critica” il governo con qualche intervista, o si organizza qualche passeggiata. Ma nessuna lotta reale dei lavoratori e delle lavoratrici. E questo mentre avanza un progetto istituzionale reazionario che mira a concentrare nelle mani di Renzi tutti i poteri fondamentali della Repubblica.
Questa paralisi dell'opposizione di classe va archiviata. Occorre rispondere all'offensiva avversaria con una radicalità uguale e contraria. Occorre che tutte le organizzazioni che dicono di stare dalla parte dei lavoratori e delle lavoratrici uniscano nell'azione le proprie forze, promuovendo un vero sciopero generale, capace di bloccare il Paese. Occorre che tutte le avanguardie, ovunque collocate, si battano per questa svolta unitaria e radicale della lotta.
A questa lotta va data una piattaforma di rivendicazioni che unisca lavoratori, precari, disoccupati attorno a una battaglia comune. Solo la classe lavoratrice può liberare l'Italia dalla dittatura dei capitalisti e dei loro governi. Solo un governo dei lavoratori e delle lavoratrici, basato sulla loro organizzazione e la loro forza, può fare pulizia e costruire una società nuova.
Il Partito Comunista dei Lavoratori, l'unico che non ha mai tradito i salariati, si batte in ogni lotta per questa prospettiva.


Partito Comunista dei Lavoratori

giovedì 24 settembre 2015

Solidarietà antifascista militante al compagno Saverio Ferrari



Il compagno Saverio Ferrari è nuovamente sotto minaccia da parte di forze fasciste evidentemente preoccupate del lavoro accurato e preciso di informazione e contro-informazione che porta avanti ancora oggi, dopo tutta una vita di impegno antifascista.
Esprimiamo la nostra solidarietà al compagno Saverio, che proprio recentemente è anche stato presente alla nostra festa fiorentina, e a diffondere la notizia che lui stesso denuncia tramite il profilo FB dell'Osservatorio sulle nuove destre: facciamo in modo che questa notizia abbia il massimo risalto! Noi crediamo che una tendenza reazionaria si stia diffondendo nel paese. I fascisti storicamente servono alla borghesia per essere usati contro i lavoratori e in questo momento la crisi della coscienza di classe lascia loro degli spazi che solo la lotta anticapitalista puo’ chiudere. Infatti non esiste antifascismo se non è accompagnato da una forte coscienza di classe, anticapitalista.
Saverio Ferrari e la sua battaglia sono un ostacolo per le forze fasciste e reazionarie. I lavoratori devono riconquistare gli spazi politici che le forze reazionarie, razziste e fasciste si sono prese sul territorio.

Riportiamo il comunicato di Saverio Ferrari:


C’È CHI PENSA A UNA SPEDIZIONE PUNITIVA NEI MIEI CONFRONTI

Sono stato informato, per la seconda volta in poco tempo, che si sta preparando in ambienti dell’estrema destra milanese un’aggressione nei miei confronti. La fonte è attendibile, più volte ho avuto modo di verificarla. Mi ha anche fatto presente le modalità e il nome dell’organizzatore. L’intenzione sarebbe quella di utilizzare stranieri prezzolati e magari far passare la cosa come una vicenda dai contorni poco chiari. Mi vedo costretto a denunciare il tutto con queste modalità non potendo ovviamente disporre di riscontri oggettivi per una denuncia penale.
Il nome dell’organizzatore e i dei mandanti li consegnerò a più persone di mia fiducia, oltre che al mio avvocato. Nel caso mi succedesse qualcosa sapranno che fare.

Saverio Ferrari
Partito Comunista dei Lavoratori

mercoledì 23 settembre 2015

CONTRO BUONA SCUOLA E GOVERNO RENZI RIPRENDIAMO LA LOTTA




A MAGGIO ABBIAMO COSTRUITO UN GRANDE MOVIMENTO: sciopero del 5 maggio, boicottaggio Invalsi, sciopero scrutini, migliaia di assemblee e presidi. Un movimento spinto e sostenuto dal protagonismo di lavoratori e lavoratrici: nei volantini faidate, nei flash-mobs, nei social ed in rete. Un grande movimento costruito su obbiettivi chiari: stabilizzazione di tutti i precari aventi diritto; no alla chiamata diretta; contro la valutazione e la differenziazione degli stipendi. Una critica di massa all'autonomia scolastica.

QUESTO MOVIMENTO HA PERSO UNA BATTAGLIA: il DDL è stato approvato. Non era scontato: Renzi ha vacillato. Ma è passato, contro e sopra le mobilitazioni. Anche per due nostri limiti. Siamo partiti tardi. Si è così impedito il coinvolgimento degli studenti e si è imposto una scadenza ravvicinata alle mobilitazioni (il governo ha imposto il suo testo a scuole chiuse). Ci siamo trovati isolati. Pur in presenza di conflitti diffusi, è stato l'unico movimento di massa contro il governo. Renzi ha quindi potuto tenere e forzare.

QUESTA LOTTA NON SI E’ CHIUSA. Anche il concorsone, la Moratti o il portfolio furono approvati, ma non fecero molta strada. Diverse sono le possibilità di abrogazione o intralcio della legge. Possiamo contrastare questa controriforma, nelle scuole e nelle piazze. Non bisogna semplicemente risparmiare alla scuola gli effetti più deleteri della legge 107 (come dicono CGIL CISL UIL). Non basta contrattare i “criteri” di merito. Non basta che il POF sia riportato nel collegio docenti.

BISOGNA BOICCOTARE LA LEGGE 107. Sciopero attività aggiuntive, ostacolare i Comitati di valutazione, promuovere diffide e ricorsi, applicare rigorosamente i Regolamenti. Ma la battaglia scuola per scuola non può comunque, da sola, fermare la legge: inevitabilmente produrrà differenze (tra istituti e tra docenti). Dobbiamo riprendere il movimento.

SCIOPERO DELLA SCUOLA: UNA GRANDE MANIFESTAZIONE NAZIONALE A ROMA.

Ma non basta. Come abbiamo visto nella primavera, non si vince solo nella scuola. Questo governo autoritario può esser sconfitto solo da un movimento generale. Bisogna isolare Renzi. Questo governo infatti non colpisce solo la scuola: impone il Job Act (licenziamenti, demansionamenti e controllo); limita il diritto di sciopero e assemblea; vuole disfare i contratti nazionali, per abbassare i salari e dare mano libera al padronato nel controllo sul lavoro (orari, ritmi, turni).

CONTRO IL GOVERNO, SCIOPERO GENERALE.

Per questo dal movimento della scuola deve partire un appello a tutto il lavoro, a tutte le organizzazioni sindacali, per la costruzione di un fronte generale di lotta contro tutte le politiche antipopolari del governo.


Partito Comunista dei Lavoratori

lunedì 21 settembre 2015

LA “VITTORIA” DI CHI?



Alexis Tsipras ha vinto clamorosamente la propria scommessa. Ha voluto precipitare le elezioni per capitalizzare la popolarità della propria figura e salvarsi dal fallimento della propria politica. Prima che le masse potessero verificare sulla propria pelle i costi sociali del Memorandum siglato. L'operazione è riuscita. Oltre ogni previsione. Syriza ha conservato quasi immutata la propria percentuale di voto. Unità popolare ha fallito l'approdo in Parlamento. Tsipras può rifare un governo fotocopia a braccetto col partito reazionario di Anel ( con un abbraccio a Kammenos esibito subito sul podio) disponendo di un gruppo parlamentare più disciplinato. Più disciplinato.. a cosa? Naturalmente al rispetto del terribile piano di austerità e sacrifici dettato dai creditori e sottoscritto da Tsipras.

