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domenica 29 dicembre 2019

TIZIANO BAGAROLO | UOMO, NATURA, SOCIETÀ NEL MARXISMO

L’uomo è immediatamente ente naturale. Come ente naturale, e ente naturale vivente, è da una parte fornito di forze naturali, di forze vitali, è un attivo ente naturale, e queste forze esistono in lui come disposizioni e capacità, come impulsi; e d’altra parte, in quanto ente naturale, corporeo, sensibile, oggettivo, è un ente passivo condizionato e limitato, come è anche l’animale, e la pianta: e cioè gli oggetti dei suoi impulsi esistono fuori di lui come oggetti del suo bisogno, oggetti indispensabili, essenziali alla manifestazione e conferma delle sue forze essenziali”


 

sabato 28 dicembre 2019

IL MINISTRO FIORAMONTI SI È DIMESSO, I SOTTOSEGRETARI RESTANO AL LORO POSTO



Il Ministro Fioramonti ha rassegnato le dimissioni dopo l'approvazione della manovra di Bilancio con ben poche risorse destinate alla ricerca e all'istruzione.
Si sa che lo stato in cui versano scuole e università è da tempo comatoso.
Dal 2008 ad oggi il rapporto tra salari e redditi da lavoro è crollato , rinviata a tempo indeterminato l'annunciata ripresa e crescita, la classe media è stata schiacciata verso il basso e in questa classe media si trovano anche gli insegnanti.
Nell'inversione di tendenza delle politiche intraprese da anni ad oggi c'era proprio la istruzione , la ricerca e la formazione, istruzione universitaria , scolastica e quella legata anche alle professioni.
Il Ministro Fioramonti si è dimesso al contrario dei suoi collaboratori, dei sottosegretari che restano invece al loro posto.
Resta il fatto che Fioramonti aveva già dovuto digerire vari bocconi amari, dagli Invalsi alla alternanza scuola lavoro giudicati, a novembre scorso, indispensabili requisiti per accedere all'esame di maturità, fino alla contrazione dei fondi destinati ai rinnovi contrattuali della scuola tenuti fermi per 9 anni con stipendi, al cospetto dell'Europa, tra i più bassi in assoluto.
Si sono persi per strada anche i fondi destinati all'edilizia scolastica, anzi molti sindaci sembrano più interessati solo ai controlli antidroga davanti alle scuole che alla messa in sicurezza degli edifici, non si trovano i soldi per costruire palestre e moderni laboratori.
Altro aspetto dirimente è quello della regionalizzazione.
Si scrive regionalizzazione ma si legge privatizzazione della Scuola statale a discapito del carattere universale della scuola, dell'unità culturale del nostro paese in palese violazione per altro di quell'articolo 5 della Costituzione che parla di Repubblica una e indivisibile.
L'autonomia scolastica, dunque, e non l'incarico di Ministro, dovrebbero servire a focalizzare l'attenzione ai problemi reali non certo alle solite polemiche politiche.

Diventa fondamentale non solo una presa di coscienza nelle migliaia di lavoratori della scuola, vittime di questo sistema errato di gestione, ma creare strutture di coordinamento e lotta per la propaganda e la denuncia di tale problematica. 

martedì 24 dicembre 2019

FRANCIA: I FERROVIERI VOTANO LA CONTINUITÀ DELLO SCIOPERO

Dopo 18 giorni di sciopero a oltranza contro "la legge Fornero di Macron", i ferrovieri francesi non mollano.




 Il governo cerca di montare l'opinione pubblica contro lo sciopero usando il ricatto del Natale e combinandola con qualche piccola concessione. La burocrazia del secondo sindacato dei ferrovieri francesi (UNSA Ferroviaire) usa queste concessioni come pretesto per sfilarsi dal fronte dello sciopero e dichiarare la “tregua natalizia”. La moderata CFDT, che solo il 14 dicembre era scesa in sciopero contro l'aumento dell'età pensionabile da 62 a 64 anni, si è affrettata ad “apprezzare il nuovo gesto di dialogo che viene dal governo”, lanciando un messaggio implicito di smobilitazione. Infine, il fronte intersindacale (CGT, FO, Solidaires, FSU, UNEF...) che dirige lo sciopero e rivendica, a differenza della CFDT, il ritiro del progetto di legge governativo, annuncia una giornata di manifestazioni... per il 9 gennaio. Un annuncio che formalmente non smobilita, ma suona ambiguo sulla continuità dello sciopero nel momento più delicato e difficile per la sua tenuta.

