Questo contributo è stato presentato qualche mese fa per
il seminario nazionale dell’Area OpposizioneCGIL, firmato da Luca Scacchi e
Franco Grisolia, compagni dell’esecutivo nazionale di quell’area e del CC del
PCL.
In
un’area sindacale plurale (con diverse sensibilità, impostazioni e linguaggi),
questo contributo si propone di concorrere alla costruzione di campo di
confronto comune, presentando una riflessione che aiuti ad approfondire la
discussione e ad articolare collettivamente l’elaborazione
Luca Scacchi e Franco Grisolia
Il 17° congresso della CGIL si è chiuso con la costituzione
della nostra area di opposizione. Non era una conclusione scontata. L’assemblea
congressuale di Rimini si era infatti aperta con la nostra denuncia sulfurto
di democrazia. Non segnalavamo la “scontata” sperequazione tra una
maggioranza con migliaia di funzionari e i nostri pochissimi distacchi, ma una
palese manipolazione dei dati. Ad esempio a Trieste, dove “avevano votato” più
di mille pensionati in Croazia e Slovenia, moltissimi con più di 90 anni,
alcuni persino morti! “Avevano votato” più a Napoli che a Milano, a Palermo più
che a Torino, a Caserta più che a Brescia: piccole realtà con partecipazione
“bulgare”, quando strutture storiche avevano registrato partecipazioni molto
inferiori. Dove si era “partecipato”, abbondavano i 100% di votanti, tutti al
primo documento e tutti contro gli emendamenti! Il nostro risultato era stato
quindi schiacciato ben sotto al 3% quando, al netto delle manipolazioni più
evidenti, si era presumibilmente collocato sul 5-7%. Come erano stati compressi
gli emendamenti “critici”. In questo quadro, in alcuni congressi di categoria
ed in alcuni territori eravamo stati esclusi dai direttivi (FILT, FILCAMS,
Firenze, Calabria, ecc). Così sembrava si potesse concludere anche il congresso
nazionale, dove la gestione di Scudiere preannunciava la nostra
marginalizzazione: obbligo del 3% per presentare liste al Direttivo, esclusione
dagli organismi collaterali e annuncio di una conferenza in tempi brevi per
modificare il quadro organizzativo, l’autonomia delle categorie, le regole
interne. Ma se la maggioranza voleva imporre le proprie scelte, anche un po’
“con le spicce”, ha trovato una resistenza maggiore del previsto nelle aree
critiche (il risultato della seconda lista, che riuniva landiniani,exCgilchevogliamo e
metà di Lavorosocietà), nella determinazione del nostro documento
(presidio, appello al congresso per le firme, ecc), nelle perplessità di una
parte della stessa maggioranza (intervento di Colla, segretario dell’Emilia,
nella lunga pantomima finale sulla votazioni delle commissioni). E quindi alla
fine Camusso è uscita dal congresso più debole di prima.
Un passo indietro: nascita e tramonto di una maggioranza
unitaria
Il percorso congressuale si era aperto nell’estate
precedente in un quadro diverso, con la costruzione di un nuovo rapporto tra i
gruppi dirigenti di FIOM e CGIL. Questa convergenza si era prodotta per il
combinarsi di diverse prospettive.
Da una parte la FIOM cercava un percorso di uscita dal conflitto
FIAT: dopo l’allargamento del modello Marchionne all’intero gruppo (compreso
realtà ad alta sindacalizzazione CGIL come Magneti Marelli o Ferrari), dopo
l’accordo Bertone (comprensivo del modello Marchionne), ci si era concentrati
sul contrasto giudiziario, anche vincendolo (sentenza del luglio 2013), ma
senza comunque cambiare i rapporti di forza. Per questo, anche in vista del
rinnovo del CCNL, si intendeva voltare pagina: dopo aver isolato la sinistra
interna, anche contro lo Statuto della CGIL (esclusione di Sergio Bellavita
dalla segreteria nazionale), la FIOM stava riflettendo su una linea di gestione
contrattata delle crisi industriali (ipotesi poi sfociate nei contratti Ducati
o Electrolux). La necessità di un cambio di fase suggeriva quindi un diverso
rapporto con la confederazione, in grado magari di produrre un accordo generale
sulla rappresentanza (intesa del maggio 2013) e un nuovo sistema contrattuale,
attraverso cui appunto chiudere la vicenda Marchionne.