I Vendola, i Ferrero, gli Iglesias, che oggi plaudono entusiasti all'amico Alexis, sperando di racimolare qualche voto in casa, si trovano in curiosa compagnia. “ La vittoria di Syriza rassicura le Borse” recita La Repubblica, guardando i listini festanti. Non è un caso. I circoli capitalistici europei, senza eccezione, salutano positivamente la vittoria di Tsipras. Junker si congratula col vincitore. Hollande brinda al successo di Syriza, nel nome della “sinistra europea” e della “stabilità europea”. Persino il Presidente della commissione esteri del Bundestag ( Norbert Roettgen) , protesi di Merkel, giudica “molto positivo” il risultato greco: “ Tsipras primo, Nea Demokratia secondo, hanno creato un saldo bipolarismo” dichiara compiaciuto. Il Corriere della Sera (di Banca Intesa) saluta la nuova stagione di “continuità e stabilità” che il voto greco propone “alla Grecia e all'Europa”.

Proprio così. “Continuità e stabilità”: questo cercava e cerca il capitale finanziario in Grecia. Il trionfo di Syriza del 25 Gennaio, sottoprodotto di una lunga stagione di lotte sociali, lo inquietava. I circoli dominanti conoscevano naturalmente la volontà compromissoria di Tsipras, già esibita e promessa in mille conciliaboli, ma temevano la sua difficoltà di subordinare al compromesso le grandi masse e di disciplinare un partito riottoso. La vittoria di Tsipras il 20 Settembre, dopo la certificazione del Memorandum , ha una valenza del tutto diversa. E' il miglior risultato che il capitale finanziario potesse attendersi. Paradossalmente un successo di “Nuova Democrazia”ai danni di Syriza, avrebbe potuto introdurre- quello sì- una nuova stagione di convulsioni politiche: con una Syriza costretta all'opposizione, un nuovo spazio di ripresa dell'opposizione di massa, un quadro politico basato nuovamente sulla fragilità di vecchi partiti screditati. Invece l'attuale successo di Tsipras, con una percentuale piena, un gruppo parlamentare omogeneo, la eliminazione dal Parlamento stesso dei suoi contestatori a sinistra, configura un baricentro politico e istituzionale stabile. La risicata maggioranza parlamentare non preoccupa, perchè tutti i partiti borghesi di “opposizione” si sono impegnati a continuare a votare a fianco di Tsipras le misure lacrime e sangue contro i lavoratori greci. E del resto chi meglio di Alexis, col suo comprovato carisma, potrebbe fare da calmiere della rabbia sociale che l'applicazione pratica di quelle misure innescherà presso i settori di massa colpiti?

Ma coloro che parlano di “partita finita”in Grecia, confondono la realtà coi propri desideri.
Certo, Tsipras ha oggi capitalizzato elettoralmente la popolarità della propria immagine e la stanchezza di un popolo stremato. Ha perso mezzo milione di voti verso sinistra o verso un'astensione sfiduciata, ma ha raccolto l'essenziale. “Ho capito che non ci sarà da attendersi molto per il futuro, ma è meglio mettere alla prova questo giovane onesto che affidarsi nuovamente alle vecchie cariatidi corrotte del passato”: così ha ragionato grosso modo il lavoratore greco che ha votato per Tsipras. “Unità popolare”, col suo messaggio riformista nazionalista pro dracma, gli è apparsa un'improvvisazione poco credibile. La sinistra rivoluzionaria era ai suoi occhi troppo debole. Una massa stanca dopo otto anni di lotte, si è dunque affidata a Tsipras più che al suo partito e alla sua politica. E Tsipras investirà questo affidamento popolare in una stabilizzazione del proprio governo, con un probabile successo immediato, a beneficio dei creditori. Ma la ruota della storia non cessa mai di girare. Già i prossimi mesi scandiranno, uno dopo l'altro, tutte le voci del memorandum: a ottobre sarà varato l'aumento dell'età pensionabile, poi scatterà la eliminazione dei sussidi per le pensioni più povere, poi verrà l'aumento di prezzo dei beni alimentari, poi inizierà il grande rilancio delle privatizzazioni a vantaggio dei creditori strozzini che compreranno la Grecia a prezzi di saldo, poi..Quattro anni di austerità sono lunghi. Tanto più lunghi per un popolo ridotto all'indigenza e per una economia già collassata ( quasi - 30% di PIL in otto anni). Le resistenze sociali riprenderanno. L'immagine di Tsipras scolorerà, in un lungo inevitabile logoramento. Nuovi varchi si allargheranno, prima o poi, per il rilancio dell'opposizione di massa. Ogni fatto o esperienza, piccola o grande, proverà che l'unica soluzione vera, l'unica vera alternativa per i lavoratori greci, o è anticapitalista o non è. Mentre il consolidamento di Alba Dorata a destra ricorda che una mancata alternativa anticapitalista, può aprire varchi alla peggiore reazione.
Il problema di fondo si ripresenterà dunque immutato: come costruire un partito rivoluzionario all'altezza di questa verità. I nostri compagni greci di EEK ( Partito operaio rivoluzionario) saranno in prima fila nella costruzione di questa impresa. L'unica che può dare un futuro ai lavoratori.


PARTITO COMUNISTA DEI LAVORATORI

giovedì 17 settembre 2015

CRISI, AUTONOMIA E SINDACATO: UN CONTRIBUTO PER UNA PROSPETTIVA DI CLASSE E ANTICAPITALISTA DELL’OPPOSIZIONE CGIL.

Questo contributo è stato presentato qualche mese fa per il seminario nazionale dell’Area OpposizioneCGIL, firmato da Luca Scacchi e Franco Grisolia, compagni dell’esecutivo nazionale di quell’area e del CC del PCL.



In un’area sindacale plurale (con diverse sensibilità, impostazioni e linguaggi), questo contributo si propone di concorrere alla costruzione di campo di confronto comune, presentando una riflessione che aiuti ad approfondire la discussione e ad articolare collettivamente l’elaborazione

Luca Scacchi e Franco Grisolia


Il 17° congresso della CGIL si è chiuso con la costituzione della nostra area di opposizione. Non era una conclusione scontata. L’assemblea congressuale di Rimini si era infatti aperta con la nostra denuncia sulfurto di democrazia. Non segnalavamo la “scontata” sperequazione tra una maggioranza con migliaia di funzionari e i nostri pochissimi distacchi, ma una palese manipolazione dei dati. Ad esempio a Trieste, dove “avevano votato” più di mille pensionati in Croazia e Slovenia, moltissimi con più di 90 anni, alcuni persino morti! “Avevano votato” più a Napoli che a Milano, a Palermo più che a Torino, a Caserta più che a Brescia: piccole realtà con partecipazione “bulgare”, quando strutture storiche avevano registrato partecipazioni molto inferiori. Dove si era “partecipato”, abbondavano i 100% di votanti, tutti al primo documento e tutti contro gli emendamenti! Il nostro risultato era stato quindi schiacciato ben sotto al 3% quando, al netto delle manipolazioni più evidenti, si era presumibilmente collocato sul 5-7%. Come erano stati compressi gli emendamenti “critici”. In questo quadro, in alcuni congressi di categoria ed in alcuni territori eravamo stati esclusi dai direttivi (FILT, FILCAMS, Firenze, Calabria, ecc). Così sembrava si potesse concludere anche il congresso nazionale, dove la gestione di Scudiere preannunciava la nostra marginalizzazione: obbligo del 3% per presentare liste al Direttivo, esclusione dagli organismi collaterali e annuncio di una conferenza in tempi brevi per modificare il quadro organizzativo, l’autonomia delle categorie, le regole interne. Ma se la maggioranza voleva imporre le proprie scelte, anche un po’ “con le spicce”, ha trovato una resistenza maggiore del previsto nelle aree critiche (il risultato della seconda lista, che riuniva landiniani,exCgilchevogliamo e metà di Lavorosocietà), nella determinazione del nostro documento (presidio, appello al congresso per le firme, ecc), nelle perplessità di una parte della stessa maggioranza (intervento di Colla, segretario dell’Emilia, nella lunga pantomima finale sulla votazioni delle commissioni). E quindi alla fine Camusso è uscita dal congresso più debole di prima.