Di fronte a questa congiunzione di fattori, il 21 dicembre la stampa borghese di Parigi si è affrettata a dare la buona novella natalizia dello sfarinamento dell'agitazione. “Il governo riesce a rompere il fronte dello sciopero” annunciava il (pur prudente) Le Monde in prima pagina.
Ma i conti non si fanno senza l'oste. Le assemblee dei lavoratori in sciopero hanno respinto le ingiunzioni del governo e i segnali di smobilitazione delle burocrazie. Di primo mattino alla Gare de Lyon, all'assemblea generale della stazione di Saint-Lazare, alla Gare de l'Est e alla Gare d'Austerlitz, il pronunciamento operaio è uno solo: lo sciopero continua sino al ritiro del progetto di legge. La larghissima maggioranza delle assemblee in tutta la Francia segue a ruota. I delegati di base dei CGT e Solidaires sono la punta trainante del pronunciamento. Ma la stessa CFDT-ferrovieri è costretta a dichiarare la continuità del blocco, e persino il 50% delle sezioni dell'UNSA si ribellano ai propri dirigenti nazionali: “Non capisco la strategia del gruppo dirigente del mio sindacato... Non si spezza una lotta nel momento decisivo” dichiara in assemblea un delegato UNSA della Gare Paris Est. Il risultato è che la Francia resta bloccata. Anche a Natale, nonostante il Natale.

Seguiremo come sempre, giorno per giorno, la dinamica dello sciopero francese. Certo, pesa sulla prospettiva l'ipoteca della burocrazia sindacale. Sia di quella che sogna un accordo separato col governo in cambio di una onorevole foglia di fico (CFDT), sia di quella sicuramente più combattiva che vuole sopravvivere al macronismo costringendo il governo a riconoscere la sua forza di burocrazia (CGT). Ma i fatti dimostrano che la burocrazia non ha ad oggi il pieno controllo delle assemblee, dove una nuova generazione di delegati operai si è fatta le ossa nelle lotte di questi anni (come nella lotta contro la legge El Khomri), ha accumulato una esperienza preziosa, non ha alcuna voglia di arrendersi. Anzi, ha voglia di vincere. Gli insegnanti hanno aderito in massa allo sciopero al fianco dei ferrovieri, e nonostante le scuole siano in vacanza natalizia, manifestano la continuità della propria lotta partecipando spesso ai picchetti degli cheminots e alle loro assemblee, mentre continua lo sciopero a oltranza della metropolitana, e la mobilitazione radicale degli infermieri, che in realtà aveva anticipato quella dei ferrovieri. Si estenderà la lotta al settore privato, innanzitutto alle fabbriche? Questo è l'interrogativo sospeso che può decidere della piega degli avvenimenti. È ciò che terrorizza la borghesia francese. Ma anche la burocrazia sindacale.

Ai lavoratori francesi, e ai militanti marxisti rivoluzionari, impegnati in prima fila per la generalizzazione della lotta, va tutto il nostro sostegno internazionalista.

Partito Comunista dei Lavoratori

venerdì 20 dicembre 2019

LA NECESSITÀ E LA CENTRALITÀ DELLA RICOSTRUZIONE DI UN'OPPOSIZIONE SOCIALE E POLITICA DI CLASSE



Il capitalismo è un modo di produzione moribondo che passa di crisi in crisi. L’ultima crisi ciclica di sovrapproduzione di capitale, si aprì a metà del 2017 e scoppiò nel settembre 2008 stremando l’economia mondiale e provocando fallimenti a catena, distruzione di forze produttive e un elevato indebitamento degli Stati imperialisti e capitalisti per salvare i monopoli finanziari.

Ora, a distanza di undici anni dallo scoppio dell’ultima crisi, le cui conseguenze sono state solo parzialmente riassorbite e le cui “soluzioni” imposte dalla borghesia imperialista, hanno determinato nuovi problemi e contraddizioni insolubili del sistema capitalista aprendo, così, una nuova fase del ciclo economico.

La macchina economica di tutte le maggiori potenze imperialiste, come USA, Cina, Germania, Giappone, sta evidentemente frenando. Non vi sono dati che indicano una ripresa economica. Al contrario, si moltiplicano gli indicatori di una ennesima tempesta, che avrà conseguenze persino peggiori di quella scoppiata nel 2008, a causa di molteplici fattori che si sono accumulati nell'ultimo decennio.

Dietro la polemica sul MES c’è una lotta a coltello fra paesi imperialisti, e fra le loro cordate politiche, per riversare la crisi sui loro concorrenti, e soprattutto sulle spalle della classe operaia e dei popoli. L’UE non potrà mai essere organo stabile di pianificazione economica che rimpiazzi l’anarchia capitalista; è piuttosto un campo di battaglia in cui gli Stati e i gruppi del grande capitale manovrano le loro forze l’uno contro gli altri.

In questi anni, decenni per molti aspetti, di arretramento profondo del movimento operaio, di crollo della sinistra politica e spesso anche di deriva culturale, i riferimenti di classe sono scomparsi, sono diluiti, tutti parlano di cittadini e si rivolgono ai cittadini.

I cittadini, naturalmente, possono essere progressisti, possono essere reazionari, possono essere persino antagonisti. Ma la categoria dominante è la categoria del cittadino, un'entità metafisica al di sopra del mondo materiale delle cose.

Non ci sono i cittadini, ci sono le classi e mai come oggi queste classi sono divise, contrapposte, inconciliabili come negli anni della grande crisi del capitalismo. Lavoratori e padroni, salariati e capitalisti, sfruttati e sfruttatori. Non si possono tenere i piedi in molte staffe. 

Questa è la frontiera, la prima frontiera.