Dall’altra parte la CGIL aveva visto sbriciolarsi la sua
linea “di fase”, la riconquista di una gestione condivisa della crisi come
nella precedente esperienza del ’92-’94. Dopo il governo Berlusconi-Tremonti e
gli accordi separati, dopo il governo Monti-Fornero e le forzature dei tecnici,
la CGIL puntava infatti sull’atteso “governo amico” come leva per ricostruire
una concertazione sia con CISL e UIL, sia con la Confindustria di Squinzi. Il
risultato elettorale, al contrario, non solo aveva cancellato il previsto
governo Bersani, ma aveva lanciato Renzi alla conquista del PD ed aveva
insediato il governo Letta-Alfano, la cui maggioranza comprendeva i principali
protagonisti del precedente isolamento (da Brunetta capogruppo PdL alla Camera,
a Sacconi presidente della commissione lavoro del Senato). Il gruppo dirigente
della CGIL propendeva quindi per una gestione unitaria del congresso, chiudendo
le ferite prodotte con l’alleanza anticamussiana degli allora gruppi dirigenti
di FIOM, FP e FISAC (Rinaldini, Podda e Moccia), dalla rete28aprile, da alcuni
residuali settori cofferatiani (Maolucci, Guzzonato e l’ex-socialista Rocchi).
Nel corso dell’estate 2013 sembrava quindi delinearsi una
larga maggioranza, con un documento alternativo ridotto alle componenti di
sinistra che rifiutavano tale impostazione: larga parte della rete28aprile e
altri piccoli settori che si schieravano all’opposizione. Alcune tensioni
permanevano comunque nella larga maggioranza, in particolare per l’intenzione
del gruppo dirigente FIOM di non perdere la propria autonomia di movimento,
anche con l’obbiettivo esplicito di conquistare la direzione della CGIL. Il
seminario di Genova (settembre 2013) era infatti segnato dalla richiesta delle
“primarie”, per permettere “una scalata dei gruppi dirigenti”. L’inverno
poi si apriva con la tessitura di una relazione pubblica tra Landini e Renzi,
con l’ipotesi di una nuova legge sulla rappresentanza da inserire
nell’imminente Job Act. La risposta della Camusso è rapida: il 10
gennaio 2014 è improvvisamente siglato l’accordo sul nuovo sistema di
rappresentanza, che presenta gravi vizi democratici (presentazione liste,
piattaforma negoziale di maggioranza), irreggimenta le RSU (dimissionate se non
più nell’organizzazione sindacale), impone un elemento centrale del modello
Marchionne (esigibilità e sanzioni) e, contro la FIOM, inserisce una tutela
sulle categorie (commissione arbitrale confederale). L’accordo del 10 gennaio,
quindi, chiudeva la fase unitaria ed apriva il congresso con una nuova e più acuta
tensione tra FIOM e CGIL, nella quale alcune aree critiche rompevano con la
Camusso (Patta e Nicolosi), mentre altre decidevano di ricomporsi con la
segreteria (poddiani, Dettori e Pantaleo, Botti e Lami).
Lo scontro tra Camusso e Landini ha quindi al contempo
chiuso e dischiuso alcuni spazi per la nostra area. Ha chiuso degli spazi,
perché la durezza dello scontro nella cosiddetta “maggioranza” è quello che
probabilmente ha determinato le manipolazioni più ampie, contro gli
emendamenti, avendo come effetto collaterale anche quello di schiacciare i
risultati della nostra area. Ha nel contempo dischiuso degli spazi, perché lo
scontro a Rimini ha permesso di riconquistare anche per noi alcuni minimi spazi
democratici (riconoscimento minoranze, presenza nel direttivo e nelle
commissioni, reinserimento nelle strutture dalla quali eravamo stati esclusi).
Il sindacato è un’altra cosa: per un’opposizione
classista e anticapitalista.
Il 17° congresso ha quindi permesso la costituzione di
un’area di opposizione in CGIL. Un’area legittimata dal documento alternativo,
dal voto di decine di migliaia di lavoratori e lavoratrici, dallo sviluppo
coerente di una battaglia dalle assemblee di base sino all’assise confederale.
Un percorso quindi relativamente sganciato dalle compatibilità e dalle
determinazioni della burocrazia sindacale.