Un passo indietro: nascita e tramonto di una maggioranza unitaria

Il percorso congressuale si era aperto nell’estate precedente in un quadro diverso, con la costruzione di un nuovo rapporto tra i gruppi dirigenti di FIOM e CGIL. Questa convergenza si era prodotta per il combinarsi di diverse prospettive.

Da una parte la FIOM cercava un percorso di uscita dal conflitto FIAT: dopo l’allargamento del modello Marchionne all’intero gruppo (compreso realtà ad alta sindacalizzazione CGIL come Magneti Marelli o Ferrari), dopo l’accordo Bertone (comprensivo del modello Marchionne), ci si era concentrati sul contrasto giudiziario, anche vincendolo (sentenza del luglio 2013), ma senza comunque cambiare i rapporti di forza. Per questo, anche in vista del rinnovo del CCNL, si intendeva voltare pagina: dopo aver isolato la sinistra interna, anche contro lo Statuto della CGIL (esclusione di Sergio Bellavita dalla segreteria nazionale), la FIOM stava riflettendo su una linea di gestione contrattata delle crisi industriali (ipotesi poi sfociate nei contratti Ducati o Electrolux). La necessità di un cambio di fase suggeriva quindi un diverso rapporto con la confederazione, in grado magari di produrre un accordo generale sulla rappresentanza (intesa del maggio 2013) e un nuovo sistema contrattuale, attraverso cui appunto chiudere la vicenda Marchionne.

Dall’altra parte la CGIL aveva visto sbriciolarsi la sua linea “di fase”, la riconquista di una gestione condivisa della crisi come nella precedente esperienza del ’92-’94. Dopo il governo Berlusconi-Tremonti e gli accordi separati, dopo il governo Monti-Fornero e le forzature dei tecnici, la CGIL puntava infatti sull’atteso “governo amico” come leva per ricostruire una concertazione sia con CISL e UIL, sia con la Confindustria di Squinzi. Il risultato elettorale, al contrario, non solo aveva cancellato il previsto governo Bersani, ma aveva lanciato Renzi alla conquista del PD ed aveva insediato il governo Letta-Alfano, la cui maggioranza comprendeva i principali protagonisti del precedente isolamento (da Brunetta capogruppo PdL alla Camera, a Sacconi presidente della commissione lavoro del Senato). Il gruppo dirigente della CGIL propendeva quindi per una gestione unitaria del congresso, chiudendo le ferite prodotte con l’alleanza anticamussiana degli allora gruppi dirigenti di FIOM, FP e FISAC (Rinaldini, Podda e Moccia), dalla rete28aprile, da alcuni residuali settori cofferatiani (Maolucci, Guzzonato e l’ex-socialista Rocchi).

Nel corso dell’estate 2013 sembrava quindi delinearsi una larga maggioranza, con un documento alternativo ridotto alle componenti di sinistra che rifiutavano tale impostazione: larga parte della rete28aprile e altri piccoli settori che si schieravano all’opposizione. Alcune tensioni permanevano comunque nella larga maggioranza, in particolare per l’intenzione del gruppo dirigente FIOM di non perdere la propria autonomia di movimento, anche con l’obbiettivo esplicito di conquistare la direzione della CGIL. Il seminario di Genova (settembre 2013) era infatti segnato dalla richiesta delle “primarie”, per permettere “una scalata dei gruppi dirigenti”. L’inverno poi si apriva con la tessitura di una relazione pubblica tra Landini e Renzi, con l’ipotesi di una nuova legge sulla rappresentanza da inserire nell’imminente Job Act. La risposta della Camusso è rapida: il 10 gennaio 2014 è improvvisamente siglato l’accordo sul nuovo sistema di rappresentanza, che presenta gravi vizi democratici (presentazione liste, piattaforma negoziale di maggioranza), irreggimenta le RSU (dimissionate se non più nell’organizzazione sindacale), impone un elemento centrale del modello Marchionne (esigibilità e sanzioni) e, contro la FIOM, inserisce una tutela sulle categorie (commissione arbitrale confederale). L’accordo del 10 gennaio, quindi, chiudeva la fase unitaria ed apriva il congresso con una nuova e più acuta tensione tra FIOM e CGIL, nella quale alcune aree critiche rompevano con la Camusso (Patta e Nicolosi), mentre altre decidevano di ricomporsi con la segreteria (poddiani, Dettori e Pantaleo, Botti e Lami).

Lo scontro tra Camusso e Landini ha quindi al contempo chiuso e dischiuso alcuni spazi per la nostra area. Ha chiuso degli spazi, perché la durezza dello scontro nella cosiddetta “maggioranza” è quello che probabilmente ha determinato le manipolazioni più ampie, contro gli emendamenti, avendo come effetto collaterale anche quello di schiacciare i risultati della nostra area. Ha nel contempo dischiuso degli spazi, perché lo scontro a Rimini ha permesso di riconquistare anche per noi alcuni minimi spazi democratici (riconoscimento minoranze, presenza nel direttivo e nelle commissioni, reinserimento nelle strutture dalla quali eravamo stati esclusi).


Il sindacato è un’altra cosa: per un’opposizione classista e anticapitalista.

Il 17° congresso ha quindi permesso la costituzione di un’area di opposizione in CGIL. Un’area legittimata dal documento alternativo, dal voto di decine di migliaia di lavoratori e lavoratrici, dallo sviluppo coerente di una battaglia dalle assemblee di base sino all’assise confederale. Un percorso quindi relativamente sganciato dalle compatibilità e dalle determinazioni della burocrazia sindacale.

Un’area che si è costituita su due assi principali. Da una parte l’opposizione alla linea della CGIL, ritenendo fondamentale e fondante distinguersi dal gruppo dirigente (Camusso) che aveva testardemente rifiutato il conflitto, anche quando la crisi aveva determinato l’offensiva padronale contro occupazione, salari e diritti. Dall’altra parte la distinzione dalle altre aree critiche. Quella di Dettori e Pantaleo, che saldamente dentro la maggioranza spera(va) di modificarne gli assetti attraverso scelte contingenti (dallo sciopero generale alle privatizzazioni). Quella storicamente organizzata di Lavorosocietà, più attenta alle compatibilità burocratiche che allo sviluppo coerente della propria linea. Quella del gruppo dirigente “sabbatiniano”, autocentrato su un impianto categoriale e sulla conquista della direzione della CGIL. Essendo questa l’area critica più significativa, dirigendo la FIOM, soffermiamoci sulla sua impostazione. La linea sviluppata da questo gruppo, che da un ventennio dirige la FIOM, è storicamente impostata sul radicamento di fabbrica e su una logica vertenziale, tendendo quindi ad evitare processi di ricomposizione delle lotte (come evidenziato sia nel 2002-04, sia dopo il 2010). In questo quadro, stante l’empasse determinata dalla vicenda FIAT, avendo abdicato alla generalizzazione del conflitto quando aveva assunto un ruolo di opposizione generale (cortei FIOM 2011 e 2012), si è posto l’obbiettivo di fase della conquista della CGIL.

I processi di demarcazione che hanno costituito la nostra area si sono quindi progressivamente determinati nell’ultimo decennio, a partire dalla Rete28aprile, cioè da quei compagni e compagne della sinistra CGIL che hanno iniziato a coordinarsi partendo dall’opposizione alla linea di Epifani prima e Camusso poi, da un bilancio dell’involuzione burocratica di Lavorosocietà, dal ripiegamento della vasta coalizione dellaCGILchevogliamo. Nella CGIL sono sempre vissute diverse sinistre, sulla base delle diverse appartenenze, dei diversi posizionamenti nei confronti della segreteria, delle dinamiche di diversi settori di classe. Il compito che abbiamo oggi è allora quello di dare un fondamento ed una prospettiva di fase a questa area, che da un percorso di opposizione e distinzione delinei una propria strategia. Noi pensiamo cioè che sia necessario dare a quest’area la prospettiva di una corrente classista e anticapitalista.


Una corrente classista.