Se tutto questo è vero emerge con assoluta evidenza la necessità e la centralità della ricostruzione di un'opposizione sociale e politica di classe in questo paese, opposizione al governo Conte, opposizione alla destra reazionaria, un'opposizione che si coaguli attorno ad una piattaforma generale indipendente nel mondo del lavoro.

 Non è solo una necessità sindacale, è una necessità politica.  
È  l'unica via attraverso cui il movimento operaio può ricomporre le proprie file, contrastare la dinamica di disgregazione, costruire la propria forza contro le mille dinamiche centrifughe.

Può porre finalmente le proprie ragioni e rivendicazioni al centro dello scenario politico generale per intervenire nelle contraddizioni sociali, per lavorare e capovolgere i rapporti di forza nei luoghi di lavoro e nella società.


PCL Pavia

sabato 14 dicembre 2019

IL POSTO A TAVOLA. LANDINI, LA CGIL E IL GOVERNO

Dal sito dell'area Riconquistiamo tutto - il sindacato un’altra cosa



Qualche settimana dopo la costituzione del nuovo governo Conte bis, Crozza ha realizzato la cena delle beffe: un Salvini solo e sotto la pioggia guarda dietro a una vetrina i protagonisti della nascita del nuovo esecutivo bere, mangiare, ridere e scherzare. Sono Conte, Grillo, Zingaretti, Berlusconi, Gentiloni, Mattarella e… Landini. Il quale ricorda a tutti di aver fatto la ola con la Camusso, ma anche che tra gli operai la Lega è ancora forte... “sembra me negli anni Novanta”. Come spesso accade, con le sue caricature Crozza riesce a cogliere l’anima di un passaggio politico.

Nella crisi estiva, infatti, la CGIL si è seduta a pieno titolo intorno a quel tavolo. Prima sospingendo la formazione di un nuovo esecutivo (anche con le dichiarazioni pubbliche di Landini, proprio nei momenti cruciali in cui la segreteria PD non era convinta della soluzione e non era convinta di Conte). Poi instradando alcuni suoi cardini programmatici, a partire dalla defiscalizzazione dei salari come strumento per aumentare i redditi.

Una linea pienamente confermata dal Direttivo CGIL, con una nuova dinamica che ha fluidificato gli schieramenti congressuali nella maggioranza. Una scelta confermata anche nei mesi successivi, nell’azione dell’organizzazione. Di fronte al rischio dei "pieni poteri" di Salvini, di fronte alla possibilità di un governo reazionario a guida leghista, la CGIL ha infatti aperto un credito senza fine nei confronti dell’esecutivo. Da una parte, in ogni settore ed a livello generale, ha incontrato maggioranza e ministri sulle più disparate questioni, cercando sia di indirizzarne gli interventi sia di legittimarsi nell’interlocuzione. Dall’altra parte, ha sospeso e bloccato ogni mobilitazione di massa, per evitare che la pressione sociale mettesse in discussione una compagine che si è rivelata molto più fragile del previsto.

In questi mesi, però, la CGIL ed il lavoro hanno raccolto poco o niente. Sul terreno dei diritti sociali e civili, non una sola norma del precedente governo Conte-Salvini è stata toccata (comprese quelle più infami, come i decreti sicurezza o gli accordi libici). Nella scuola, la maggioranza ha sconfessato le intese sul precariato sottoscritte prima dell’estate (già molto contenute, con un concorso straordinario limitato a 24 mila posti ed uno ordinario per altrettanti, oltre a percorsi abilitanti straordinari per tutti), per poi ricostruirle solo parzialmente, rivedendole continuamente con un travagliato percorso parlamentare (non ancora concluso). Nelle politiche economiche, la conferma dell’austerità europea ha tagliato sul nascere ogni logica di ripresa degli investimenti pubblici, a partire da scuola, sanità e servizi sociali (che hanno visto confermati i tagli e gli impianti neoliberisti degli scorsi anni). Nella legge di bilancio, dopo aver garantito aziende e liberi professionisti, lo spazio per l’aumento dei redditi attraverso la riduzione del cuneo fiscale si è molto ridotto, senza poter nemmeno garantire una solida spinta alla stagione di rinnovi contrattuali appena avviata. I contratti pubblici, nonostante le attese, sono stati nuovamente rimandati (ancora una volta alla fine del triennio di competenza) e sono tuttora schiacciati sull’IPCA, senza alcun recupero del lungo blocco salariale e senza nessuna fuoriuscita dalla logica gerarchica della Brunetta e della Madia. I pensionati e la previdenza sono stati semplicemente messi da parte. Sull’autonomia differenziata, dopo un primo inabissamento autunnale, la bozza Boccia sta riportando in auge il processo della differenziazione dei diritti e dei servizi universali, sotto il fragile velo dei LEP (improbabilmente definiti entro un anno e comunque soggetti alla logica neoliberista dei costi minimi) e con l’esclusione di un vero coinvolgimento parlamentare. La tragedia dell’Ilva, l’ennesima crisi di Alitalia, la vicenda Whirlpool e la ripresa di una stagione di ristrutturazioni sospinta dalla congiuntura incerta hanno evidenziato l’assenza di ogni politica industriale, la confusione programmatica e, soprattutto, l’anima padronale di questo governo.