Un’area che si è costituita su due assi principali. Da una
parte l’opposizione alla linea della CGIL, ritenendo fondamentale e fondante
distinguersi dal gruppo dirigente (Camusso) che aveva testardemente rifiutato
il conflitto, anche quando la crisi aveva determinato l’offensiva padronale
contro occupazione, salari e diritti. Dall’altra parte la distinzione dalle
altre aree critiche. Quella di Dettori e Pantaleo, che saldamente dentro la
maggioranza spera(va) di modificarne gli assetti attraverso scelte contingenti
(dallo sciopero generale alle privatizzazioni). Quella storicamente organizzata
di Lavorosocietà, più attenta alle compatibilità burocratiche che
allo sviluppo coerente della propria linea. Quella del gruppo dirigente
“sabbatiniano”, autocentrato su un impianto categoriale e sulla conquista della
direzione della CGIL. Essendo questa l’area critica più significativa,
dirigendo la FIOM, soffermiamoci sulla sua impostazione. La linea sviluppata da
questo gruppo, che da un ventennio dirige la FIOM, è storicamente impostata sul
radicamento di fabbrica e su una logica vertenziale, tendendo quindi ad evitare
processi di ricomposizione delle lotte (come evidenziato sia nel 2002-04, sia
dopo il 2010). In questo quadro, stante l’empasse determinata dalla
vicenda FIAT, avendo abdicato alla generalizzazione del conflitto quando aveva
assunto un ruolo di opposizione generale (cortei FIOM 2011 e 2012), si è posto
l’obbiettivo di fase della conquista della CGIL.
I processi di demarcazione che hanno costituito la nostra
area si sono quindi progressivamente determinati nell’ultimo decennio, a
partire dalla Rete28aprile, cioè da quei compagni e compagne della sinistra
CGIL che hanno iniziato a coordinarsi partendo dall’opposizione alla
linea di Epifani prima e Camusso poi, da un bilancio dell’involuzione
burocratica di Lavorosocietà, dal ripiegamento della vasta
coalizione dellaCGILchevogliamo. Nella CGIL sono sempre vissute diverse
sinistre, sulla base delle diverse appartenenze, dei diversi posizionamenti nei
confronti della segreteria, delle dinamiche di diversi settori di classe. Il
compito che abbiamo oggi è allora quello di dare un fondamento ed una
prospettiva di fase a questa area, che da un percorso di opposizione e
distinzione delinei una propria strategia. Noi pensiamo cioè che sia necessario
dare a quest’area la prospettiva di una corrente classista e anticapitalista.
Una corrente classista.
Cosa intendiamo per classista? Intendiamo che, in una
società dominata dal modo di produzione capitalista, gli interessi dei
lavoratori e delle lavoratrici sono direttamente contrapposti a quelli del
capitale. Questo modo di produzione, nei secoli del suo sviluppo, ha composto
un mercato mondiale che domina l’intera organizzazione sociale, intensivamente
(in ogni particolare formazione sociale) ed estensivamente (sul piano
internazionale). Certo, rimangono diversi settori che non sono direttamente
inseriti nei processi di valorizzazione del capitale: da molti servizi pubblici
all’autoproduzione, da organizzazioni cooperative tradizionali a strutture
comunitarie. E conseguentemente si determina una complessa articolazione di
classe: piccoli produttori contadini e artigiani, commercianti indipendenti,
lavoratori e lavoratrici autonomi/e di vecchia e di nuova generazione; anche
nello stesso lavoro dipendente, ampi settori non sono direttamente subordinati
ai processi di valorizzazione (dal pubblico ad alcuni servizi). La forza
dominante però, quella che organizza il complesso e le dinamiche fondamentali
della società, è data dal modo di produzione capitalista: il ciclo di crescita
o crisi economica, i rapporti tra i diversi paesi e le diverse aree mondiali,
le relazioni tra gruppi e classi sociali, sono determinati in ultima istanza
dai processi di accumulazione e valorizzazione capitalista. E quindi diritti,
salari e condizioni dell’insieme del mondo del lavoro sono fondamentalmente
determinati dalle relazioni generali tra capitale e lavoro che si determinano
nei processi di valorizzazione capitalista.