Cosa intendiamo per classista? Intendiamo che, in una società dominata dal modo di produzione capitalista, gli interessi dei lavoratori e delle lavoratrici sono direttamente contrapposti a quelli del capitale. Questo modo di produzione, nei secoli del suo sviluppo, ha composto un mercato mondiale che domina l’intera organizzazione sociale, intensivamente (in ogni particolare formazione sociale) ed estensivamente (sul piano internazionale). Certo, rimangono diversi settori che non sono direttamente inseriti nei processi di valorizzazione del capitale: da molti servizi pubblici all’autoproduzione, da organizzazioni cooperative tradizionali a strutture comunitarie. E conseguentemente si determina una complessa articolazione di classe: piccoli produttori contadini e artigiani, commercianti indipendenti, lavoratori e lavoratrici autonomi/e di vecchia e di nuova generazione; anche nello stesso lavoro dipendente, ampi settori non sono direttamente subordinati ai processi di valorizzazione (dal pubblico ad alcuni servizi). La forza dominante però, quella che organizza il complesso e le dinamiche fondamentali della società, è data dal modo di produzione capitalista: il ciclo di crescita o crisi economica, i rapporti tra i diversi paesi e le diverse aree mondiali, le relazioni tra gruppi e classi sociali, sono determinati in ultima istanza dai processi di accumulazione e valorizzazione capitalista. E quindi diritti, salari e condizioni dell’insieme del mondo del lavoro sono fondamentalmente determinati dalle relazioni generali tra capitale e lavoro che si determinano nei processi di valorizzazione capitalista.

Le imprese centrate sulla valorizzazione del capitale (pubbliche o private), che hanno cioè un’organizzazione capitalistica della produzione, si sviluppano attraverso lo sfruttamento dei lavoratori e delle lavoratrici. In queste realtà, lavoratori e lavoratrici ricevono un salario sulla base della distribuzione del plusvalore tra capitale e lavoro: vivono cioè direttamente una relazione antagonistica con il capitale, che si personifica concretamente nel padrone o nella direzione aziendale. Certo, lavoratori e lavoratrici produttivi (di capitale) sono anche capitale vivo: cioè dipendendo la loro riproduzione dal capitale, propendono anche ad assumerne la prospettiva. Gli uomini e le donne che vengono subordinati ai processi di valorizzazione del capitale, però, sviluppano anche una propria autonomia di classe: rimane cioè un elemento umano irriducibile alle logiche del capitale, alla sua volontà di sussunzione. Lavoratori e lavoratrici sono quindi una variabile indipendente, che può ribellarsi ed opporsi al controllo del capitale.

Il sindacato per noi si organizza e si fonda su questa autonomia di classe: sull’irriducibilità oggettiva dei lavoratori e delle lavoratrici, sui loro interessi antagonisti a quelli del capitale. Per questo, il sindacato intende organizzare l’insieme dei lavoratori e delle lavoratrici, senza distinzione di settore o categoria, perché intende organizzare gli interessi collettivi del lavoro contrapposti agli interessi collettivi del capitale. Consapevole quindi di un’articolazione e stratificazione del mondo del lavoro, intende organizzare il lavoro in senso generale vis-a-vis al capitale in senso generale.


Una corrente anticapitalista.

Cosa intendiamo per anticapitalista? Abbiamo già sottolineato che per noi il sindacato è di classe, perché lavoratori e lavoratrici hanno interessi antagonistici a quelli del capitale. Non intendiamo quindi ribadire questo aspetto. Il modo di produzione capitalista, oltre che esser basato sull’alienazione (controllo del lavoro) e sullo sfruttamento (estrazione di plusvalore), oltre che determinare crisi cicliche per le sue modalità di accumulazione, oltre che sviluppare una socializzazione delle forze produttive mantenendo un’appropriazione privata del valore, è determinato da una contraddizione di fondo: la ricerca di un’espansione continua del valore che tende nel contempo a distruggere le basi della sua esistenza (tendenza alla diminuzione del saggio di profitto).

Il modo di produzione capitalista, cioè, tende a produrre un’immane espansione della produzione materiale come veicolo per la sua necessaria espansione di valore. Così ha determinato una secolare espansione demografica, l’innalzamento della speranza di vita e la riduzione della mortalità, la crescita esponenziale del benessere sociale. Questa incontrollata espansione ha prodotto nel contempo un immane sfruttamento umano e ambientale, che ha quindi sviluppato forze sociali antagoniste. Ma il punto principale che si vuole sottolineare non è l’ingiustizia o il rischio per l’ecosistema umano, che giustificano solamente su un piano etico l’antagonismo al sistema. Quello che vogliamo indicare con l’aggettivo anticapitalista è che questo sistema di produzione presenta anche un’immanente tendenza alla depressione. Non solo il suo sviluppo è segnato da un ciclico alternarsi di espansioni e crisi, ma è segnato anche da una tendenza a ridurre progressivamente le basi stesse dell’estrazione del plusvalore. Nell’alternarsi ciclico di espansioni e crisi, cioè, si evidenziano alcune fasi generali di crescita, nei quali salari e profitti possono crescere insieme: fasi che hanno rappresentato la base fondante dei compromessi tra capitale e lavoro, nei limiti dell’espansione della valorizzazione e della crescita della produttività. Ma queste fasi tendono inevitabilmente a collassare in grandi crisi, risolvibili solo con immani distruzioni di capitale esterne allo stesso ciclo economico (guerre, lunghe depressioni, barbarie, ecc). Le ragioni di una lotta sindacale anticapitalista non stanno quindi né semplicemente nella difesa degli interessi antagonistici del lavoro, né in una scelta di campo etica contro l’ingiustizia: stanno nell’immanente tendenza economica alla crisi che accompagna inevitabilmente l’immane espansione capitalistica.


Nella CGIL, per costruire le condizioni di un sindacato classista e anticapitalista di massa.

Un’area sindacale classista e anticapitalista, quindi. Ci si può domandare, di fronte agli ultimi decenni, le ragioni per costituirla in CGIL, invece di cercare di avviare percorsi di raggruppamento con e fra le altre organizzazioni classiste e di base (i diversi Cobas, USB, CUB, ecc).

La CGIL ha infatti assunto oramai stabilmente un’impostazione “concertativa”: la ricerca di una gestione condivisa con il capitale sia nelle fasi di espansione, sia in quelle di crisi (patto dei produttori). Cioè una linea strategica che tende a circoscrivere, se non a negare, l’antagonismo tra lavoro e capitale, nella prospettiva di trovare forme di regolazione del modo di produzione capitalista. Quindi una concertazione non tanto rivolta al governo, quanto principalmente al padronato stesso. Questa impostazione appare immodificabile, per la profondità con cui si è strutturata negli anni e nella complessa struttura burocratica che innerva questo sindacato. E anche perché, al fondo, questa strategia si inscrive nell‘intera storia di questa organizzazione. Tralasciamo pure le vicende della CGdL prima del ventennio, le sue profonde responsabilità nell’ascesa del fascismo e la scelta del suo gruppo dirigente di scioglierla nel 1927 (vero e proprio tradimento della lotta antifascista). La CGIL del dopoguerra, quella rifondata nel 1944 con il patto di Roma (PCI, PSI e DC), ha comunque mantenuto una propensione di fondo a rispettare le compatibilità di sistema, le esigenze di sviluppo “del paese”. Infatti non solo il gruppo dirigente socialista, ma anche la larghissima parte di quello del PCI ha impostato nel dopoguerra una linea strategica di inserimento nel ceto dirigente del paese senza mettere in discussione il quadro capitalistico del paese (linea che fu poi definita organicamente da Togliatti nell’VIII congresso del partito), elaborando anche per questo un’analisi sull’arretratezza del capitalismo italiano e sulla necessità di sostenere lo sviluppo delle forze produttive (i cui principali propugnatori furono Amendola, Sereni, Roveda). Di conseguenza, anche dopo la scissione della CISL e della UIL, la CGIL si è contraddistinta in diversi passaggi storici per la ricerca di un accordo di fase con il padronato. Dalla linea di moderazione salariale centralizzata nell’immediato dopoguerra alle priorità industriali del Piano del lavoro; dall’accordo quadro del 1972 alla linea dell’Eur nel 1978; dall’accordo Scotti del 1983 alla fine della scala mobile nel 1992; dal nuovo sistema contrattuale del 1993 alla riforma delle pensioni del 1995.

