Per la prima
volta dopo dieci anni, il regime reazionario di Orban incontra un'opposizione
di massa.
Centinaia di migliaia di lavoratori e di giovani in larga parte del paese hanno preso la parola contro il governo. La miccia è stata una legge antioperaia varata dal governo dai caratteri scopertamente provocatori. Una legge che prevede 400 ore di straordinari all'anno, una settimana lavorativa di sei giorni o oltre dieci ore giornaliere per cinque giorni. Il lavoratore può formalmente rifiutare, salvo rischiare il licenziamento. Si tratta dunque di uno strumento di legge offerto ai padroni per incrementare in modo massiccio lo sfruttamento del lavoro. Il padronato ungherese plaude entusiasta alla legge. Ancor più plaudono la Opel, la Mercedes, l'Audi, le grandi aziende straniere in particolare tedesche, ma anche italiane, che in Ungheria fanno affari d'oro. La sovranità nazionale sbandierata da Orban è a tutti gli effetti la sovranità dei padroni contro i lavoratori.
“Non saremo
schiavi”. Questo è lo slogan che ha animato le proteste contro la legge. Le
manifestazioni indette dai sindacati hanno registrato un'ampia partecipazione
operaia, e hanno visto l'ingresso in campo di decine di migliaia di studenti.
Gli studenti già erano in fase di mobilitazione a favore della libertà di
studio e di ricerca nelle università. La saldatura con le manifestazioni dei
lavoratori è apparsa loro naturale. Non si tratta di rituali manifestazioni
dell'opposizione liberaldemocratica, si tratta di manifestazioni di massa e di
classe, le prime dopo lungo tempo nella storia d'Ungheria. Le manifestazioni si
sono susseguite con una parabola ascendente negli ultimi cinque giorni, e con
tratti radicali. A Budapest la polizia ha dovuto disperdere più volte la folla
di lavoratori e giovani che assedia gli edifici dell'Assemblea Nazionale, il
Parlamento ungherese. La parola d'ordine dello sciopero generale per la revoca
della “legge della schiavitù” ha fatto il suo ingresso nelle strade e nelle
piazze della capitale.
Com'è
naturale, tutte le forze politiche dell'opposizione cercano il proprio posto al
sole nella protesta: Momentum, Dialogo per l'Ungheria, persino i fascisti di
Jobbik. Ma la linea dello scontro è estranea all'impostazione liberale come
all'impostazione nazionalista e xenofoba. Al contrario, essa è dettata come non
mai dalla contrapposizione tra capitale e lavoro, tra capitalisti e operai. Il
ruolo dei sindacati è non a caso centrale. La campagna ossessiva di Orban
contro i migranti, che ha intossicato milioni di ungheresi, svela sempre più il
suo carattere ipocrita. Il problema dell'Ungheria non sono i migranti,
praticamente assenti, ma la massiccia emigrazione di 600.000 ungheresi verso
altri paesi in cerca di migliori condizioni di vita. La battaglia contro la
legge della schiavitù mette a nudo questa verità, e conquista il senso comune
di massa.
Chi
profetizzava che destra e sinistra sono categorie novecentesche ritrova questo
confine proprio in Ungheria, proprio nel paese indicato a modello dai
sovranismi nazionalisti alla Salvini, proprio nel paese presentato dai
populismi reazionari di tutta Europa come paradigma di stabilità e di ordine.
Naturalmente siamo solo all'inizio di una battaglia di massa, di cui seguiremo
dinamica e sviluppi. Ma certo i fatti dimostrano che neppure i regimi più
consolidati in apparenza sono al riparo della lotta di classe, che prima o poi
si riaffaccia e presenta il conto.
La vicenda
ungherese ci parla anche di questo.
Partito
Comunista dei Lavoratori
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