Le imprese centrate sulla valorizzazione del capitale
(pubbliche o private), che hanno cioè un’organizzazione capitalistica della
produzione, si sviluppano attraverso lo sfruttamento dei lavoratori e delle
lavoratrici. In queste realtà, lavoratori e lavoratrici ricevono un salario
sulla base della distribuzione del plusvalore tra capitale e lavoro: vivono
cioè direttamente una relazione antagonistica con il capitale, che si
personifica concretamente nel padrone o nella direzione aziendale. Certo,
lavoratori e lavoratrici produttivi (di capitale) sono anche capitale vivo:
cioè dipendendo la loro riproduzione dal capitale, propendono anche ad
assumerne la prospettiva. Gli uomini e le donne che vengono subordinati ai
processi di valorizzazione del capitale, però, sviluppano anche una propria
autonomia di classe: rimane cioè un elemento umano irriducibile alle logiche
del capitale, alla sua volontà di sussunzione. Lavoratori e lavoratrici sono
quindi una variabile indipendente, che può ribellarsi ed opporsi al controllo
del capitale.
Il sindacato per noi si organizza e si fonda su questa
autonomia di classe: sull’irriducibilità oggettiva dei lavoratori e delle
lavoratrici, sui loro interessi antagonisti a quelli del capitale. Per questo,
il sindacato intende organizzare l’insieme dei lavoratori e delle lavoratrici,
senza distinzione di settore o categoria, perché intende organizzare gli
interessi collettivi del lavoro contrapposti agli interessi collettivi del
capitale. Consapevole quindi di un’articolazione e stratificazione del
mondo del lavoro, intende organizzare il lavoro in senso generale vis-a-vis al
capitale in senso generale.
Una corrente anticapitalista.
Cosa intendiamo per anticapitalista? Abbiamo già
sottolineato che per noi il sindacato è di classe, perché lavoratori e
lavoratrici hanno interessi antagonistici a quelli del capitale. Non intendiamo
quindi ribadire questo aspetto. Il modo di produzione capitalista, oltre che
esser basato sull’alienazione (controllo del lavoro) e sullo sfruttamento
(estrazione di plusvalore), oltre che determinare crisi cicliche per le sue
modalità di accumulazione, oltre che sviluppare una socializzazione delle forze
produttive mantenendo un’appropriazione privata del valore, è determinato da
una contraddizione di fondo: la ricerca di un’espansione continua del valore
che tende nel contempo a distruggere le basi della sua esistenza (tendenza alla
diminuzione del saggio di profitto).
Il modo di produzione capitalista, cioè, tende a produrre
un’immane espansione della produzione materiale come veicolo per la sua
necessaria espansione di valore. Così ha determinato una secolare espansione
demografica, l’innalzamento della speranza di vita e la riduzione della
mortalità, la crescita esponenziale del benessere sociale. Questa incontrollata
espansione ha prodotto nel contempo un immane sfruttamento umano e ambientale,
che ha quindi sviluppato forze sociali antagoniste. Ma il punto principale che
si vuole sottolineare non è l’ingiustizia o il rischio per l’ecosistema umano,
che giustificano solamente su un piano etico l’antagonismo al sistema. Quello
che vogliamo indicare con l’aggettivo anticapitalista è che questo sistema di
produzione presenta anche un’immanente tendenza alla depressione. Non solo il
suo sviluppo è segnato da un ciclico alternarsi di espansioni e crisi, ma è
segnato anche da una tendenza a ridurre progressivamente le basi stesse
dell’estrazione del plusvalore. Nell’alternarsi ciclico di espansioni e crisi,
cioè, si evidenziano alcune fasi generali di crescita, nei quali salari e
profitti possono crescere insieme: fasi che hanno rappresentato la base
fondante dei compromessi tra capitale e lavoro, nei limiti dell’espansione della
valorizzazione e della crescita della produttività. Ma queste fasi tendono
inevitabilmente a collassare in grandi crisi, risolvibili solo con immani
distruzioni di capitale esterne allo stesso ciclo economico (guerre, lunghe
depressioni, barbarie, ecc). Le ragioni di una lotta sindacale anticapitalista
non stanno quindi né semplicemente nella difesa degli interessi antagonistici
del lavoro, né in una scelta di campo etica contro l’ingiustizia: stanno
nell’immanente tendenza economica alla crisi che accompagna inevitabilmente
l’immane espansione capitalistica.
Nella CGIL, per costruire le condizioni di un sindacato
classista e anticapitalista di massa.
Un’area sindacale classista e anticapitalista, quindi. Ci si
può domandare, di fronte agli ultimi decenni, le ragioni per costituirla in
CGIL, invece di cercare di avviare percorsi di raggruppamento con e fra le
altre organizzazioni classiste e di base (i diversi Cobas, USB, CUB, ecc).
