Nuovo
capitolo della vicenda Alitalia. Nuova operazione di ristrutturazione aziendale
sulla pelle di chi lavora. Nuova regalia di soldi pubblici ai capitalisti.
Nel 2008, a seguito di un durissimo scontro sindacale, governo Berlusconi e burocrazie sindacali imposero la privatizzazione della compagnia di bandiera. Una parte della società (la bad company) fu accollata coi suoi debiti alla gestione commissariale, cioè all'erario pubblico. L'altra parte, liberata da una grande massa di lavoratori e lavoratrici e dei loro diritti sindacali (e contrattuali), fu venduta a una cordata di banchieri e capitalisti tricolori, capitanata da Roberto Colaninno (la Cai). Questa soluzione fu presentata da governo e burocrazie confederali come premessa del futuro rilancio. Una parte del sindacalismo di base (SdL, futura USB), pur critica, rinunciò alla lotta. Solo la CUB, e al suo fianco il nostro partito, ingaggiò una opposizione reale all'accordo, attorno alla parola d'ordine della nazionalizzazione dell'azienda sotto il controllo dei lavoratori. Ma il boicottaggio degli altri sindacati (e l'indifferenza delle sinistre) chiuse ogni varco.
I fatti hanno dimostrato che quel pesantissimo accordo antioperaio non solo comportò un drastico peggioramento delle condizioni di vita e di lavoro di chi rimaneva, ma era del tutto incapace di “rilanciare” l'azienda. Tra il 2012 e il 2014 la crisi della cordata capitalistica italiana, nonostante il sostegno di enormi risorse pubbliche, precipitò ininterrottamente. La compagnia fu salvata dal capitale finanziario degli Emirati Arabi Uniti, attraverso l'ingresso della loro compagnia di bandiera (Etihad) col 49% delle azioni. Anche in questo caso nuove restrizioni e sacrifici per i lavoratori quale merce di scambio per l'ingresso del capitale arabo. Anche in questo caso mirabolanti annunci circa il salvataggio “definitivo” e il rilancio della compagnia. Il governo Letta e il PD furono i massimi alfieri dell'operazione di propaganda.
Ma i fatti ancora una volta hanno dimostrato l'ipocrisia degli attori. La nuova gestione Montezemolo si rivelò fallimentare. L'obiettivo di tornare in utile nel 2017 si tradusse nel passaggio da 199 milioni di perdite annue a ben 400 milioni di perdite. Da qui il nuovo intervento del governo Renzi e poi di Gentiloni per l'ennesimo salvataggio della compagnia, sotto la dettatura di creditori ed azionisti. Le grandi banche italiane di sistema - Banca Intesa e Unicredit - hanno condizionato il proprio "soccorso" al varo dell'ennesimo piano di lacrime e sangue contro i lavoratori: un nuovo pesante abbattimento di posti di lavoro (tra esuberi e mancato rinnovo dei contratti a termine) in una azienda che dal 2004 ad oggi è già passata da 22.000 dipendenti a 13.000; un nuovo aumento dei carichi di lavoro per il personale navigante; una ulteriore riduzione degli stipendi, incluse le indennità di missione; una riduzione delle ferie annuali; un salario dimezzato per i nuovi assunti. Il governo copre il tutto con una manciata di mini-ammortizzatori.
Come ogni volta, tutti i protagonisti, vecchi e nuovi, annunciano la buona novella (pasquale) della resurrezione di Alitalia. Come ogni volta mentono. Non a caso la stessa stampa borghese parla già di una soluzione ponte di due anni in attesa di una possibile vendita della compagnia a Lufthansa. La quale, inutile dirlo, porrà a sua volta le proprie condizioni d'acquisto in fatto di tagli al lavoro e ai salari. Sino a quando? Da qui il nostro no all'accordo siglato, nelle assemblee e nel referendum annunciato.
Ma la vicenda richiama considerazioni più generali, che vanno alla radice del problema. In realtà le vecchie compagnie tradizionali di bandiera sono vittima in tutto il mondo della liberalizzazione del mercato della mobilità aerea. La moltiplicazione delle compagnie low cost, che praticano tariffe stracciate anche grazie a privilegi fiscali e alla privazione dei diritti sindacali, ha trascinato una competizione selvaggia per l'abbattimento del costo del lavoro nelle compagnie aeree. Ciò che spesso si traduce (come nel sistema ferroviario) in riduzione di manutenzione e sicurezza anche per i viaggiatori. Ma l'aspetto meno noto è che questa libertà del mercato, celebrata come somma virtù dalla cultura dominante, è foraggiata da risorse pubbliche infilate nel portafoglio di tutti gli azionisti privati. Così, se lo Stato italiano, secondo calcoli di Mediobanca, avrebbe pagato quasi otto miliardi i ripetuti salvataggi delle compagnie private Alitalia negli ultimi dieci anni, le compagnie low cost come Ryanair ricevono complessivamente centinaia di milioni di risorse pubbliche da parte di Regioni e Comuni, attraverso le quali possono concorrere con Alitalia e piegarla. È il caso di dire che lo Stato borghese è davvero il rappresentante dell'interesse generale dei capitalisti, al di là dei confini di bandiera e di compagnia, nella loro guerra di tutti contro tutti per la massimizzazione dei profitti. Una guerra scaricata in primo luogo sui lavoratori.
Una volta di più si conferma che la nazionalizzazione senza indennizzo e sotto il controllo dei lavoratori dell'azienda Alitalia e di tutto il trasporto aereo è l'unica via per salvare le condizioni dei lavoratori (e degli utenti) dagli effetti del mercato capitalistico, riorganizzando alla radice il trasporto aereo come trasporto pubblico al servizio esclusivo della collettività, secondo un piano razionale.
