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mercoledì 26 dicembre 2018

RESTITUIRE AL PROLETARIATO LA SUA COSCIENZA



"Nella misura in cui si sviluppa la borghesia, ossia il capitale, di pari passo si sviluppa il Proletariato, ossia la classe degli operai moderni, i quali vivono finché trovano lavoro e trovano lavoro soltanto finché il loro lavoro accresce il capitale. Questi operai, che sono costretti a vendersi  giorno per giorno, non sono che una merce come tutte le altre..." (ll Manifesto).

Così il Manifesto descrive la classe dei lavoratori salariati, "condizione stessa del capitale".

 Difficile trovare parole più appropriate per descrivere il Proletariato contemporaneo.

Contro tutti i luoghi comuni, il Proletariato è oggi una classe sociale molto più estesa che nel 1848, e più internazionale di allora. La sola Corea del Sud racchiude più salariati che l'intero mondo all'epoca de ll Manifesto.

La verità è che lungi dall'assistere alla scomparsa del Proletariato, assistiamo ad una sua espansione. ll vero elemento di crisi del Proletariato non sta nella sua debolezza sociale, ma nella coscienza smarrita della propria forza, nell'arretra mento verticale dei suoi livelli di consapevolezza politica, di memoria storica, di organizzazione, di rappresentanza. Sul piano politico e sul piano sindacale.  Lo sfondamento dello sciovinismo nazionalista e populista tra vaste masse proletarie all'interno degli stessi paesi imperialisti ne è al tempo stesso riflesso e concausa.

5í tratta allora di rimontare la china. Di restituire al proletariato la sua coscienza. Che è l'esatto opposto che dissolverlo nel "popolo".

"Proletari di tutto il mondo unitevi" è la nota chiusura de ll Manifesto.
Non è un appello retorico o rituale, come spesso s'intende.

È un programma politico.

martedì 25 dicembre 2018

MARX E LA GLOBALIZZAZIONE

di Marco ferrando


“Ha un senso parlare dell'attualità di Marx nell'epoca della globalizzazione? "La globalizzazione non ha forse stravolto i presupposti stessi e suo pensiero?"
Così borbotta la cultura dominante e buona parte del senso comune, anche tra molti proletari. La lettura de Il Manifesto è la migliore risposta a queste domande retoriche. E anche all'ignoranza di tanti presunti intellettuali di "sinistra".

La globalizzazione dell'economia non è un'invenzione contemporanea, ma il portato della storia stessa del capitalismo. Proprio la prima parte del Manifesto del 1848 si concentra non a caso su questo aspetto:

"La grande industria ha realizzato quel mercato mondiale che la scoperta dell'America aveva preparato... Il mercato mondiale ha impresso uno sviluppo incommensurabile al commercio, alla navigazione, alle comunicazioni terrestri"... Spinta dal bisogno di sempre nuovi sbocchi per le proprie merci, la borghesia corre, per invaderlo, tutto il globo terracqueo. Deve annidarsi e stabilirsi dappertutto, dappertutto deve stabilire relazioni. Sfruttando il mercato mondiale, la borghesia ha reso cosmopolita la produzione è il consumo di tutti i paesi. A gran cordoglio di tutti i reazionari, esso ha tolto all'industria la base nazionale. Le Antiche e antichissime Industrie nazionali furono, o sono, di giorno in giorno distrutte. Vengono soppiantate da Industrie nuove, da Industrie che non impiegano più le materie prime indigene, ma anzi adoperano quelli venuti dalle zone più remote e i cui prodotti si consumano non solo nel paese stesso ma in tutte le parti del mondo.
Al precedente isolamento locale e nazionale e all'autosufficienza subentra un traffico universale, una universale interdipendenza delle Nazioni."

Chi potrebbe considerare inattuali questo affresco?

La prima razionalizzazione storica del capitalismo come sistema economico globale fu elaborata proprio da Marx, all'interno della visione materialistica della storia umana. Il movimento operaio come il movimento mondiale fu costruito su questa base: Se il capitalismo era una realtà internazionale, internazionale doveva essere il movimento proletario e il suo programma. 