La CGIL ha infatti assunto oramai stabilmente
un’impostazione “concertativa”: la ricerca di una gestione condivisa con il
capitale sia nelle fasi di espansione, sia in quelle di crisi (patto dei
produttori). Cioè una linea strategica che tende a circoscrivere, se non a
negare, l’antagonismo tra lavoro e capitale, nella prospettiva di trovare forme
di regolazione del modo di produzione capitalista. Quindi una concertazione non
tanto rivolta al governo, quanto principalmente al padronato stesso. Questa
impostazione appare immodificabile, per la profondità con cui si è strutturata
negli anni e nella complessa struttura burocratica che innerva questo
sindacato. E anche perché, al fondo, questa strategia si inscrive nell‘intera
storia di questa organizzazione. Tralasciamo pure le vicende della CGdL prima
del ventennio, le sue profonde responsabilità nell’ascesa del
fascismo e la scelta del suo gruppo dirigente di scioglierla nel 1927 (vero e
proprio tradimento della lotta antifascista). La CGIL del dopoguerra, quella
rifondata nel 1944 con il patto di Roma (PCI, PSI e DC), ha comunque mantenuto
una propensione di fondo a rispettare le compatibilità di sistema, le esigenze
di sviluppo “del paese”. Infatti non solo il gruppo dirigente
socialista, ma anche la larghissima parte di quello del PCI ha impostato nel
dopoguerra una linea strategica di inserimento nel ceto dirigente del paese
senza mettere in discussione il quadro capitalistico del paese (linea che fu
poi definita organicamente da Togliatti nell’VIII congresso del partito),
elaborando anche per questo un’analisi sull’arretratezza del capitalismo
italiano e sulla necessità di sostenere lo sviluppo delle forze produttive (i
cui principali propugnatori furono Amendola, Sereni, Roveda). Di conseguenza,
anche dopo la scissione della CISL e della UIL, la CGIL si è contraddistinta in
diversi passaggi storici per la ricerca di un accordo di fase con il padronato.
Dalla linea di moderazione salariale centralizzata nell’immediato dopoguerra
alle priorità industriali del Piano del lavoro; dall’accordo quadro del
1972 alla linea dell’Eur nel 1978; dall’accordo Scotti del 1983 alla fine della
scala mobile nel 1992; dal nuovo sistema contrattuale del 1993 alla riforma
delle pensioni del 1995.
La CGIL è comunque sempre stata un’organizzazione di massa,
il principale sindacato italiano, schierata a sinistra dopo la scissione del
luglio 1948: nel quadro della strategia del PCI (che ne ha mantenuto controllo
ed egemonia sino al suo scioglimento), nel quadro di una gestione condivisa con
il PSI, ha però raggruppato storicamente diverse sensibilità. La CGIL ha quindi
sviluppato nella sua storia una dialettica ed una pluralità di linee, anche
negli anni del più rigido stalinismo: diverse sinistre sindacali, dissensi e
minoranze hanno sostenuto linee che si sono differenziate o contrapposte a questa
impostazione moderata dell’organizzazione. La CGIL, infatti, nonostante il
controllo del PCI ed il patto di gestione con il PSI, ha attraversato diverse
fasi e diversi gruppi dirigenti, intrecciando sensibilità e linee diverse. Così
negli anni cinquanta e sessanta diversi settori hanno condotto una battaglia
per analizzare la nuova fase espansiva del capitale italiano, per dare
autonomia contrattuale alle categorie, per avviare una contrattazione
decentrata, per aprire vertenze sulle condizioni e l’organizzazione del lavoro.
Così nel corso dell’autunno caldo si è combattuta (e vinta) la battaglia per
introdurre la rivendicazione degli aumenti uguali per tutti. Così anche da
settori militanti della CGIL si sono sviluppati i comitati di base e il
movimento dei consigli, così nel 1972 si è imposto il CCNL metalmeccanico prima
che “l’accordo quadro” potesse acquistare solidità. Così si sono espresse
resistenze alla linea dell’EUR (a partire dai pochi voti contrari all’assemblea
generale del 1978), si è costituita una componente di opposizione (Democrazia
consiliare), si è sviluppata la lotta contro l’accordo Scotti prima (1983)
e con il movimento degli autoconvocati poi. Un intreccio di diverse linee che
ha caratterizzato la CGIL in un senso, e anche nell’altro: ricordiamo infatti
che la FIOM, nei primi anni novanta, si vantava di rinnovare il CCNL senza
neanche un’ora di sciopero, diretta da Fausto Vigevani (primo segretario
socialista), con Cesare Damiano come aggiunto (sì, quel Damiano, attuale
presidente della Commissione Lavoro alla Camera che ha votato “criticamente” il JobAct).