Non solo. In questi mesi il governo Conte bis ha evidenziato tutta la sua inconsistenza. La maggioranza 5 Stelle, PD, Italia Viva (Renzi) e LeU (sinistra) non ha solo incontrato evidenti limiti di consenso nel paese (come hanno mostrato i risultati delle elezioni autunnali, a partire dall’Umbria). Si è anche avvitata nei contrasti dei suoi diversi protagonisti e persino all’interno dei diversi partiti che la compongono. Soprattutto, dalla legge di Bilancio all’Ilva, dalla gestione di scuola e dell’università (l’agenzia della ricerca, i 3 miliardi di fondi aggiuntivi, il decreto precari) al MES (il fondo di salvaguardia europeo), la maggioranza ha mostrato tutte le sue contraddizioni e tutte le sue incapacità. In un tempo sospeso, tra le incertezze di uno scontro interimperialista sempre più acuto e ripetuti segnali di una nuova precipitazione della Grande Crisi, si è rapidamente sfaldata ogni illusione sulla solidità e le prospettive di questo governo. L’argine ai "pieni poteri" di Salvini si sta sempre più rivelando l’incubatore di un’ulteriore svolta a destra a livello di massa, con un consolidamento dell’egemonia reazionaria nelle classi subalterne trascinato non solo da una Lega che rimane ben salda nel consenso popolare ma che si salda con la significativa crescita di Fratelli d’Italia.

Nonostante questo, la CGIL si è ben guardata dall'alzarsi dal tavolo. Nonostante il dibattito di settembre sull’eventuale necessità di riprendere la mobilitazione se dal governo non fosse arrivata una svolta reale (con i relativi apparenti solchi nella maggioranza), la segreteria CGIL ha tenuto il freno a mano tirato. Anzi, nel Direttivo del 19 ottobre e poi nell’Assemblea Generale della settimana scorsa (6 dicembre) ha confermato l’impostazione dei mesi precedenti: ha continuato a sottolineare la priorità della salvaguardia di questo quadro politico, per evitare ogni precipitazione elettorale e ogni rischio che la destra conquisti il governo; ha quindi continuato a dar credito all’esecutivo ed alle sue prospettive; ha evitato in ogni modo di dispiegare mobilitazioni di massa, anche dove la pentola bolliva e l’urgenza delle cose era evidente (dalla scuola all’autonomia differenziata, dai contratti pubblici all’Ilva). Solo i pensionati hanno riempito il Circo Massimo, a segnalare la loro particolare delusione. Nessun corteo nazionale è stato programmato, nessuno sciopero generale è stato indetto. Per evitare di lasciar le piazze completamente vuote, a fronte del pugno di mosche concesso dal governo, la segreteria CGIL ha lanciato tre comizi/presidi in una piccola piazza romana (Santi Apostoli), in giornate lavorative ma senza sciopero. La pantomima di una mobilitazione, senza rivendicazioni concrete, per di più in tono minore perché anche solo l’ombra di una contestazione reale potrebbe metter in discussione tutta la fragile impalcatura che sorregge il governo.

Ci si poteva limitare a questo. La conquista della CGIL da parte di Landini, con le tante aspettative che aveva sollevato in ampi strati di delegati e attivisti di una ripresa di iniziativa e di conflitto (il sindacato di strada), poteva spegnersi così, festosamente e un po’ malinconicamente, nella partecipazione alle tavolate di Conte. Subordinando gli interessi del lavoro alle priorità e gli equilibri del quadro politico, tenendo congelate le energie e le risorse dell’unica struttura di massa rimasta nel campo della sinistra sociale, sperando di guadagnar tempo e così, magari grazie alla provvidenza, evitare un ritorno al potere del fronte reazionario. Lasciando ad altri le piazze, a partire dalle provvidenziali sardine (giovani, perbene e socialmente neutre), per segnare un punto di svolta nel senso comune di massa e quindi nelle speranze elettorali della destra reazionaria. E così senza porsi il problema della composizione sociale di quelle piazze, delle sue rivendicazioni, del solco di classe che le segna, del ripiegamento e dello scompaginamento della moltitudine del lavoro.