La rivoluzione bolscevica del Ottobre 17, la sua spinta propulsiva, i suoi effetti prolungati, diretti e indiretti, sulle relazioni mondiali, ruppero il monopolio del capitalismo mondiale e dunque la prima globalizzazione storica del capitalismo configurando le basi materiali di una possibile alternativa di sistema. Ma il crollo dello stalinismo e la restaurazione capitalista in URSS, in Cina, nell'est europeo (per mano della stessa burocrazia stalinista) hanno ricomposto nell'ultimo quarto di secolo proprio il quadro della vecchia globalizzazione. Con forme, equilibri e caratteri interni naturalmente diversi, perché arricchiti dell'intera esperienza storica trascorsa, ma dentro la stessa cornice mondiale di cui parlò il manifesto.

Anche per questo le parole antiche di Marx suonano così fresche nel descrivere il nostro tempo.

venerdì 21 dicembre 2018

IL M5S SALE SUGLI F-35



Per anni la propaganda grillina ha tuonato contro gli sprechi dei jet militari, in particolare contro gli F-35. Per raccattare voti in tutte le direzioni, anche la posa antimilitarista è sembrata uno strumento utile.
Ora contrordine!
Scalata la vetta del governo nazionale, conquistato il Ministero della Difesa (Elisabetta Trenta), conquistato il sottosegretariato alla Difesa (Angelo Tofalo), il M5S si è messo rapidamente l'elmetto. «Da tanti anni abbiamo parlato di questi F-35 in maniera distorta... Non possiamo rinunciare a una grande capacità tecnologica per la nostra aeronautica, che ci mette avanti rispetto a tanti altri paesi» dichiara ora compunto il sottosegretario Tofalo. Via libera dunque alla messe di miliardi per aerei da guerra.

Il M5S di governo ha bisogno di mettere radici nel cuore profondo dello Stato, innanzitutto nell'apparato militare. La nomina di alti gradi dell'Esercito o dei Carabinieri in ruoli di governo (Ambiente) e sottogoverno non è un fatto casuale. Il M5S cerca legittimazione e riconoscimenti presso i poteri forti, per questo li lusinga con particolari attenzioni. La pioggia di miliardi negli F-35 è il prezzo dell'operazione. Pagheranno la sanità, la scuola, il lavoro.

Doveva essere “il governo del cambiamento”, ma a cambiare sono solo i governanti (del capitale). Per il resto tutto come prima, a partire dal cinismo e dall'ipocrisia.


Partito Comunista dei Lavoratori

mercoledì 19 dicembre 2018

"NON SAREMO SCHIAVI": LA RIBELLIONE CONTRO IL REGIME DI ORBAN



Per la prima volta dopo dieci anni, il regime reazionario di Orban incontra un'opposizione di massa. 

Centinaia di migliaia di lavoratori e di giovani in larga parte del paese hanno preso la parola contro il governo. La miccia è stata una legge antioperaia varata dal governo dai caratteri scopertamente provocatori. Una legge che prevede 400 ore di straordinari all'anno, una settimana lavorativa di sei giorni o oltre dieci ore giornaliere per cinque giorni. Il lavoratore può formalmente rifiutare, salvo rischiare il licenziamento. Si tratta dunque di uno strumento di legge offerto ai padroni per incrementare in modo massiccio lo sfruttamento del lavoro. Il padronato ungherese plaude entusiasta alla legge. Ancor più plaudono la Opel, la Mercedes, l'Audi, le grandi aziende straniere in particolare tedesche, ma anche italiane, che in Ungheria fanno affari d'oro. La sovranità nazionale sbandierata da Orban è a tutti gli effetti la sovranità dei padroni contro i lavoratori.

“Non saremo schiavi”. Questo è lo slogan che ha animato le proteste contro la legge. Le manifestazioni indette dai sindacati hanno registrato un'ampia partecipazione operaia, e hanno visto l'ingresso in campo di decine di migliaia di studenti. Gli studenti già erano in fase di mobilitazione a favore della libertà di studio e di ricerca nelle università. La saldatura con le manifestazioni dei lavoratori è apparsa loro naturale. Non si tratta di rituali manifestazioni dell'opposizione liberaldemocratica, si tratta di manifestazioni di massa e di classe, le prime dopo lungo tempo nella storia d'Ungheria. Le manifestazioni si sono susseguite con una parabola ascendente negli ultimi cinque giorni, e con tratti radicali. A Budapest la polizia ha dovuto disperdere più volte la folla di lavoratori e giovani che assedia gli edifici dell'Assemblea Nazionale, il Parlamento ungherese. La parola d'ordine dello sciopero generale per la revoca della “legge della schiavitù” ha fatto il suo ingresso nelle strade e nelle piazze della capitale.