Certo, in questi ultimi vent’anni i processi di
degenerazione burocratica sono stati particolarmente significativi,
parallelamente all’indebolimento della classe e della sinistra politica nel
nostro paese. Certo, dopo lo scioglimento del PCI si è espressa più
esplicitamente la sua impostazione moderata, tesa a negare l’irriducibile
antagonismo tra capitale e lavoro. Questi processi, inoltre, sono stati
accompagnati dallo sviluppo del sindacato dei servizi, dalla crescita dello
SPI, dalla riduzione delle categorie che organizzano il nucleo centrale di
classe (quello produttivo di capitale e più organizzato). Negli ultimi
congressi è diventata sempre più arrogante la gestione burocratica
dell’apparato e delle segreterie, con manipolazioni evidenti dei risultati e
della selezione dei gruppi dirigenti. Come vediamo la gravità delle scelte e
anche dei tradimenti di questi anni (a partire da quello del 10 gennaio 2014),
che hanno coinvolto anche componenti percepite come conflittuali (ad esempio la
FIOM su Termini Imerese, la Bertone o l’accordo preliminare del 31 maggio 2013
sulla rappresentanza).
Nonostante questo, la CGIL mantiene ancora una dimensione di
massa, la capacità di innescare mobilitazioni di massa (articolo 18 nel 2003,
vertenza FIAT nel 2010, JobAct nel 2014), un’impostazione di sinistra, la
vocazione a organizzare il mondo del lavoro in generale. In questo quadro, la
CGIL rimane un’organizzazione sindacale senza possibili paragoni con l’insieme
del sindacalismo di base e dintorni: raccoglie infatti oltre 2,5 milioni di
lavoratori e lavoratrici attivi, contro al massimo 150mila per l’insieme di
tutti i diversi sindacati conflittuali extraconfederali (dalla CUB alla USB, dai
diversi Cobas ad alcune strutture categoriali come i CAT nelle ferrovie).
Permangono quindi in CGIL dinamiche contraddittorie, che ne fanno un luogo
centrale di battaglia e di organizzazione di una linea anticapitalista e di
classe a livello di massa. In un contesto in cui non secondario è il suo
carattere plurale (pur con tutti i limiti che abbiamo evidenziato), con lo
stesso riconoscimento statutario dai primi anni novanta delle aree organizzate.
Per noi ha quindi senso provare a rilanciare un sindacato
classista e anticapitalista nella CGIL, non limitandosi alla critica o al
dissenso negli organismi dirigenti. Il senso di una nostra presenza organizzata
nella CGIL è quello di sfruttarne articolazioni e contraddizioni per sostenere
il conflitto di classe, e quindi per sviluppare in una dinamica di massa
un’azione sindacale di classe e anticapitalista. In questo quadro, è necessario
intervenire come area sindacale nelle dinamiche del conflitto di classe. Anche
per contrastare la tendenza ad esser inglobati in una logica burocratica di
pura riproduzione, che ritmi, prassi e ritualità di una grande organizzazione
di massa tendono a innescare. Nella limitatezza delle nostre forze, è quello
che abbiamo provato a sperimentare in questi pochi mesi di vita. Dopo
l’annuncio della controriforma della scuola, non ci siamo limitati a
criticare il giudizio articolato della FLC o a chiedere lo sciopero nel
Direttivo nazionale: abbiamo contribuito a organizzare assemblee e iniziative
di lotta, come il percorso degli “autoconvocati”, anche invitando come area
nella FLC, con comunicati e volantini, a partecipare allo sciopero del 10
ottobre convocato dai sindacati di base. Nello stesso modo, come area lombarda
e nazionale, abbiamo contribuito a organizzare la contestazione a Renzi in Val
Seriana, all’assemblea della Associazione industriale bergamasca, una delle
prime ad ottenere un’attenzione sui media e nel paese. Come, a livello ancor
più generale, sin dall’estate abbiamo lanciato come area un appello per un
autunno di lotta; abbiamo partecipato allo Street Meeting di
Roma; ci siamo coordinati in questo percorso con i sindacati di base; abbiamo
partecipato ed invitato a partecipare, con comunicati e volantini, allo sciopero
generale del 14 novembre.