Il saldatore della patria però difficilmente si lascia inscrivere in un ruolo a margine. È troppo grande la tentazione, nel vuoto e nella fragilità del governo, di conquistarsi un ruolo al centro della tavola, sotto i riflettori della ribalta. Così sta provando a trasformare in strategia una linea congiunturale dettata dalla rigidità del quadro politico, senza alcuna riflessione d’insieme e senza nessun dibattito nell’organizzazione. Lunedì 9 dicembre, infatti, Landini ha rilasciato una lunga intervista a La Repubblica, per rilanciare un ruolo straordinario al sindacato ed alla sua iniziativa. Molte cose colpiscono di questa intervista. In primo luogo, colpisce l’assenza quasi completa di ogni riferimento al rilancio dell’unità sindacale (solo un breve passaggio sulle piazze di questa settimana): dopo averne fatto la cifra della sua conquista della segreteria ed averla rilanciata in un’intervista di pari segno lo scorso primo maggio, nell’autunno la sua dinamica effettiva è sembrata arenarsi (al di là di quella riconquistata unità di azione che segna gli ultimi anni); oggi sembra quasi evaporare in un'intervista in cui il soggetto centrale e ripetuto è la CGIL. In secondo luogo, colpisce la rivendicazione fatua e leggera di esser oggi nelle piazze insieme a sardine e Fridays For Future: suona francamente un po’ ridicola considerando che le ultime iniziative di massa del sindacato risalgono ad un’altra stagione (il corteo romano di febbraio e lo sciopero metalmeccanico di giugno). In terzo, ma non ultimo luogo, colpisce la dichiarazione che non si vede «un intervento pubblico in sostituzione di quello privato»: compito del pubblico sarebbe solo quello di «orientare lo sviluppo» (sollecitando, indirizzando e accompagnando gli spiriti animali del mercato, mi immagino), evitando quindi ogni richiesta di un «intervento massiccio del pubblico in economia» (come esplicitamente indicava la domanda); scompare qui, mi sembra, ogni minima traccia di quell’aspirazione alla trasformazione sociale della produzione e della società attraverso l’intervento pubblico che segnava e significava l’impianto riformista della CGIL (persino il suo recente Piano del lavoro), superando quindi in una sola battuta un’intera tradizione ed un’intera prospettiva che hanno animato questo sindacato. Quello che però colpisce di più è soprattutto il fulcro della sua intervista, sin dal titolo: «Un’alleanza con governo e imprese per impedire che il paese si sbricioli» (una proposta che, non a caso, ha subito trovato l’adesione entusiasta di Conte e di Zingaretti, che ne stanno quasi facendo la pietra su cui provare a rilanciare il governo a gennaio).

La CGIL, infatti, da qualche anno aveva archiviato le politiche concertative. Certo, negli ultimi decenni questa era effettivamente stata la sua strategia di riferimento per affrontare le crisi più significative. Però con la Grande Crisi apertasi nel 2007/'08, con i due picchi recessivi del 2009 e del 2012 e la lunga stagnazione successiva, si era rivelato impossibile replicarla. I governi della crisi, tecnici e politici (Berlusconi, Monti, Letta e poi con ancora maggior nettezza quelli Renzi e Gentiloni, seguito senza particolari innovazioni su questo fronte da Conte) avevano infatti praticato politiche di disintermediazione più o meno accentuate. La gestione capitalistica della crisi, segnata dalla constatazione di Draghi del superamento del modello sociale europeo, spingeva da una parte allo smantellamento dei diritti e dei servizi universali (anche con le relative modifiche costituzionali), dall’altro ad una politica di diretto sostegno pubblico al sistema produttivo (difesa dei margini di profitto e della competitività internazionale). Si esauriva così ogni ruolo ed ogni spazio di ulteriore mediazione sociale per il governo. Il gruppo dirigente della CGIL si era quindi rassegnato a trattare direttamente e solamente con l’impresa (la continua e vana ricerca di un patto di fabbrica) e parallelamente a intervenire direttamente sulle politiche del governo: da una parte con la presentazione del Piano del lavoro e la richiesta di una politica di massicci investimenti pubblici (con un nuovo protagonismo dello Stato nell’economia e nello sviluppo industriale), dall’altra con specifiche iniziative di proposta e intervento a livello politico-parlamentare (dalla "carta dei diritti" ai referendum).

La concertazione, in realtà, non aveva mai funzionato nel nostro paese. Il modello viene dal nord Europa (vedi la seconda delle Sette note sul salario globale: 1992/2017): definiva (nel quadro neocorporativo di trattative trilaterali tra sindacati, governo e padronato) uno scambio per cui l’autolimitazione nelle rivendicazioni stipendiali (allora per contenere l’inflazione) era compensata da welfare e investimenti pubblici. In pratica, i sindacati scambiavano una quota potenziale di salario diretto in cambio di salario sociale (con convenienza, of course, del padronato). Quel modello fu però sviluppato in una fase espansiva: già negli anni '70, con il cambio del ciclo, collassò con lo sviluppo progressivo di politiche neoliberiste anche in quei paesi (Svezia, Danimarca, Norvegia, ecc). La particolarità italiana è che questa strategia di regolazione sociale è stata introdotta non per gestire l’espansione, ma le crisi.