Com'è naturale, tutte le forze politiche dell'opposizione cercano il proprio posto al sole nella protesta: Momentum, Dialogo per l'Ungheria, persino i fascisti di Jobbik. Ma la linea dello scontro è estranea all'impostazione liberale come all'impostazione nazionalista e xenofoba. Al contrario, essa è dettata come non mai dalla contrapposizione tra capitale e lavoro, tra capitalisti e operai. Il ruolo dei sindacati è non a caso centrale. La campagna ossessiva di Orban contro i migranti, che ha intossicato milioni di ungheresi, svela sempre più il suo carattere ipocrita. Il problema dell'Ungheria non sono i migranti, praticamente assenti, ma la massiccia emigrazione di 600.000 ungheresi verso altri paesi in cerca di migliori condizioni di vita. La battaglia contro la legge della schiavitù mette a nudo questa verità, e conquista il senso comune di massa.

Chi profetizzava che destra e sinistra sono categorie novecentesche ritrova questo confine proprio in Ungheria, proprio nel paese indicato a modello dai sovranismi nazionalisti alla Salvini, proprio nel paese presentato dai populismi reazionari di tutta Europa come paradigma di stabilità e di ordine. Naturalmente siamo solo all'inizio di una battaglia di massa, di cui seguiremo dinamica e sviluppi. Ma certo i fatti dimostrano che neppure i regimi più consolidati in apparenza sono al riparo della lotta di classe, che prima o poi si riaffaccia e presenta il conto.
La vicenda ungherese ci parla anche di questo.

Partito Comunista dei Lavoratori

lunedì 17 dicembre 2018

LAVORI SEMPRE PIÙ “SPORCHI”



Le offerte di lavoro sembrano ormai delle barzellette: lavoro gratuito o semi-gratuito, contratti di apprendistato con anni di esperienza, reintroduzione del cottimo, rimborsi spese al posto dei salari, zero diritti e nessuna garanzia. Certo, padroni e padroncini potrebbero vergognarsi un po' delle loro "offerte di lavoro". Si dice che la colpa non è loro, è della crisi. La concorrenza incalza infatti anche tra i capitalisti: si fa già fatica ad ottenere un profitto, figuriamoci se ci sono soldi per i salari. O così o si chiude.

Ecco da dove viene l'esigenza del Reddito di Cittadinanza dei 5 stelle: dalla necessità di spingere i lavoratori sempre più impoveriti ad accettare lavori sempre più di “sporchi”, in modo da preservare i profitti dei capitalisti. Per questo la loro proposta si completa con una serie di agevolazioni alle imprese volenterose che assumono questi lavoratori poveri e un po' sfaticati. Il Movimento 5 stelle non vuole combattere il lavoro precario, da cui discendono disagi sociali e povertà, ma istituzionalizzarlo e generalizzarlo. I poveri non devono stare per strada, devono andare in fabbrica.

In Italia, come in tutti i paesi capitalistici, la ricchezza è polarizzata. Non c'è da stupirsi, capitale chiama capitale, povertà chiama povertà, questo è il capitalismo: da un lato, il capitale produce interesse e profitto che accrescono ulteriormente il capitale già accumulato; dall'altro, il salario sotto il livello di sussistenza consente di accumulare solo miseria e debiti.
In effetti, accanto ai nove milioni di italiani poveri registrati dall'Istat che i grillini vorrebbero sostentare e rispedire al lavoro, ci sono 307.000 famiglie che contano il loro patrimonio finanziario in milioni di dollari e 22 famiglie che lo contano in miliardi. Questo 1,2% della popolazione si spartisce il 21% della ricchezza finanziaria complessiva del paese (a questa ricchezza finanziaria si deve poi aggiungere la ricchezza reale, fatta di abitazioni, oggetti di valore, fabbricati non residenziali, capitale fisso e terreni, concentrata anch'essa nelle stesse mani). E la tendenza è verso la crescita della polarizzazione.