Contro lo “sciopero sociale”, per un fronte di lotta
vasto e articolato.
Costruire un’area classista e anticapitalista nella
CGIL non significa distanziarsi dagli altri movimenti. Anzi. In una
fase segnata dallo sfondamento padronale e dalla scomposizione di classe, è
importante costruire fronti di lotta con diverse opposizioni sociali. Siamo
consapevoli infatti che esistono altre soggettività, che interpretano e
costruiscono mobilitazioni con una diversa prospettiva di lotta. Ad esempio
quelle redistributive, che intendono contrastare le politiche neoliberiste e
costruire sistemi regolativi del modo di produzione capitalista (vedi la
popolarità di Piketty in questi mesi). Inoltre, ed in particolare, dopo il
successo dei cortei antagonisti (ottobre 2011, ottobre 2013, aprile 2014), si è
diffusa con il 14 novembre la proposta dello “sciopero sociale”. Questa
rappresentazione politica del conflitto, di natura biopolitica (Toni
Negri, Michel Hardt) o da capitalismo cognitivo (Andrea
Fumagalli, Yann Moulier Boutang, Bernard Paulré), ritiene che la produzione è
oggi “socializzata”: sono le relazioni che valorizzano il capitale, attraverso
le potenze del general intellect e la diffusione di prodotti
immateriali (conoscenze, creatività, brand, ecc). Secondo queste impostazioni,
il dominio “del capitale” si determina attraverso forme diffuse di controllo
sociale o sistemi finanziari transnazionali (dalla microfisica del potere alla
gestione della moneta e del debito pubblico). In questo quadro di riferimento
non c’è più alcun senso nel condurre una lotta sul salario (spartizione
del plusvalore tra lavoro e capitale) o sull’organizzazione del lavoro (tempi,
ritmi e intensità del lavoro), in quanto il lavoro stesso è sussunto
all’interno di un sistema che vede altrove l’origine del valore. Né ha senso,
d’altra parte, uno sciopero politico, in quanto lo Stato è sussunto dal
“sistema imperiale” e “biopolitico” del potere. Il conflitto si trasferisce
allora in un diverso sistema di riferimento, dove l’elemento centrale è la
volontà di potenza collettiva, la costruzione di un potere costituente
policentrico che riunisce l’insieme dei liberi autoproduttori sociali di valore
(“una sola moltitudine”). E’ quindi una strategia che privilegia dinamiche di
ribellione sociale (“sollevazione”, striscione di apertura e parola d’ordine
del corteo romano del 19 ottobre), la costruzione di zone liberate, la
produzione sociale autovalorizzante (come per beni comuni o open source) o al
limite la battaglia per il riconoscimento del contributo di tutti alla
produzione di valore (reddito di cittadinanza). La lotta può quindi esser
condotta attraverso uno “sciopero sociale”, cioè il rifiuto volontaristico del
nuovo proletariato cognitivo e relazionale di assoggettarsi al capitale: in
generale tutte le persone che, non avendo altro bene se non la propria mente,
sono produttivi anche se non lavorano in quanto connessi alle reti sociali
creative; in particolare ci si rivolge a quei settori di lavoratori autonomi di
seconda generazione, professionisti ICT, giovani precari e inoccupati che si
organizzano nelle reti dei movimenti antagonisti.
Questa rappresentazione del conflitto è radicalmente altra
rispetto alla nostra prospettiva di un sindacato di classe e anticapitalista,
perché nega persino il senso di un’organizzazione sindacale. E’, appunto,
un’altra prospettiva. Con cui possiamo costruire iniziative comuni ed un fronte
di lotta, tenendo conto che talvolta tende ad oscillare tra un vuoto
radicalismo di piazza e accordi di vertice con amministrazioni locali o
burocrazie sindacali. Ma che, in ogni caso, non ha senso assumere come
impostazione del nostro intervento.
Nel pieno di una fase di lunga crisi e depressione.