Due sono i punti di riferimento che hanno segnato la storia del sindacato. Il primo è la “svolta dell’Eur” (febbraio 1978), quando CGIL CISL UIL definirono una linea imperniata sui sacrifici (accettazione dei licenziamenti e delle ristrutturazioni) come contropartita di un programma di investimenti per il rilancio dell’industria (una svolta in realtà contrastata dal lungo '69, a partire dai rinnovi contrattuali di quella stagione e dallo sciopero FLM del 1979 che portò alla caduta del governo di unità nazionale, ma che alla fine si impose dopo i 35 giorni della FIAT con il cosiddetto “lodo Scotti” del 1983). Il secondo è “la concertazione” (1992/'93), quando CGIL CISL e UIL accettarono prima lo smantellamento della scala mobile e poi un modello contrattuale a due livelli, imperniato sulla moderazione salariale, in cambio di una promessa di investimenti per la ricerca, la formazione e una nuova politica industriale (un percorso in realtà molto contrastato da lavoratori e lavoratrici, che inaspettatamente ripresero le piazze anche con forme radicali e autorganizzate di lotta, prima nel cosiddetto autunno dei bulloni nel 1992 e poi nell’autunno del 1994 per difendere le pensioni, ma che alla fine si impose nei rinnovi contrattuali successivi e con la riforma Dini, fatta passare con un referendum che sollevò polemiche, in cui nei metalmeccanici prevalse il "no" ed il "sì" si limitò complessivamente al 65%).

Entrambe quelle esperienze segnarono un netto peggioramento dei salari e delle condizioni di lavoro. In una stagione di crisi, infatti, vennero assunti dal sindacato non solo gli obbiettivi di riduzione dell’inflazione, ma anche quelli padronali di riconquista dei margini di profitto (neocorporativismo all’italiana). Così la pratica concertativa non si limitava ad una semplice politica di moderazione degli stipendi (la cosiddetta “politica dei redditi”), ma diventava un vero e proprio contenimento anche del salario sociale (in contraddizione con lo stesso impianto neocorporativo), in cambio della promessa di un “secondo tempo” di investimenti che non si vide mai. Negli anni Ottanta la politica di sacrifici in cambio di investimenti pubblici si trasformò in una di sacrifici e basta, negli anni Novanta la concertazione si trasformò in blocco dei salari, privatizzazioni e precarizzazione diffusa, che permisero il trasferimento al capitale di oltre 10 punti di ricchezza del paese.

Oggi Landini tira fuori dall’armadio questo abito vecchio, lo spazzola un po’ e lo ripresenta come nuovo. Non è però un vestito che si adatta a questa stagione. Il problema infatti non sono solo i limiti ed i risultati storici di questa strategia. Il problema è che l’archiviazione delle politiche concertative da parte della CGIL non è stata determinata solo dall’assenza, o dalla debolezza, degli amici del sindacato nelle compagini governative. È stata soprattutto determinata da una gestione capitalistica della crisi che comprime gli spazi di un ruolo sociale dello Stato e quindi di una politica espansiva di stampo keynesiano. Il governo Conte bis non ha nessuna possibilità di recuperare oggi questi spazi. Perché la dinamica della crisi non è stata superata (anzi, proprio in questa stagione si sta incubando una sua prossima nuova precipitazione) e anzi spinge ancora prepotentemente sulla compressione del salario globale. Perché non ne ha nessuna intenzione: questa compagine di governo è nata proprio sotto l’egida della conferma dei vincoli e delle politiche neoliberiste di gestione della crisi imposte dall’Europa e conseguentemente non ha nessun impulso a superarle.

La nuova concertazione di Landini, allora, tratteggia un pauroso arretramento di classe ed un’ulteriore trasformazione del sindacato confederale. In una stagione in cui lo Stato rinuncia al suo ruolo di mediazione (fine del modello sociale europeo) per svolgere una funzione di supporto diretto al sistema produttivo (piegando tutte le sue infrastrutture al servizio delle imprese e del loro capitale umano), l’assunzione di una strategia concertativa da parte del sindacato lo spinge ad assumere un ruolo di organizzatore della forza lavoro più che di rappresentanza di lavoratori e lavoratrici (cancellando ogni autonomia del lavoro dal capitale). È una spinta in azione da tempo e che si è rafforzata proprio nell’ultimo decennio di crisi, con la moltiplicazione delle funzioni e delle strutture sussidiarie alla produzione (dagli enti bilaterali al welfare aziendale). L’assunzione oggi di una strategia concertativa rischia però di farne la cifra dominante del sindacalismo confederale.

Lo si vede nelle rivendicazioni congiunturali e nelle argomentazioni che oggi sostengono questa proposta di alleanza con governo e imprese. Nella linea di questi mesi, la CGIL si è focalizzata soprattutto su due rivendicazioni: lo sblocco delle grandi opere (come strumento immediato di crescita della domanda aggregata in funzione anticrisi) e la defiscalizzazione dei salari (per aumentare i redditi del lavoro). Sono due proposte congiunturali che si fanno carico della compatibilità e degli interessi delle imprese, subordinando ad essi quelli del lavoro. Le grandi opere (a fronte della crisi radicale delle grandi imprese di costruzione), non la priorità agli investimenti pubblici su scuola, sanità e servizi sociali. La defiscalizzazione per aumentare i redditi (a spese del bilancio dello Stato), non aumenti salariali diretti nei rinnovi contrattuali. Addirittura, pur di non uscire dal solco di questa logica, si sospingono politiche fiscali regressive (che favoriscono i redditi maggiori) come la defiscalizzazione degli aumenti salariali.