Oltre alla ricchezza direttamente nelle mani delle famiglie, si deve poi considerare il patrimonio intestato a società finanziarie, che sempre in mani private (di un certo peso) finisce.

Insomma, l'Italia è un paese ricco sia dal punto di vista dell'economia reale che da quello del patrimonio finanziario. E questa ricchezza è già quasi tutta in mani private.

I soldi ci sono e sono pure tanti, Il problema sono le disuguaglianze.
Se valesse veramente la media, la questione del RdC non si porrebbe nemmeno: il RdC ce l'avremmo già grazie alla rendita finanziaria e tutti saremmo anche proprietari di casa.
E invece l'Italia è fatta di persone che faticano a pagare l'affitto e non sanno nemmeno cosa sono i titoli e le azioni. La ricchezza finanziaria viaggia di padre in figlio a pacchetti da sei-dieci zeri. Questo è il dato da cui partire.

Contro questa deriva politica, bisogna ripartire da Marx e dalla sua critica.
“I problemi del capitalismo non si risolvono distribuendo redditi ma combattendo il capitale e arginando i suoi effetti”.


I diritti del lavoratore, incluso il diritto a un salario dignitoso, si conquistano con la lotta sul posto di lavoro. E lì che si valorizza il capitale ed è lì che i lavoratori hanno i migliori strumenti per impedire che il capitale li ingoi del tutto. 

venerdì 14 dicembre 2018

L'ENNESIMO REGALO AI PADRONI



Con l'emendamento della Lega passato in commissione bilancio, le donne in dolce attesa potranno lavorare fino al nono mese di gravidanza, così da utilizzare i cinque mesi di congedo interamente dopo il parto.

Questo governo, dunque, concede l'ennesimo regalo ai padroni, nascondendone tutta la porcheria dietro un'apparente avanzamento delle possibilità di scelta della donna.

Sappiamo, invece, che a pagare sono le donne delle classi meno abbienti, le sfruttate, malpagate e precarie. Stime recenti parlano di 350mila donne discriminate per il fatto di essere in stato di gravidanza o per aver osato avanzare richiesta di conciliare lavoro e vita familiare. Sono dati sottostimati dal momento che queste ingiustizie si consumano spesso nel silenzio delle vittime che, per timore di ritorsioni o per non compromettere ulteriormente la propria situazione lavorativa, decidono di tacere.

Inoltre le donne, al rientro dalla maternità, il più delle volte, subiscono  la non corretta riallocazione al rientro in azienda, oppure l'assegnazione a turni incompatibili con la condizione di neomamma, ma perfettamente previsti dal contratto. Emarginata a causa delle insorte esigenze che per il padrone rappresentano nient'altro che un freno alla produttività, ad esempio i permessi per allattamento o la richiesta di orari migliori, la lavoratrice viene così indotta a lasciare il proprio impiego.

Possiamo affermare che lavorare fino al nono mese di gravidanza sia tutt'altro che un avanzamento dei diritti della donna, bensì un altro via libera allo sfruttamento più sfrenato.

Le fasce più deboli della popolazione continuano a subire le contraddizioni del sistema capitalistico: mentre i ricchi diventano sempre più ricchi, alle donne delle classi popolari viene riservato di sommare alle fatiche della gravidanza anche quelle del lavoro, trattate come merci in un momento della vita in cui la tranquillità dovrebbe essere la condizione primaria.


Nel capitalismo, la sola cosa che progredisce a ritmi serrati è l'abbrutimento della società, sostenuto da governi troppo impegnati a servire gli interessi della classe dominante.

lunedì 10 dicembre 2018

DI MAIO E I PADRONI



Il quotidiano di Confindustria Il Sole 24 Ore ha ospitato sabato 8 dicembre una lunga lettera aperta agli industriali del Ministro Luigi Di Maio, con tanto di titolo di apertura di prima pagina: “Di Maio alle imprese: lavoriamo insieme”.