Solo un governo dei lavoratori e delle lavoratrici potrà realizzare questa misura di svolta.
Nel 2008, a seguito di un durissimo scontro sindacale, governo Berlusconi e burocrazie sindacali imposero la privatizzazione della compagnia di bandiera. Una parte della società (la bad company) fu accollata coi suoi debiti alla gestione commissariale, cioè all'erario pubblico. L'altra parte, liberata da una grande massa di lavoratori e lavoratrici e dei loro diritti sindacali (e contrattuali), fu venduta a una cordata di banchieri e capitalisti tricolori, capitanata da Roberto Colaninno (la Cai). Questa soluzione fu presentata da governo e burocrazie confederali come premessa del futuro rilancio. Una parte del sindacalismo di base (SdL, futura USB), pur critica, rinunciò alla lotta. Solo la CUB, e al suo fianco il nostro partito, ingaggiò una opposizione reale all'accordo, attorno alla parola d'ordine della nazionalizzazione dell'azienda sotto il controllo dei lavoratori. Ma il boicottaggio degli altri sindacati (e l'indifferenza delle sinistre) chiuse ogni varco.
I fatti hanno dimostrato che quel pesantissimo accordo antioperaio non solo comportò un drastico peggioramento delle condizioni di vita e di lavoro di chi rimaneva, ma era del tutto incapace di “rilanciare” l'azienda. Tra il 2012 e il 2014 la crisi della cordata capitalistica italiana, nonostante il sostegno di enormi risorse pubbliche, precipitò ininterrottamente. La compagnia fu salvata dal capitale finanziario degli Emirati Arabi Uniti, attraverso l'ingresso della loro compagnia di bandiera (Etihad) col 49% delle azioni. Anche in questo caso nuove restrizioni e sacrifici per i lavoratori quale merce di scambio per l'ingresso del capitale arabo. Anche in questo caso mirabolanti annunci circa il salvataggio “definitivo” e il rilancio della compagnia. Il governo Letta e il PD furono i massimi alfieri dell'operazione di propaganda.
Ma i fatti ancora una volta hanno dimostrato l'ipocrisia degli attori. La nuova gestione Montezemolo si rivelò fallimentare. L'obiettivo di tornare in utile nel 2017 si tradusse nel passaggio da 199 milioni di perdite annue a ben 400 milioni di perdite. Da qui il nuovo intervento del governo Renzi e poi di Gentiloni per l'ennesimo salvataggio della compagnia, sotto la dettatura di creditori ed azionisti. Le grandi banche italiane di sistema - Banca Intesa e Unicredit - hanno condizionato il proprio "soccorso" al varo dell'ennesimo piano di lacrime e sangue contro i lavoratori: un nuovo pesante abbattimento di posti di lavoro (tra esuberi e mancato rinnovo dei contratti a termine) in una azienda che dal 2004 ad oggi è già passata da 22.000 dipendenti a 13.000; un nuovo aumento dei carichi di lavoro per il personale navigante; una ulteriore riduzione degli stipendi, incluse le indennità di missione; una riduzione delle ferie annuali; un salario dimezzato per i nuovi assunti. Il governo copre il tutto con una manciata di mini-ammortizzatori.
Come ogni volta, tutti i protagonisti, vecchi e nuovi, annunciano la buona novella (pasquale) della resurrezione di Alitalia. Come ogni volta mentono. Non a caso la stessa stampa borghese parla già di una soluzione ponte di due anni in attesa di una possibile vendita della compagnia a Lufthansa. La quale, inutile dirlo, porrà a sua volta le proprie condizioni d'acquisto in fatto di tagli al lavoro e ai salari. Sino a quando? Da qui il nostro no all'accordo siglato, nelle assemblee e nel referendum annunciato.
Ma la vicenda richiama considerazioni più generali, che vanno alla radice del problema. In realtà le vecchie compagnie tradizionali di bandiera sono vittima in tutto il mondo della liberalizzazione del mercato della mobilità aerea. La moltiplicazione delle compagnie low cost, che praticano tariffe stracciate anche grazie a privilegi fiscali e alla privazione dei diritti sindacali, ha trascinato una competizione selvaggia per l'abbattimento del costo del lavoro nelle compagnie aeree. Ciò che spesso si traduce (come nel sistema ferroviario) in riduzione di manutenzione e sicurezza anche per i viaggiatori. Ma l'aspetto meno noto è che questa libertà del mercato, celebrata come somma virtù dalla cultura dominante, è foraggiata da risorse pubbliche infilate nel portafoglio di tutti gli azionisti privati. Così, se lo Stato italiano, secondo calcoli di Mediobanca, avrebbe pagato quasi otto miliardi i ripetuti salvataggi delle compagnie private Alitalia negli ultimi dieci anni, le compagnie low cost come Ryanair ricevono complessivamente centinaia di milioni di risorse pubbliche da parte di Regioni e Comuni, attraverso le quali possono concorrere con Alitalia e piegarla. È il caso di dire che lo Stato borghese è davvero il rappresentante dell'interesse generale dei capitalisti, al di là dei confini di bandiera e di compagnia, nella loro guerra di tutti contro tutti per la massimizzazione dei profitti. Una guerra scaricata in primo luogo sui lavoratori.
Una volta di più si conferma che la nazionalizzazione senza indennizzo e sotto il controllo dei lavoratori dell'azienda Alitalia e di tutto il trasporto aereo è l'unica via per salvare le condizioni dei lavoratori (e degli utenti) dagli effetti del mercato capitalistico, riorganizzando alla radice il trasporto aereo come trasporto pubblico al servizio esclusivo della collettività, secondo un piano razionale.
Solo un governo dei lavoratori e delle lavoratrici potrà realizzare questa misura di svolta.
Partito
Comunista dei Lavoratori
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