Nell’intervista su Repubblica l’alleanza tra governo, imprese e sindacati viene finalizzata ad orientare lo sviluppo industriale. Come? Con un protagonismo statale indiretto (Cassa Depositi e Prestiti), con un ruolo delle fondazioni bancarie e anche … dei fondi integrativi pensionistici (certo, con le opportune garanzie). E si propone anche una diretta compartecipazione del lavoro alla gestione dell’impresa: «cogestione? Non mi interessano formule», serve la «contrattazione preventiva» e la «partecipazione alle scelte» dei lavoratori e delle lavoratrici. Quello che colpisce, in questa intervista, è la leggerezza con cui vengono sdoganati concetti e prospettive sinora estranee alla CGIL, travolgendo ogni confine di classe attraverso il coinvolgimento diretto del salario differito nella gestione del capitale (fondi pensionistici come strumento di intervento nelle grandi crisi aziendali del paese), come del lavoro nella gestione delle imprese (la partecipazione alle scelte aziendali, a partire dall’innovazione tecnologica, non la contrattazione dell’organizzazione del lavoro partendo da interessi contrapposti).

Le interviste di Landini, in questa stagione, spesso alludono a possibili prospettive senza praticarle concretamente. Come sull’unità sindacale. Però, come sull’unità sindacale, queste parole e queste allusioni non sono senza conseguenze. Perché tracciano percorsi ed immaginari che penetrano nell’organizzazione, nella classe e nel senso comune. Tanto più se a tracciarli è una figura iconica come quella di Maurizio Landini, il saldatore della patria, che all’inizio di questa stagione di Grande Crisi ha rappresentato proprio la tenuta del lavoro contro l’assoluta centralità dell’impresa (la resistenza a Marchionne tra il 2010 ed il 2012).

Alzarsi dal tavolo è allora sempre più una necessità. In questa lunga cena delle beffe, infatti, non rischia solo di perdersi questa o quella rivendicazione, questo o quello tra gli interessi del lavoro. La CGIL rischia di smarrire le ragioni di fondo della sua parte sociale, contribuendo in prima persona a quello sfaldamento progressivo che sta attraversando la coscienza di classe e quindi paradossalmente favorendo in questo modo il consolidamento di quell’egemonia reazionaria che sta scavando proprio nelle classi subalterne. Diventa allora prioritario rompere quella cappa che preme sull’iniziativa sindacale, abbandonare quel tavolo ora, subito, prima che sia troppo tardi.

Come una puntina nel posto sbagliato, piccoli ma fastidiosi, il nostro compito è oggi quello di spingere in quella direzione.

Luca Scacchi

giovedì 5 dicembre 2019

COORDINARE LE SINISTRE DI OPPOSIZIONE PER CONTRASTARE GOVERNO CONTE E DESTRE REAZIONARIE

Intervista a Marco Ferrando

dal sito Il Pane e le rose




Sabato 7 dicembre, a Roma, si svolgerà un’iniziativa di notevole rilievo: l’assemblea nazionale unitaria delle sinistre di opposizione. Un passaggio convocato da tre organizzazioni (Partito Comunista dei Lavoratori, Partito Comunista Italiano, Sinistra Anticapitalista) che ha sin qui ricevuto le adesioni di numerose realtà. Ottenendo un primo, significativo risultato proprio nel rendere più evidente l’esistenza di settori politici che non si appiattiscono sulla logica del “meno peggio” e sul sostegno (più o meno critico) all’attuale governo. Nell’intervista che ci ha rilasciato, Marco Ferrando, portavoce nazionale del Partito Comunista dei Lavoratori, spiega che il punto, ora, è valorizzare questo dato per delineare azioni e campagne comuni, così da iniziare a contrastare la presa esercitata dal blocco sociale reazionario sulla nostra classe di riferimento.


Quali sono, a tuo avviso, le differenze e i motivi di continuità tra il primo e il secondo Governo Conte?

Il primo governo Conte (Di Maio-Salvini) si basava su due partiti diversamente reazionari che portavano in dote al grande capitale il controllo su un vasto blocco sociale a direzione medio-borghese (il capitalismo dei distretti per la Lega, le libere professioni per il M5S), purtroppo arruolando nelle proprie file anche un ampio settore dei lavoratori salariati. Il secondo governo Conte, col ritorno al governo del PD, vede di nuovo la presenza diretta del grande capitale al posto di comando. Per questo la sua formazione ha registrato il plauso del grande capitale finanziario, delle cancellerie europee, dell'establishment. L'elemento di continuità è dato non solo ovviamente dal comune rispetto delle compatibilità capitalistiche, al di là della maggiore linearità di relazioni con l'Unione Europea da parte dell'esecutivo attuale, ma dalla conservazione di tutte le peggiori misure reazionarie del Conte uno (Decreti sicurezza in particolare) e più in generale di tutte le misure antioperaie dell'ultimo decennio (Job Acts e Legge Fornero in primis).


Sinora, ci sono stati pochi momenti di opposizione da sinistra al governo attuale, tra i quali un certo rilievo ha avuto lo sciopero generale organizzato da alcuni sindacati di base il 25 ottobre...