Il titolo tiene fede all'articolo. Un ministro del lavoro che ignora le pietose richieste di incontro delle burocrazie sindacali propone formalmente ai padroni «un metodo di confronto continuo»: l'avvio di un «tavolo permanente per le piccole e medie imprese» per «permettervi di fare gli imprenditori» e «capire insieme qual è la direzione che deve prendere lo sviluppo dell'Italia».

Il cuore mieloso della lettera è naturalmente la Legge di stabilità.
Nello stesso momento in cui il governo svuota ulteriormente le proprie elemosine sociali su reddito e pensioni per rassicurare le banche e la Commissione Europea, Di Maio garantisce pubblicamente i padroni sui vantaggi della finanziaria per i loro profitti: abbassamento delle tasse al 15% per le piccole imprese nel 2019, con la promessa di estenderlo nel 2020; abbattimento dell' IRES dal 24% al 15% (anche per chi “assume” lavoro precario); proroga del superammortamento renziano per gli investimenti; sgravio contributivo sino a 80.000 euro l'anno per le assunzioni a tempo indeterminato; un miliardo ogni anno per la sovvenzione degli investimenti in “alta tecnologia”... Infine l'annuncio per il futuro di 200 miliardi mobilitati attraverso la Cassa Depositi e Prestiti per le infrastrutture, e l'ulteriore liberalizzazione del codice degli appalti (quella che moltiplica gli omicidi bianchi).

Dopo l'offerta di un simile bengodi, Di Maio conclude la lettera ai padroni con parole alate: «L'Italia è come una maestosa aquila che si è spezzata le zampe... Se lavoreremo insieme presto potremmo nuovamente spiccare il volo». A prescindere dall'incerta sintassi, il messaggio è inequivoco: il M5S offre le ali ai capitalisti, come hanno fatto negli ultimi decenni tutti i governi padronali, nessuno escluso. Con una differenza duplice: il M5S si rivolge a tutti i padroni, non solo ai grandi; e porta loro in dote il consenso sociale di milioni di operai, impiegati, disoccupati, cioè di quelli che continueranno a pagare l'80% del carico fiscale per finanziare le regalie alle imprese.

In conclusione: Di Maio vuole contendere alla Lega il blocco piccolo-medio borghese proprietario del Nord, per la stessa ragione per cui Salvini vuole scendere a Sud e invadere le roccaforti elettorali 5 Stelle. I due imbroglioni di governo si disputano le grazie dei padroni, mentre invocano i voti degli sfruttati.
Sino a quando reggerà questa truffa?


Partito Comunista dei Lavoratori

venerdì 7 dicembre 2018

MANIFESTO DEL PARTITO COMUNISTA A “FUMETTI”

Karl Marx e Friedrich Engels 

 Uno spettro si aggira per l'Europa: lo spettro del comunismo. Tutte le potenze della vecchia Europa si sono coalizzate in una sacra caccia alle streghe contro questo spettro.


 

UN NO DI CLASSE E ANTICAPITALISTA ALLA TAV


La questione TAV Torino-Lione è da molti anni - sostanzialmente dal 1992 - al centro di un'opposizione di massa di larga parte della popolazione della Val di Susa, ma anche di un confronto politico pubblico. L'avvento del governo SalviMaio e le contraddizioni interne che lo percorrono (anche) su questo tema ha in qualche modo nuovamente precipitato lo scontro. La manifestazione interclassista del 31 ottobre a Torino a favore della TAV promossa dalle organizzazioni confindustriali e delle libere professioni ha segnato sotto questo profilo un salto di qualità della contrapposizione in atto. Da qui la contromobilitazione prevista per l'8 dicembre a Torino, promossa da tutte le organizzazioni No TAV, e la sua valenza nazionale.

Il Partito Comunista dei Lavoratori è nettamente collocato sul fronte No TAV, a partire da una motivazione di classe e da un progetto alternativo di società.

