Bonomi
abbaia, Landini sussurra
Di fronte
alla più grande crisi sociale del dopoguerra e a un attacco frontale dei
padroni, il capo del più grande sindacato italiano non propone nessuna
mobilitazione, nessuna piattaforma di rivendicazioni, persino nessuna
contestazione verbale
Il governo
annuncia con squillo di trombe l'avvio del Patto per la rinascita. Tutti gli
“attori sociali e istituzionali”, governo e opposizioni, padroni e sindacati,
governatori e sindaci, saranno chiamati al tavolo per concertare la gestione di
una crisi drammatica.
Il nuovo
Presidente di Confindustria si candida a ricomporre attorno a sé la grande
borghesia italiana su un programma di sfondamento: mano libera sulla forza
lavoro, cancellazione del contratto nazionale, liberalizzazione totale degli
appalti, cancellazione totale dell'IRAP. C'è in questo posizionamento la
volontà di massimizzare la propria pressione sul governo per incassare tutto
ciò che si può. Ma c'è anche e soprattutto il peso di una catastrofe economica
reale: calo dei profitti del 60% sul 2020 tra le società quotate, impossibilità
di rilanciare sulle esportazioni per via della recessione mondiale, collasso
dei consumi interni con 7 milioni di lavoratori in cassa integrazione. C'è una
sola via per tamponare la crisi: comprimere i cosiddetti costi del lavoro,
incrementare il tasso di sfruttamento, ottenere nuovi sgravi fiscali. La
“rinascita”, per i padroni, è sempre quella dei propri profitti.
Il governo
asseconda il programma padronale. La sua maggioranza parlamentare è gracile,
tanto più a fronte dell'enormità della crisi. Le contraddizioni attraversano i
partiti che lo compongono, tra un M5S in cerca d'autore e un PD privo di
baricentro. L'unica stella polare comune è la salvezza del capitalismo
italiano.
La crisi
italiana è talmente profonda che la Germania e la Francia acconsentono di
destinare all'Italia una straordinaria pioggia di miliardi per evitarne il
tracollo, e con esso il disfacimento dell'UE. Negoziare l'importo e la
ripartizione delle risorse annunciate è ormai la principale ragione di
sopravvivenza del governo e della sua capacità contrattuale anche sul fronte
interno.
Non è
semplice, perché i tempi pressano. I fondi per la cassa integrazione stanno
finendo. Gli aiuti del recovery fund attendono il 2021, mentre il MES è un
calice troppo amaro per i pentastellati. In mezzo cade la fine del blocco dei
licenziamenti, a partire da agosto. Il governo dovrà chiedere al Parlamento un
nuovo scostamento di bilancio (cioè nuovo deficit) negoziandolo con le
opposizioni e con la benedizione di Mattarella. Ma per gestire l'operazione ha
bisogno di appoggiarsi alle parti sociali disinnescando ogni ostilità e
atteggiandosi a indispensabile mediatore.
Il padronato
denuncia formalmente l'irresolutezza del governo nel mentre ne ottiene i
servigi e ne usa la fragilità.
Ha ottenuto
la copertura dei crediti bancari con gigantesche garanzie pubbliche e la
cancellazione di 4 miliardi di IRAP. Ora chiede di completare la detassazione
delle imprese, di capitalizzare il grosso delle risorse europee, di disporre la
libertà dei subappalti nel nome del “modello Genova”. Ma al tempo stesso Bonomi
si dichiara insoddisfatto, per tenere il governo sotto schiaffo e segnare il
campo negoziale. E intanto minaccia un milione e duecentomila licenziamenti per
strappare una copertura di cassa integrazione per due anni, con salari
taglieggiati a carico della Stato e a beneficio delle imprese. Il tavolo del
patto sociale ha già il suo terreno di gioco, quale che sia il punto di
mediazione.
E il
sindacato? Già, il sindacato. Intervistato dal Manifesto, che gli chiede
semplicemente un giudizio sul piano Bonomi e sulla cancellazione dell'IRAP,
Maurizio Landini riesce a non dir nulla, ma proprio nulla, se non il fatto
che... così si rischia il conflitto. E che invece lavoro e imprese hanno oggi
davanti a sé «l'obiettivo comune da assumere: quello di migliorare
contemporaneamente le condizioni di vita e di lavoro dei dipendenti e la
capacita competitività e di innovazione delle imprese».
Un
ecumenismo commovente. Di fronte alla più grande crisi sociale del dopoguerra e
a un attacco frontale dei padroni al lavoro, nessuna mobilitazione, nessuna
piattaforma di riferimento, persino nessuna chiara contestazione verbale,
neppure sul Manifesto: solo la paura del conflitto e la prenotazione del tavolo
istituzionale.
Chi si può
seriamente stupire se Confindustria procede a testa bassa, alzando ogni volta
la posta? Chi pecora si fa il lupo se la mangia, dice un vecchio adagio
popolare. In questo caso, fuor di metafora, Bonomi non vuole mangiare
(distruggere) la burocrazia sindacale, perché sa bene che può funzionare come
ammortizzatore del conflitto. Ciò che vuole distruggere è quel che resta dei
diritti del lavoro. Tanto meglio con la complicità della burocrazia.
“Quando è ora
in piazza si va” conclude Landini. Ma se non ora, quando?
Il capo
della CGIL, ex avversario di Marchionne, ha appena benedetto i 6,5 miliardi di
copertura pubblica ai crediti bancari per FCA, senza neppure uno straccio di
garanzia sui post di lavoro, né ovviamente sulla sede fiscale. Non può essere
questa una direzione fiduciaria per il movimento operaio di fronte alla prova
di uno scontro sociale drammatico. Con questi dirigenti si va a sbattere,
esattamente come dieci anni fa.
Partito
Comunista dei Lavoratori
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