La CGIL è comunque sempre stata un’organizzazione di massa, il principale sindacato italiano, schierata a sinistra dopo la scissione del luglio 1948: nel quadro della strategia del PCI (che ne ha mantenuto controllo ed egemonia sino al suo scioglimento), nel quadro di una gestione condivisa con il PSI, ha però raggruppato storicamente diverse sensibilità. La CGIL ha quindi sviluppato nella sua storia una dialettica ed una pluralità di linee, anche negli anni del più rigido stalinismo: diverse sinistre sindacali, dissensi e minoranze hanno sostenuto linee che si sono differenziate o contrapposte a questa impostazione moderata dell’organizzazione. La CGIL, infatti, nonostante il controllo del PCI ed il patto di gestione con il PSI, ha attraversato diverse fasi e diversi gruppi dirigenti, intrecciando sensibilità e linee diverse. Così negli anni cinquanta e sessanta diversi settori hanno condotto una battaglia per analizzare la nuova fase espansiva del capitale italiano, per dare autonomia contrattuale alle categorie, per avviare una contrattazione decentrata, per aprire vertenze sulle condizioni e l’organizzazione del lavoro. Così nel corso dell’autunno caldo si è combattuta (e vinta) la battaglia per introdurre la rivendicazione degli aumenti uguali per tutti. Così anche da settori militanti della CGIL si sono sviluppati i comitati di base e il movimento dei consigli, così nel 1972 si è imposto il CCNL metalmeccanico prima che “l’accordo quadro” potesse acquistare solidità. Così si sono espresse resistenze alla linea dell’EUR (a partire dai pochi voti contrari all’assemblea generale del 1978), si è costituita una componente di opposizione (Democrazia consiliare), si è sviluppata la lotta contro l’accordo Scotti prima (1983) e con il movimento degli autoconvocati poi. Un intreccio di diverse linee che ha caratterizzato la CGIL in un senso, e anche nell’altro: ricordiamo infatti che la FIOM, nei primi anni novanta, si vantava di rinnovare il CCNL senza neanche un’ora di sciopero, diretta da Fausto Vigevani (primo segretario socialista), con Cesare Damiano come aggiunto (sì, quel Damiano, attuale presidente della Commissione Lavoro alla Camera che ha votato “criticamente” il JobAct).

Certo, in questi ultimi vent’anni i processi di degenerazione burocratica sono stati particolarmente significativi, parallelamente all’indebolimento della classe e della sinistra politica nel nostro paese. Certo, dopo lo scioglimento del PCI si è espressa più esplicitamente la sua impostazione moderata, tesa a negare l’irriducibile antagonismo tra capitale e lavoro. Questi processi, inoltre, sono stati accompagnati dallo sviluppo del sindacato dei servizi, dalla crescita dello SPI, dalla riduzione delle categorie che organizzano il nucleo centrale di classe (quello produttivo di capitale e più organizzato). Negli ultimi congressi è diventata sempre più arrogante la gestione burocratica dell’apparato e delle segreterie, con manipolazioni evidenti dei risultati e della selezione dei gruppi dirigenti. Come vediamo la gravità delle scelte e anche dei tradimenti di questi anni (a partire da quello del 10 gennaio 2014), che hanno coinvolto anche componenti percepite come conflittuali (ad esempio la FIOM su Termini Imerese, la Bertone o l’accordo preliminare del 31 maggio 2013 sulla rappresentanza).

Nonostante questo, la CGIL mantiene ancora una dimensione di massa, la capacità di innescare mobilitazioni di massa (articolo 18 nel 2003, vertenza FIAT nel 2010, JobAct nel 2014), un’impostazione di sinistra, la vocazione a organizzare il mondo del lavoro in generale. In questo quadro, la CGIL rimane un’organizzazione sindacale senza possibili paragoni con l’insieme del sindacalismo di base e dintorni: raccoglie infatti oltre 2,5 milioni di lavoratori e lavoratrici attivi, contro al massimo 150mila per l’insieme di tutti i diversi sindacati conflittuali extraconfederali (dalla CUB alla USB, dai diversi Cobas ad alcune strutture categoriali come i CAT nelle ferrovie). Permangono quindi in CGIL dinamiche contraddittorie, che ne fanno un luogo centrale di battaglia e di organizzazione di una linea anticapitalista e di classe a livello di massa. In un contesto in cui non secondario è il suo carattere plurale (pur con tutti i limiti che abbiamo evidenziato), con lo stesso riconoscimento statutario dai primi anni novanta delle aree organizzate.

Per noi ha quindi senso provare a rilanciare un sindacato classista e anticapitalista nella CGIL, non limitandosi alla critica o al dissenso negli organismi dirigenti. Il senso di una nostra presenza organizzata nella CGIL è quello di sfruttarne articolazioni e contraddizioni per sostenere il conflitto di classe, e quindi per sviluppare in una dinamica di massa un’azione sindacale di classe e anticapitalista. In questo quadro, è necessario intervenire come area sindacale nelle dinamiche del conflitto di classe. Anche per contrastare la tendenza ad esser inglobati in una logica burocratica di pura riproduzione, che ritmi, prassi e ritualità di una grande organizzazione di massa tendono a innescare. Nella limitatezza delle nostre forze, è quello che abbiamo provato a sperimentare in questi pochi mesi di vita. Dopo l’annuncio della controriforma della scuola, non ci siamo limitati a criticare il giudizio articolato della FLC o a chiedere lo sciopero nel Direttivo nazionale: abbiamo contribuito a organizzare assemblee e iniziative di lotta, come il percorso degli “autoconvocati”, anche invitando come area nella FLC, con comunicati e volantini, a partecipare allo sciopero del 10 ottobre convocato dai sindacati di base. Nello stesso modo, come area lombarda e nazionale, abbiamo contribuito a organizzare la contestazione a Renzi in Val Seriana, all’assemblea della Associazione industriale bergamasca, una delle prime ad ottenere un’attenzione sui media e nel paese. Come, a livello ancor più generale, sin dall’estate abbiamo lanciato come area un appello per un autunno di lotta; abbiamo partecipato allo Street Meeting di Roma; ci siamo coordinati in questo percorso con i sindacati di base; abbiamo partecipato ed invitato a partecipare, con comunicati e volantini, allo sciopero generale del 14 novembre.


Contro lo “sciopero sociale”, per un fronte di lotta vasto e articolato.