Non siamo per principio contro le grandi opere, nel nome del “piccolo è bello”. Vi sono grandi opere obiettivamente necessarie anche nel campo dell'alta velocità, magari disertate o passate in secondo piano dai governi borghesi. Né vale il concetto dell'opposizione di principio alle grandi opere per il fatto che coinvolgono gli interessi di potentati economici. Nella società borghese tutto ciò che è costruito e prodotto ha un finalità di profitto, non per questo siamo contrari alla produzione di cappotti o di alimenti. Neppure può essere eretto a criterio assoluto la contrarietà a una grande opera da parte di settori popolari dei territori direttamente interessati, perché a certe condizioni un interesse generale può essere prioritario rispetto a interessi locali. La stessa storia generale delle ferrovie lo dimostra.
Da questo punto di vista, ogni cultura comunitaria che declini la dimensione territoriale del movimento come nuovo modello di soggettività antagonista alternativa alla dimensione generale di classe ci pare non solo sbagliata ma pericolosa.


UN'OPERA INUTILE SE NON PER CHI CI FA PROFITTO

La nostra opposizione netta e radicale alla TAV muove da un'altra angolazione, da un'angolazione anticapitalista.

Il TAV Torino-Lione non risponde a una ragione sociale dei lavoratori. Ha un impatto ambientale devastante, perché scavato in una montagna piena di uranio e di amianto. Non è stata progettata per il trasporto viaggiatori, ma per il trasporto merci. Per di più, su un calcolo di volume di traffico merci molto superiore all'attuale: dagli anni '90 ad oggi il traffico merci tra Italia e Francia lungo l'attuale linea ferroviaria Frejus è crollata di due terzi, quella su linea stradale è calata del 27%, il traffico merci alpino totale (ferro più gomma) è calato del 36%. L'argomento per cui l'Alta Velocità Torino-Lione servirebbe a ridurre in misura significativa il trasporto merci su gomma è del tutto infondato. Da questo punto di vista il Tav si configura nel migliore dei casi come un'opera inutile, salvo naturalmente per gli interessi dei costruttori coinvolti e per la relativa catena degli appalti.


SI INVESTE NELLA TAV MENTRE SI TAGLIANO I TRENI PENDOLARI

Questa opera inutile è spaventosamente costosa. Quasi 8 miliardi complessivamente, di cui un miliardo e mezzo già speso. Una enormità, messa a carico dei contribuenti lavoratori. Una enormità tanto più rilevante a fronte del taglio sistematico degli investimenti pubblici in opere sociali di pubblica utilità, anche in fatto di trasporto pubblico. Le Ferrovie dello Stato sono sempre più una grande holding capitalistica interessata ai processi di concentrazione/fusione con altri settori (prima ANAS, oggi pare Alitalia), e al procacciamento di lucrosi affari in giro per il mondo a caccia di profitti. Per finanziare tali operazioni, foraggiate da risorse pubbliche, le Ferrovie hanno tagliato regolarmente i treni pendolari regionali, e le lunghe tratte per passeggeri meno redditizie, incluse le tratte di collegamento con la Francia. Per non parlare dei tagli alla manutenzione ordinaria dei convogli, con conseguenze drammatiche sulla sicurezza stessa dei passeggeri. In questo quadro i miliardi di investimento nell'alta velocità Torino-Lione sono obiettivamente uno scandalo: risorse direttamente sottratte a un sistema ferroviario pubblico in disfacimento per soddisfare interessi privati.


LA TAV CONTRO LE VERE EMERGENZE TERRITORIALI E AMBIENTALI

Non solo. La destinazione di una cifra così imponente è tanto più inaccettabile a fronte dell'ordine più generale delle emergenze vere che interessano il territorio italiano. Riassetto idrogeologico, messa in sicurezza antisismica di edifici pubblici e privati, bonifiche ambientali a partire dall'amianto e dai rifiuti, riparazione di una rete idrica ridotta a colabrodo, sono tutti terreni urgenti di investimento pubblico che separatamente e nel loro insieme richiedono risorse imponenti, per diverse centinaia di miliardi; risorse strutturalmente negate da un sistema capitalistico che ha priorità opposte: pagare il debito pubblico alle banche (70-80 miliardi di soli interessi ogni anno), continuare a detassare i profitti, assistere con risorse pubbliche le aziende private. Per non parlare delle spese in armamenti o delle regalie a scuole privata, sanità privata, Vaticano. In questo quadro generale, i miliardi di risorse pubbliche a favore della TAV Torino-Lione sono obiettivamente un insulto. È comprensibile che le organizzazioni Confindustriali di Lombardia e Piemonte si mobilitino a favore dell'opera, non lo è che lo facciano i grandi sindacati dei lavoratori, se non per la stessa sudditanza al padronato che segna la loro politica più generale.