Purtroppo il secondo governo Conte si regge non solo sul sostegno di tutta la residua sinistra parlamentare (Liberi e Uguali e Sinistra italiana), ma anche sull'appoggio della burocrazia sindacale, a partire dalla burocrazia CGIL. Possiamo anzi dire che paradossalmente la sua politica padronale si regga oggi più sulla burocrazia sindacale che su Confindustria. Le associazioni confindustriali del Nord, inizialmente fiduciose, sono rimaste deluse per gli insufficienti investimenti infrastrutturali, e sono oggi critiche verso la Legge di stabilità in cantiere, nonostante le sue nuove regalie ai profitti. La segreteria CGIL è invece appagata dalla ritrovata concertazione col governo, e lo circonda di una cintura protettiva su ogni versante, a partire dalle vertenze aziendali (Ilva, Whirlpool), nonostante il fatto che l’esecutivo non dia nulla ai lavoratori salariati, meno ancora delle elemosine concesse dal corso populista precedente ("quota 100"). Il risultato è che con questa politica le direzioni sindacali concorrono a preservare il blocco sociale reazionario: un disastro non solo sindacale ma politico. La ripresa della Lega e l'ascesa di Fratelli d'Italia sono emblematici. L'azione di sciopero del 25 ottobre è stata positiva, ma ha avuto un carattere di stretta avanguardia, per quanto importante. Tra avanguardia di classe e il grosso del proletariato esiste oggi purtroppo una divaricazione ampia. Tanto più in questo quadro, la frammentazione delle iniziative, in seno all'avanguardia, risulta negativa e penalizzante, a vantaggio del padronato e delle burocrazie.


Cosa puoi dire a chi teme che, inasprendo la polemica contro l’odierno esecutivo, si favoriscano le destre reazionarie?

Che lo sviluppo di un'opposizione sociale di classe e di massa al padronato e al governo è una necessità ineludibile e urgente. È l'unica via per ribaltare i rapporti di forza tra le classi nei luoghi di lavoro e nella società. È l'unica via attraverso cui la classe operaia può scrollarsi di dosso i pregiudizi reazionari (per esempio verso i migranti), ricomporre la propria unità, diventare riferimento degli altri movimenti sociali e politici progressivi (antirazzisti, ambientalisti, femministi), favorire lo sviluppo della loro coscienza. L'arretratezza profonda dell’attuale movimento delle “sardine” è anche un portato del riflusso del movimento operaio. Solo una ripresa di massa della lotta operaia può fare egemonia sul senso comune di quella giovanissima generazione che (positivamente) si sta affacciando nelle piazze, introducendo nel suo immaginario il riferimento di classe e costruendo un nuovo blocco egemone. Inoltre è questa l'unica via per disgregare il blocco sociale reazionario e la sua presa tra i lavoratori.


È una nostra impressione o alcuni settori dell’establishment cominciano ad aprire alla possibilità di un governo guidato dalla Lega?

È così. Il capitale non ha valori ma solo interessi. Una parte della grande borghesia del Nord, delusa dal governo Conte, apre un canale di credito alla Lega in vista di una sua possibile leadership in un futuro governo. Sono ambienti che frequentano i governatori leghisti, fanno affari con questi, incoraggiano la "secessione dei ricchi" in funzione di nuove privatizzazioni e saccheggi dei territori. Giorgetti è il loro uomo di riferimento nella Lega, non a caso è colui che più si preoccupa di predisporre un quadro di governabilità istituzionale per un futuro governo a direzione leghista. Le aperture di Salvini a Draghi, gli incontri con Ruini, sono un tentativo di moderare il profilo della Lega agli occhi dell'establishment. Ma la concorrenza di Meloni sulla destra complica l'operazione e costringe Salvini a indossare l'abito intransigente sul MES (Meccanismo europeo di stabilità), un fondo in realtà utile al capitale finanziario di ogni paese, incluse le banche italiane, e a carico di tutti i lavoratori europei. La campagna nazionalista contro il MES "tedesco" serve solo a nascondere dietro abiti patriottici questa sua valenza di classe contro i salariati, italiani e tedeschi. Ma di certo l'establishment non gradisce.


Cosa ti aspetti, in concreto, dall’Assemblea del 7 dicembre?

L'assemblea nazionale unitaria delle sinistre di opposizione del 7 dicembre è un fatto importante. Mira a unificare l'azione di tutte le sinistre che si collocano all'opposizione del governo del capitale, in controtendenza con le dinamiche di dispersione e frammentazione di questi anni. Non si muove in un'ottica elettorale o di nuovi soggetti politici costruiti in laboratorio. Si muove sul terreno dell'intervento di classe e di massa. Non mette in discussione l'autonomia politica dei diversi soggetti che vi concorrono, ma vuole valorizzare una battaglia comune al servizio del proprio campo sociale, in contrapposizione a ogni logica settaria, in funzione dell'unificazione delle lotte. Il numero crescente delle adesioni collettive raccolte, e la partecipazione che si annuncia, confermano la corrispondenza di questa proposta con un sentire diffuso dell'avanguardia. Dalla assemblea uscirà un passo avanti nel coordinamento dell'azione comune e nella definizione delle campagne unitarie dell'opposizione, dal versante dei lavoratori e delle lavoratrici.

Stefano Macera