Costruire un’area classista e anticapitalista nella CGIL non significa distanziarsi dagli altri movimenti. Anzi. In una fase segnata dallo sfondamento padronale e dalla scomposizione di classe, è importante costruire fronti di lotta con diverse opposizioni sociali. Siamo consapevoli infatti che esistono altre soggettività, che interpretano e costruiscono mobilitazioni con una diversa prospettiva di lotta. Ad esempio quelle redistributive, che intendono contrastare le politiche neoliberiste e costruire sistemi regolativi del modo di produzione capitalista (vedi la popolarità di Piketty in questi mesi). Inoltre, ed in particolare, dopo il successo dei cortei antagonisti (ottobre 2011, ottobre 2013, aprile 2014), si è diffusa con il 14 novembre la proposta dello “sciopero sociale”. Questa rappresentazione politica del conflitto, di natura biopolitica (Toni Negri, Michel Hardt) o da capitalismo cognitivo (Andrea Fumagalli, Yann Moulier Boutang, Bernard Paulré), ritiene che la produzione è oggi “socializzata”: sono le relazioni che valorizzano il capitale, attraverso le potenze del general intellect e la diffusione di prodotti immateriali (conoscenze, creatività, brand, ecc). Secondo queste impostazioni, il dominio “del capitale” si determina attraverso forme diffuse di controllo sociale o sistemi finanziari transnazionali (dalla microfisica del potere alla gestione della moneta e del debito pubblico). In questo quadro di riferimento non c’è più alcun senso nel condurre una lotta sul salario (spartizione del plusvalore tra lavoro e capitale) o sull’organizzazione del lavoro (tempi, ritmi e intensità del lavoro), in quanto il lavoro stesso è sussunto all’interno di un sistema che vede altrove l’origine del valore. Né ha senso, d’altra parte, uno sciopero politico, in quanto lo Stato è sussunto dal “sistema imperiale” e “biopolitico” del potere. Il conflitto si trasferisce allora in un diverso sistema di riferimento, dove l’elemento centrale è la volontà di potenza collettiva, la costruzione di un potere costituente policentrico che riunisce l’insieme dei liberi autoproduttori sociali di valore (“una sola moltitudine”). E’ quindi una strategia che privilegia dinamiche di ribellione sociale (“sollevazione”, striscione di apertura e parola d’ordine del corteo romano del 19 ottobre), la costruzione di zone liberate, la produzione sociale autovalorizzante (come per beni comuni o open source) o al limite la battaglia per il riconoscimento del contributo di tutti alla produzione di valore (reddito di cittadinanza). La lotta può quindi esser condotta attraverso uno “sciopero sociale”, cioè il rifiuto volontaristico del nuovo proletariato cognitivo e relazionale di assoggettarsi al capitale: in generale tutte le persone che, non avendo altro bene se non la propria mente, sono produttivi anche se non lavorano in quanto connessi alle reti sociali creative; in particolare ci si rivolge a quei settori di lavoratori autonomi di seconda generazione, professionisti ICT, giovani precari e inoccupati che si organizzano nelle reti dei movimenti antagonisti.

Questa rappresentazione del conflitto è radicalmente altra rispetto alla nostra prospettiva di un sindacato di classe e anticapitalista, perché nega persino il senso di un’organizzazione sindacale. E’, appunto, un’altra prospettiva. Con cui possiamo costruire iniziative comuni ed un fronte di lotta, tenendo conto che talvolta tende ad oscillare tra un vuoto radicalismo di piazza e accordi di vertice con amministrazioni locali o burocrazie sindacali. Ma che, in ogni caso, non ha senso assumere come impostazione del nostro intervento.


Nel pieno di una fase di lunga crisi e depressione.

La costruzione di un’area classista e anticapitalista avviene in una fase particolare. Siamo nel pieno di una delle grandi crisi del capitalismo. Un crisi che non trova il suo fondamento nei disequilibri del mercato mondiale o nella mancanza di controllo di un sistema finanziario ipertrofico, e neanche in una riduzione salariale imposta dalle politiche neoliberiste che restringe la domanda aggregata. Nonostante nella sinistra e nel mondo sindacale queste siano le analisi prevalenti, politiche keynesiane di espansione della spesa pubblica o aumenti diffusi dei salari non riavvieranno una fase di espansione della valorizzazione capitalistica. Al più, introdurranno delle controtendenze che dilazioneranno i tempi della crisi stessa. Perché la causa fondante dell’attuale grande crisi (come delle precedenti) è strutturale, è la riduzione tendenziale del saggio di profitto e la conseguente sovrapproduzione di capitali. Una tendenza che è stata combattuta attraverso diverse controtendenze: la crescita esponenziale del sistema finanziario, che permette di impiegare e distruggere grandi quantità di capitale in speculazioni sempre più immani; l’espansione in nuovi territori, prodotti o spazi (l’inserimento nei processi di valorizzazione capitalista di nuove popolazioni, di nuove merci, dei servizi pubblici o sociosanitari); la diminuzione del salario diretto, indiretto e sociale con le politiche neoliberiste. Ma alla fine si è comunque inevitabilmente prodotta una grande crisi sistemica.

Come abbiamo già detto, il sistema capitalista ha conquistato da tempo l’articolazione di un mercato mondiale, che è stata rilanciata dal crollo del “socialismo reale” e dalla conseguente espansione capitalista. In questa articolazione mondiale, il ciclo capitalista è segnato anche da uno sviluppo ineguale e combinato. L’articolazione cioè tra poli imperialisti, formazioni sociali a capitalismo avanzato, paesi in via di sviluppo, aree periferiche, zone in regressione si organizza quindi su diverse dinamiche tra loro fortemente interconnesse. In questo quadro, l’attuale lunga crisi è segnata dall’emersione di nuovi poli capitalisti (Cina), come dallo sviluppo capitalista in Africa, in Asia ed in altre periferie. Aree del mondo nelle quali centinaia di milioni di persone sono entrate nei circuiti di valorizzazione capitalista, hanno abbandonato i loro piccoli mercati di autoproduzione contadina o artigianale, hanno conosciuto migrazioni di massa verso le città (oggi più del 50% della popolazione è urbana). In diversi territori (Cina, Cambogia, Vietnam, Indonesia, ecc) stiamo attraversando una fase di lotte sospinte da salari crescenti, dalla conquista di un salario indiretto (pensioni) e di un salario sociale (sanità, istruzione, ecc), nel quadro di un accelerato sviluppo capitalista.

Questa non è però la fase che noi stiamo vivendo. I percorsi di integrazione europea hanno avviato processi di redistribuzione del sistema produttivo tra il suo nucleo e la sua periferia. La rigidità di un sistema monetario unico, impedendo svalutazioni ed adattamenti tra diverse aree, ha innescato nelle periferie processi di deflazione salariale e di restringimento della base produttiva. Ha cioè determinato una fragilità di questi apparati, su cui è precipitata la recessione del 2008/09 (crollo della produzione e del PIL in Grecia, Spagna, Portogallo, Italia, Irlanda), che la successiva crisi dei debiti pubblici nel 2012 ha semplicemente aggravato (riduzione investimenti pubblici e sostegno ai propri capitali). Dall’adozione dell’Euro, ad es., l’Italia ha visto un’erosione delle proprie esportazioni: tra il 1999 e il 2010 sono aumentate in media del 2% all’anno, contro il 4,2% della zona euro (ISTAT 2013). Questa dinamica ha rilanciato lo sviluppo del nucleo produttivo continentale, attraverso la crescita delle esportazioni intra ed extra europee (maggior surplus mondiale per la Germania, crescita Polacca ed in genere centroeuropea)

In questo quadro, l’Italia è stata segnata non tanto da una doppia recessione (2009-2012), quanto da una vera e propria lunga depressione. Il PIL italiano è infatti oggi inferiore di circa il 10% rispetto a quello del 2007, senza mai aver recuperato quanto perso nel 2009. Nello stesso tempo, la produzione industriale si è ridotta del 25% (dati ISTAT 2014). Ma soprattutto si è determinato un restrin