La costruzione di un’area classista e anticapitalista
avviene in una fase particolare. Siamo nel pieno di una delle grandi crisi del
capitalismo. Un crisi che non trova il suo fondamento nei disequilibri del
mercato mondiale o nella mancanza di controllo di un sistema finanziario
ipertrofico, e neanche in una riduzione salariale imposta dalle politiche
neoliberiste che restringe la domanda aggregata. Nonostante nella sinistra e
nel mondo sindacale queste siano le analisi prevalenti, politiche keynesiane di
espansione della spesa pubblica o aumenti diffusi dei salari non riavvieranno
una fase di espansione della valorizzazione capitalistica. Al più,
introdurranno delle controtendenze che dilazioneranno i tempi della crisi
stessa. Perché la causa fondante dell’attuale grande crisi (come delle
precedenti) è strutturale, è la riduzione tendenziale del saggio di profitto e
la conseguente sovrapproduzione di capitali. Una tendenza che è stata
combattuta attraverso diverse controtendenze: la crescita esponenziale del
sistema finanziario, che permette di impiegare e distruggere grandi quantità di
capitale in speculazioni sempre più immani; l’espansione in nuovi territori,
prodotti o spazi (l’inserimento nei processi di valorizzazione capitalista di
nuove popolazioni, di nuove merci, dei servizi pubblici o sociosanitari); la
diminuzione del salario diretto, indiretto e sociale con le politiche
neoliberiste. Ma alla fine si è comunque inevitabilmente prodotta una grande
crisi sistemica.
Come abbiamo già detto, il sistema capitalista ha
conquistato da tempo l’articolazione di un mercato mondiale, che è stata
rilanciata dal crollo del “socialismo reale” e dalla conseguente espansione
capitalista. In questa articolazione mondiale, il ciclo capitalista è segnato
anche da uno sviluppo ineguale e combinato. L’articolazione cioè tra poli
imperialisti, formazioni sociali a capitalismo avanzato, paesi in via di
sviluppo, aree periferiche, zone in regressione si organizza quindi su diverse
dinamiche tra loro fortemente interconnesse. In questo quadro, l’attuale lunga
crisi è segnata dall’emersione di nuovi poli capitalisti (Cina), come dallo
sviluppo capitalista in Africa, in Asia ed in altre periferie. Aree del mondo
nelle quali centinaia di milioni di persone sono entrate nei circuiti di valorizzazione
capitalista, hanno abbandonato i loro piccoli mercati di autoproduzione
contadina o artigianale, hanno conosciuto migrazioni di massa verso le città
(oggi più del 50% della popolazione è urbana). In diversi territori (Cina,
Cambogia, Vietnam, Indonesia, ecc) stiamo attraversando una fase di lotte
sospinte da salari crescenti, dalla conquista di un salario indiretto
(pensioni) e di un salario sociale (sanità, istruzione, ecc), nel quadro di un
accelerato sviluppo capitalista.
Questa non è però la fase che noi stiamo vivendo. I percorsi
di integrazione europea hanno avviato processi di redistribuzione del sistema
produttivo tra il suo nucleo e la sua periferia. La rigidità di un sistema
monetario unico, impedendo svalutazioni ed adattamenti tra diverse aree, ha
innescato nelle periferie processi di deflazione salariale e di restringimento
della base produttiva. Ha cioè determinato una fragilità di questi apparati, su
cui è precipitata la recessione del 2008/09 (crollo della produzione e del PIL
in Grecia, Spagna, Portogallo, Italia, Irlanda), che la successiva crisi dei
debiti pubblici nel 2012 ha semplicemente aggravato (riduzione investimenti
pubblici e sostegno ai propri capitali). Dall’adozione dell’Euro, ad es.,
l’Italia ha visto un’erosione delle proprie esportazioni: tra il 1999 e il 2010
sono aumentate in media del 2% all’anno, contro il 4,2% della zona euro (ISTAT
2013). Questa dinamica ha rilanciato lo sviluppo del nucleo produttivo
continentale, attraverso la crescita delle esportazioni intra ed extra europee
(maggior surplus mondiale per la Germania, crescita Polacca ed in genere
centroeuropea)
In questo quadro, l’Italia è stata segnata non tanto da una
doppia recessione (2009-2012), quanto da una vera e propria lunga depressione.
Il PIL italiano è infatti oggi inferiore di circa il 10% rispetto a quello del
2007, senza mai aver recuperato quanto perso nel 2009. Nello stesso tempo, la
produzione industriale si è ridotta del 25% (dati ISTAT 2014). Ma soprattutto
si è determinato un restrin
Luca Scacchi e Franco Grisolia
Nessun commento:
Posta un commento
Nota. Solo i membri di questo blog possono postare un commento.