NO AL GOVERNO REAZIONARIO SALVIMAIO!

Lo scontro sulla TAV ha assunto oggi una valenza politica che trascende la questione specifica.

La TAV è diventata una croce per il governo reazionario SalviMaio, in particolare per il M5S. Il M5S di governo ha già capovolto le proprie promesse elettorali in relazione alla vicenda TAP, esponendosi ad una contestazione frontale delle popolazioni salentine e di settori significativi di propri attivisti. Una nuova capitolazione di M5S sulla TAV potrebbe innescare un effetto valanga in termini di credibilità pubblica del partito, ben al di là della Val Susa. Al tempo stesso la Lega di Salvini, già in tensione col proprio blocco imprenditoriale del Nord, ha difficoltà a subire un vero blocco della TAV, e preme sul M5S per rimuovere ogni veto. Paralizzato dalle proprie contraddizioni, il governo ha sinora cercato di guadagnare tempo con la favola della verifica costi-benefici, cercando in realtà un punto di mediazione interna (eliminare alcuni lavori considerati superflui come la stazione di Susa e mantenere il tunnel di base). Nei fatti, come sul resto, cerca di camuffare la continuità col passato attraverso soluzioni cosmetiche e accorgimenti-truffa.
Respingere le mediazioni-truffa, battersi per bloccare il TAV, è anche una forma di opposizione politica a un governo reazionario, xenofobo, truffaldino e ai suoi progetti di stabilizzazione.

Con queste motivazioni il PCL parteciperà alla manifestazione dell' 8 dicembre a Torino contro la TAV. Non lo faremo certo in una logica di sostegno al M5S, o anche solo di pressione critica nei suoi confronti. Lo faremo in una logica di opposizione aperta al governo di M5S e Lega, contro ogni forma di illusione nel grillismo. Per questo il nostro striscione dirà: NO alla TAV, NO al decreto sicurezza, NO al governo SalviMaio.

Partito Comunista dei Lavoratori

giovedì 6 dicembre 2018

Intervento di Franco Grisolia - Congresso CGIL Milano

"Né Colla, né Landini, ma lotta di classe!"