Luca Scacchi e Franco Grisolia



venerdì 11 settembre 2015

1973 Golpe di Pinochet: Un 11 Settembre dimenticato




Un colpo di stato militare rovescia il presidente Salvador Allende. La borghesia cilena e l’imperialismo nordamericano pongono così fine al governo di Unidad Popular e istaurano una feroce dittatura militare. La giunta che prende il potere è guidata dal generale Augusto Pinochet che presiede un direttorio formato dai capi di stato maggiore delle diverse forze armate. Dall’11 settembre in poi le esecuzioni sommarie, l’uso sistematico della tortura e l’internamento degli arrestati scandiscono drammaticamente la vita del paese latinoamericano. Il movimento operaio è sradicato, la sua avanguardia annichilita, e ogni espressione di sinistra viene cancellata e duramente repressa. Mentre il terrore si diffonde nel paese andino, i circoli dominanti di Washington, che hanno ispirato e sostenuto il pronunciamento militare, esprimono sollievo per lo scampato pericolo. Spaventati dall’ascesa delle lotte e della combattività operaia temevano che in Cile si sviluppasse una dinamica rivoluzionaria. All’indomani del golpe, la stessa Democrazia cristiana cilena, che per tutta una fase aveva giocato un ruolo ambivalente, fa appello “al patriottico senso di cooperazione di tutti i settori con la giunta”. (1)
L’Unidad Popular
Il governo Allende nasce a seguito della vittoria di stretta misura riportata nelle elezioni del settembre 1970. La coalizione che lo sostiene propugna la “via pacifica al socialismo” e si rifà al modello del fronte popolare, come unione tra forze del movimento operaio e settori della cosiddetta borghesia progressista. Due sono gli intenti che lo muovono: modernizzare il paese e avviare delle profonde riforme nel campo socio-economico. Propone una politica di riformismo radicale: ridurre il potere delle compagnie multinazionali, interrompere il flusso delle ricchezze verso l’esterno, spezzare il monopolio e il latifondo. Da subito deve fare i conti con il fatto che il parlamento, l’apparato giudiziario e buona parte dell’amministrazione dello stato non sono sotto il suo controllo. Ciononostante una parte di questo programma viene realizzato. Istituisce un ampio settore di imprese pubbliche, mentre alcuni importanti comparti (minerario, bancario e telefonico) sono nazionalizzati dietro un congruo indennizzo versato ai proprietari. Nel corso del 1972 si aggravano le tensioni sociali. L’aggressione nordamericana si approfondisce. Nixon pone fine ad ogni assistenza economica e si attiva per far crollare le quotazioni del prezzo mondiale del rame. “Make the economy scream” è l’obiettivo che si pone l’amministrazione repubblicana. In questo quadro la destra cilena soffia sul fuoco organizzando scioperi e proteste contro il governo socialista. Paradossalmente la borghesia utilizza i metodi della classe operaia. Entra in sciopero trascinando con sé una parte consistente dei ceti medi. È uno sciopero guidato dall’alto e finanziato dai dollari nordamericani. Il paese viene bloccato per intere settimane. Prima i camionisti, con una spettacolare serrata, e poi i commercianti, i piloti, gli ingegneri e i medici fanno precipitare il paese nel caos. Mentre Unidad Popular ricerca invano un accordo con la Dc, sono i lavoratori a reagire. Costituiscono strutture di potere popolare - i cordones industriali - che occupano le fabbriche, fanno ripartire la produzione, assicurano i rifornimenti. Questi organismi, basati sulla forza e sull’autorganizzazione dei lavoratori, sono fondamentali nel vanificare il moto reazionario che lo sciopero padronale aveva innescato. Nati come espressione della volontà della base operaia di contrastare l’attacco padronale, questi organismi unitari rappresentano il nucleo costitutivo di una nuova istituzione: quella dei consigli dei lavoratori, che esercitando la democrazia diretta iniziano a costruire una nuova organizzazione del potere politico, alternativo e contrapposto a quello borghese. Il governo di Allende tenta in ogni modo di frenare e controllare il movimento delle masse che si è messo in moto. In alcuni casi lo reprime. Rispetto alla polarizzazione sociale determinata dallo scontro tra borghesia e proletariato, Unidad Popular tenta di salvare capra e cavoli. Non rompe con la propria base sociale ma ricerca con forza un accordo con le classi dominanti. Confidando nella neutralità dell’esercito cileno, consegna ai militari tre importanti ministeri del proprio governo. Agli inizi del 1973 è già chiaro l’epilogo, mentre si rinnovano le manovre reazionarie, segnate dal sabotaggio economico, da nuove serrate corporative e dal sempre più evidente lavorio golpista dei generali; il governo di sinistra è titubante, incerto e arrendevole. Malgrado le minacce sempre più pressanti di un colpo di stato, il governo di Allende si attesta su una linea legalitaria e rinuncia a tentare di golpear el golpe, opponendosi all’ipotesi di armare il popolo, come chiede il Movimento della Sinistra Rivoluzionaria (MIR).
L’eco del golpe in Italia.
Il colpo di stato dell’11 settembre 1973 è quello che più colpisce nel profondo un’intera generazione di militanti della sinistra. Di fronte alla tragedia cilena tutta la sinistra italiana è obbligata a ripensare la propria strategia. Ma la riflessione conduce ad approdi differenti. Il Pci, che attribuisce la sconfitta del governo di Allende ad un insufficiente consenso e a un mancato rapporto unitario tra le forze politiche cilene, vira deciso verso la svolta governativa. Proprio in quel frangente, Berlinguer formula per la prima volta la proposta di un compromesso storico con la Dc. Profonda è la divergenza tra il Pci e le forze si collocano alla sua sinistra. Il Manifesto - allora gruppo politico di una certa consistenza - insiste sul problema della disgregazione dei ceti medi e dell’egemonia su di essi. Evidenziando il legame tra la Dc cilena e quella italiana e indicando nel partito di Fanfani il nemico che la sinistra unita deve battere in Italia, attacca il tatticismo di Berlinguer e la sua strategia compromissoria. Le altre organizzazioni della nuova sinistra (Avanguardia Operaia e Lotta Continua) pur traendo conclusioni differenti sono concordi nel sottolineare i limiti e le ambiguità di Unidad Popular e nel criticare con forza quella via pacifica al socialismo che le forze riformiste propugnano. Soprattutto rimarcano l’incapacità del governo di Allende di affrontare il problema dell’inevitabile reazione violenta dello stato e dei suoi apparati militari, allorquando le classi dominanti si sentono minacciate dalla lotta di classe e temono di venire spodestate.
Il Cile come laboratorio
Negli anni della dittatura il regime attua un programma di trasformazione radicale dell’economia. Garantito dal terrore di Pinochet, il Cile diventa il primo laboratorio delle idee della scuola neoliberista dei Chicago Boys. Abolizione di ogni forma di diritto sindacale, smantellamento delle garanzie di previdenza sociale, messa al bando del codice di regolamentazione del lavoro sono le cifre distintive dell’operato degli allievi di Milton Friedman. Gran parte delle imprese vengono privatizzate mentre le terre distribuite ai contadini dalla riforma agraria sono requisite. Il nuovo dogma diventa il riequilibrio del bilancio statale, mentre la liberalizzazione dei tassi d’interesse e l’apertura delle frontiere favoriscono l’afflusso dei capitali e i prestiti finanziari degli organismi internazionali. Il costo sociale di questa politica è esorbitante: crescita della povertà e disoccupazione di massa. Come ha scritto il sociologo Tomàs Moulian il Cile si è trasformato man mano nel laboratorio sterile e nel paradiso del neoliberismo: paradiso per pochi, limbo consumista e indebitatore per altri, e inferno per buona parte della popolazione. Un paradiso guardato da arcangeli ben armati e senza scrupoli morali”. Per questo il premio Nobel per l’economia assegnato a Friedman nel 1976 rappresenta un presagio che annuncia una nuova era. Infatti, di lì a poco tempo, l’esperimento condotto nel laboratorio cileno verrà in forme diverse gradualmente applicato in tutto il mondo.

1) Sulla vicenda cilena si rimanda al saggio di Tiziano Bagarolo pubblicato sul secondo numero della rivista Marxismo Rivoluzionario e oggi disponibile in opuscolo presso le sedi del PCL.

Piero Nobili
PARTITO COMUNISTA DEI LAVORATORI

giovedì 10 settembre 2015

L'EEK e Antarsya uniscono le forze per le elezioni anticipate in Grecia



Il Partito Rivoluzionario dei Lavoratori (Ergatiko Epanastatiko Komma, EEK) annuncia la sua partecipazione alle elezioni del 20 settembre, in collaborazione con Antarsya.
Queste elezioni anticipate, che Tsipras ha convocato dopo il clamore provocato dalla sua adozione del terzo memorandum e dalla sua capitolazione ai creditori nazionali e internazionali, si tengono all'interno di un contesto di deterioramento della crisi globale, strutturale e sistemica del capitalismo, con le sue guerre sparse dall'Europa dell'est (Ucraina) al Medio Oriente e all'Africa, con centinaia di rifugiati disperati annegati nell'Egeo e nel Mediterraneo; in condizioni di completa bancarotta politica ed economica e di crisi di potere in Grecia; e con la massima vergogna di cui si è coperta l'ultima stampella del potere borghese, la sinistra riformista di Syriza.
In queste condizioni critiche, l'EEK considera necessaria la creazione di un fronte unico di lotta, al fine di dare una risposta di classe alla crisi, al fine di combattere gli usurai nazionali e stranieri, di rispondere all'enorme disoccupazione, alla chiusura di fabbriche e piccole attività, all'impoverimento e alla disumanizzazione.
Noi diciamo: SÌ, c'è una soluzione alla crisi storica e sistemica del capitalismo. Una soluzione di classe, che preveda il rovesciamento dei partiti del memorandum, l'uscita da un sistema di crisi e di declino, l'instaurazione di un potere dei lavoratori, un programma socialista, l'auto-organizzazione dei lavoratori stessi, senza padroni né burocrati.
C'è assolutamente bisogno di un fronte unico di lotta, su basi di classe, piuttosto che modelli di amorfa unità pieni di ombre borghesi; un fronte contro il nazionalismo, il razzismo, il fascismo e l'imperialismo. Su queste basi, crediamo che una cooperazione con i compagni di Antarsya sia un passo avanti nello sviluppo del movimento di emancipazione dei lavoratori.



QUI DI SEGUITO LA DICHIARAZIONE CONGIUNTA DI ANTARSYA E DELL'EEK:


Delegazioni di Antarsya e dell'EEK si sono incontrate per discutere sugli sviluppi politici e sulla possibilità di una collaborazione politica ed elettorale alle prossime elezioni del 20 settembre.
Antarsya ha fatto un appello per un'aperta cooperazione politica, e un accordo è stato raggiunto sui principali punti programmatici.
Il terreno comune di convergenza è dato dal fatto che il primo compito della sinistra anticapitalista è quello di contribuire allo sviluppo di un largo fronte politico e sociale di rottura e di rovesciamento del terzo memorandum, e che spazzi via i vecchi memoranda e tutte le loro leggi di attuazione, al fine di soddisfare subito e "unilateralmente" i diritti democratici e sociali, politici ed economici della classe lavoratrici, dei giovani, dei disoccupati e dei contadini impoveriti.
Si è convenuto sul fatto che la caduta di Syriza ha dimostrato alle masse che non esiste un'altra via per i lavoratori che non contempli il conflitto e che non preveda la rottura con il capitale e con la sua strategia che pretende di superare la crisi alle spese dei lavoratori. Esiste un'alternativa alla strada a senso unico del capitalismo, un'alternativa basata su misure quali la nazionalizzazione delle banche e delle grandi imprese senza risarcimento e sotto il controllo popolare e dei lavoratori, il non riconoscimento e la cessazione dei pagamenti del debito, il soddisfacimento immediato "unilaterale" delle richieste e dei bisogni popolari, la rottura immediata e l'uscita dall'eurozona e dall'Unione Europea. Lottiamo per una rottura e un'uscita dall'eurozona/UE che abbiano carattere chiaramente anticapitalista, internazionalista, antimperialista, che si basino sulla cooperazione delle classi lavoratrici e delle masse popolari d'Europa e dei loro movimenti, in direzione socialista e comunista.
Lo strumento per rafforzare un programma di questo tipo può essere solo l'organizzazione popolare, guidata da un movimento di classe che si strutturi su un percorso di rivendicazioni e conquiste, che capovolga e rompa il potere borghese e lo Stato, affinché la ricchezza e il potere passino nelle mani dei lavoratori, per una società senza sfruttamento.
A partire da queste premesse, Antarsya e l'EEK decidono di lavorare insieme per le elezioni del 20 settembre. Inutile dire che nel quadro di questa collaborazione elettorale ciascuna forza manterrà la sua autonomia e la propria definizione programmatica. Inoltre, comprendendo il bisogno di un approfondimento della cooperazione delle forze anticapitaliste, antimperaliste, antagoniste e anti-UE, Antarsya e l'EEK sono d'accordo sul fatto che la collaborazione nelle elezioni è il primo passo di una collaborazione politica per azioni comuni e per iniziative e confornti teorico-politici, all'interno del comune impegno volto a promuovere la causa della classe lavoratrice, per un'altra sinistra che conduca fino in fondo la richiesta di una liberazione sociale
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Atene, 3 settembre 2015
Partito Rivoluzionario dei Lavoratori (Ergatiko Epanastatiko Komma, EEK) - Grecia

venerdì 4 settembre 2015

Ipocrisia europea e migrazioni di massa



Regna sovrana l'ipocrisia dei governi europei di fronte alle migrazioni di massa.

L'accordo eventuale che sembra profilarsi in sede UE sulla questione migratoria non è affatto la svolta “umanitaria” che viene rappresentata per effetto di una improbabile “svolta etica” tedesca. La Germania imperialista capofila dello strozzinaggio del popolo greco non si è trasformata improvvisamente in custode degli oppressi. E nemmeno lo hanno fatto gli altri paesi capitalistici europei. La Germania ha scelto semplicemente di fare necessità virtù: integrerà i siriani, per equilibrare il calo demografico, usandoli come esercito industriale di riserva per la propria industria e i suoi profitti; respingerà tutti gli altri, sulla base di una discriminazione totalmente arbitraria. Altri paesi imperialisti dell'Unione ( Francia, Spagna, la stessa Gran Bretagna) prenderanno una quota di rifugiati, comunque irrisoria, per salvare la faccia. Ma tutti insieme nascondono il volto vero dell'operazione in gestazione.

Infatti , proprio questa intesa cosiddetta “umanitaria”, dietro il paravento di una recitata commozione, cela un ulteriore pesante inasprimento del trattamento dei migranti. La distinzione tra rifugiati e migranti cosiddetti “economici”, già abusiva, viene ulteriormente codificata e irrigidita. Le nuove commissioni “hot spot” previste nei paesi di confine ( Italia, Grecia, forse Ungheria) saranno incaricate di fare il lavoro sporco, sotto un più rigido “controllo europeo” e qualche fondo in più: provvederanno a filtrare quote più ristrette e selezionate di rifugiati allargando la soglia dei migranti “irregolari” da cacciare. A fronte di una migrazione di massa proveniente totalmente da paesi in guerra o dominati da oppressioni inumane, questo significherà, al di là delle chiacchiere, una cosa sola: una quota sempre più ampia di profughi e rifugiati sarà rimandata “nei paesi di provenienza”, coi quali non a caso la UE e i singoli governi europei già stanno attivando accordi bilaterali di reimpatrio. Si tratta dell'annunciata condanna di una massa crescente di migranti alla fame, alla tortura, alla morte. Perchè tornare in Eritrea, o in Mali, o in Gambia, o in Nigeria, o in Afghanistan, o in Palestina o in Irak - i paesi dai quali proviene la quasi totalità dei migranti approdati in Italia nel 2015 - significa esattamente questo.

Il capitalismo non può risolvere i problemi che crea. Ma non può pretendere di nascondere i propri crimini dietro recite umanitarie. Il movimento operaio europeo ha davanti a sé una grande sfida. Che non è solo quella della battaglia, comunque prioritaria, per i diritti democratici elementari dei migranti , a partire dal diritto alla vita e alla accoglienza, contro tutte le politiche oppressive , discriminatrici, securitarie, che i governi europei e i movimenti xenofobi, praticano o sollecitano contro di essi. Ma è e deve essere anche una battaglia anticapitalistica, attorno a rivendicazioni che possano unire lavoratori italiani e migranti contro i comuni sfruttatori: la ripartizione fra tutti del lavoro esistente con la riduzione progressiva dell'orario di lavoro; grandi piani di nuovo lavoro per opere sociali; requisizione di grandi patrimoni immobiliari sfitti. I migranti “sono troppi” per questa organizzazione capitalista della società basata sullo sfruttamento. Non sono troppi per un'altra organizzazione della società, finalmente liberata dalla dittatura del profitto.
La lotta per un governo dei lavoratori, in ogni paese e su scala continentale, è parte integrante della nostra battaglia al fianco dei migranti, come di tutti gli oppressi.


Partito Comunista dei Lavoratori

CANTÙ 12 SETTEMBRE 2015