SOCIALISMO E CULTURA



“Bisogna disabituarsi e smettere di concepire la cultura come sapere enciclopedico, in cui l’uomo non è visto se non sotto forma di recipiente da empire e stivare di dati empirici; di fatti bruti e sconnessi che egli poi dovrà casellare nel suo cervello come nelle colonne di un dizionario per poter poi in ogni occasione rispondere ai vari stimoli del mondo esterno. Questa forma di cultura è veramente dannosa specialmente per il proletariato. Serve solo a creare degli spostati, della gente che crede di essere superiore al resto dell’umanità perché ha ammassato nella memoria una certa quantità di dati e di date, che snocciola ad ogni occasione per farne quasi una barriera fra sé e gli altri. Serve a creare quel certo intellettualismo bolso e incolore […] che ha partorito tutta una caterva di presuntuosi e di vaneggiatori, più deleteri per la vita sociale di quanto siano i microbi della tubercolosi o della sifilide per la bellezza e la sanità fisica dei corpi. Lo studentucolo che sa un po’ di latino e di storia, l’avvocatuzzo che è riuscito a strappare uno straccetto di laurea alla svogliatezza e al lasciar passare dei professori crederanno di essere diversi e superiori anche al miglior operaio specializzato che adempie nella vita ad un compito ben preciso e indispensabile e che nella sua attività vale cento volte di più di quanto gli altri valgano nella loro. Ma questa non è cultura, è pedanteria, non è intelligenza, ma intelletto, e contro di essa ben a ragione si reagisce. […]La cultura è una cosa ben diversa. È organizzazione, disciplina del proprio io interiore, è presa di possesso della propria personalità, è conquista di coscienza superiore, per la quale si riesce a comprendere il proprio valore storico, la propria funzione nella vita, i propri diritti e i propri doveri. Ma tutto ciò non può avvenire per evoluzione spontanea, per azioni e reazioni indipendenti dalla propria volontà, come avviene nella natura vegetale e animale in cui ogni singolo si seleziona e specifica i propri organi inconsciamente, per legge fatale delle cose. L’uomo è soprattutto spirito, cioè creazione storica, e non natura. Non si spiegherebbe altrimenti il perché, essendo sempre esistiti sfruttati e sfruttatori, creatori di ricchezza e consumatori egoistici di essa, non si sia ancora realizzato il socialismo. Gli è che solo a grado a grado, a strato a strato, l’umanità ha acquistato coscienza del proprio valore e si è conquistato il diritto di vivere indipendentemente dagli schemi e dai diritti di minoranze storicamente affermatesi prima. E questa coscienza si è formata non sotto il pungolo brutale delle necessità fisiologiche, ma per la riflessione intelligente, prima di alcuni e poi di tutta una classe, sulle ragioni di certi fatti e sui mezzi migliori per convertirli da occasione di vassallaggio in segnacolo di ribellione e di ricostruzione sociale. Ciò vuol dire che ogni rivoluzione è stata preceduta da un intenso lavorio di critica, di penetrazione culturale, di permeazione di idee attraverso aggregati di uomini prima refrattari e solo pensosi di risolvere giorno per giorno, ora per ora, il proprio problema economico e politico per se stessi, senza legami di solidarietà con gli altri che si trovavano nelle stesse condizioni. […]
È attraverso la critica della civiltà capitalistica che si è formata o si sta formando la coscienza unitaria del proletariato, e critica vuol dire cultura, e non già evoluzione spontanea e naturalistica. Critica vuol dire appunto quella coscienza dell’io che Novalis dava come fine alla cultura. Io che si oppone agli altri, che si differenzia e, essendosi creata una meta, giudica i fatti e gli avvenimenti oltre che in sé e per sé anche come valori di propulsione o di repulsione. Conoscere se stessi vuol dire essere se stessi, vuol dire essere padroni di se stessi, distinguersi, uscire fuori dal caos, essere un elemento di ordine, ma del proprio ordine e della propria disciplina ad un ideale. E non si può ottenere ciò se non si conoscono anche gli altri, la loro storia, il susseguirsi degli sforzi che essi hanno fatto per essere ciò che sono, per creare la civiltà che hanno creato e alla quale noi vogliamo sostituire la nostra. […]”


(Antonio Gramsci, Socialismo e Cultura, da Il Grido del Popolo del 29 gennaio 1916)

domenica 2 dicembre 2018

MILANO 1 DICEMBRE - PRIMO PASSO DI UNA LUNGA BATTAGLIA




Che non sarebbe stata una giornata da lasciar passare sotto silenzio lo si capiva già dai primi minuti successivi all'ora di concentramento. Il corteo appariva già partecipato ed energico tanto che la testa era obbligata a spostarsi progressivamente su viale Romagna. Che i numeri fossero imponenti era evidente già da Città Studi, quando il viale della circonvallazione era completamente pieno di manifestanti, ma solo giunti alla discesa del cavalcavia dell’Ortica si è potuto concretamente abbracciare con lo sguardo la fiumana scesa in strada per dire NO alla riapertura dei CPR e al Decreto Sicurezza fortemente voluto dal Ministro dell’Interno Matteo Salvini che non ha perso l’occasione di svilire la mobilitazione definendola come ritrovo dei “soliti kompagni”. Le adesioni alla mobilitazione, quasi 200, erano già comunque indice di un’opposizione diffusa nella metropoli e non solo alla deriva salviniana. Grande assente il PD pronto a sventolare, a seconda delle convenienze, la bandiera dell’antifascismo, ma incapace di mettere in discussione le sue scelte politiche disastrose degli ultimi anni compresa quella di Minniti di aprire i CPR. Una giornata come quella di ieri, nonostante il freddo glaciale, riscalda il cuore e ci fa tornare a casa con la convinzione che questo non è che il primo passo di una lunga battaglia che combatteremo in molti senza esclusione di colpi.