Il fatto
nuovo c'è, ed è rilevante. La più grande crisi capitalistica del dopoguerra ha
spinto gli imperialismi europei a una parziale gestione comune del debito
pubblico, cioè all'emissione di titoli continentali coperti dal bilancio
comunitario. I famosi Eurobond, a lungo evocati da ambienti borghesi liberali e
riformisti, hanno visto di fatto la luce.
Il valore
complessivo dei titoli emessi, secondo i diversi programmi previsti (Sure ,
Bei, Recovery Fund), corrisponde a una cifra imponente. Superiore in termini di
incidenza percentuale sul Pil europeo del piano Marshall del 1948/1951 (ben il
5% del Pil continentale). La spartizione della somma ricavata dalla loro
collocazione sul mercato è direttamente proporzionale all'impatto della crisi
sulle diverse economie nazionali. Italia, Spagna, Francia, sono dunque le prime
beneficiarie. La suddivisione interna tra prestiti e sussidi (a fondo perduto)
varia anch'essa in rapporto alla portata della recessione annunciata. Per
l'Italia è pertanto prevista una destinazione di risorse obiettivamente
consistente.
Il
significato politico dell'accordo è chiaro: il capitalismo tedesco ha accettato
quella soluzione di parziale mutualizzazione del debito (futuro) che aveva
rigorosamente respinto come impossibile per decenni. Lo ha fatto per timore che
il crollo di Italia e Spagna potesse trascinare in rovina l'economia tedesca,
profondamente integrata con quella italiana a partire dal settore centrale
dell'automotive, e precipitare così la disgregazione del mercato europeo. Inoltre
ha sicuramente giocato un ruolo centrale l'asse della Germania con la Francia,
di cui Berlino non può privarsi.
Un salto
verso l'Europa capitalista “federale”? No. La gestione comune del nuovo
indebitamento pubblico è stata concordata dal Consiglio Europeo, dunque dai
capi di governo nazionali. Il Consiglio Europeo avrà un ruolo importante nel
controllo della destinazione delle risorse pattuite.
Il complesso
meccanismo previsto, per quanto non preveda il diritto di veto, garantisce gli
interessi dei vari Stati capitalisti, dentro un faticoso equilibrio, fonte di
possibili contenziosi. I parlamenti nazionali, incluso quello olandese,
dovranno ratificare l'accordo intervenuto, come fosse una modifica del
Trattato. Basterebbe il no di un Parlamento per far saltare l'accordo. Il
blocco dei capitalismi nordici (Svezia, Olanda, Danimarca), insieme
all'Austria, eserciterà una funzione di freno, e ha consentito l'accordo solo
grazie all'ottenimento del taglio dei propri contributi al bilancio
continentale. Il cosiddetto blocco di Visegrad, a partire da Ungheria e
Polonia, mercanteggia l'avallo dell'accordo con la preservazione dei propri
regimi reazionari, in un quadro di negoziato permanente.
Occorre
dunque prudenza nel misurare portata e prospettive del Recovery Fund. Una
svolta è avvenuta. Al tempo stesso non è ancora consolidata, né è
irreversibile.
Il punto
vero, tuttavia, è un altro: una svolta nelle relazioni capitalistiche non è
affatto una svolta per il portafoglio dei lavoratori. Tutt'altro.
UNA
GIGANTESCA OPERAZIONE A DEBITO
L'intera
operazione del Recovery Fund, come quella di Sure e Bei, è a debito. L'Unione
degli Stati capitalisti vende titoli continentali sul mercato finanziario. Chi
li comprerà? I cosiddetti investitori istituzionali: banche, fondi, compagnie
di assicurazione. Dunque l'Unione degli Stati capitalisti accumula un proprio
debito nei confronti del capitale finanziario, con l'impegno a ripagarlo coi
dovuti interessi. Con quali risorse lo ripagherà? Con quelle del bilancio comunitario,
di cui dispone la Commissione Europea. Ma il bilancio comunitario è
estremamente ridotto (l'1% del Pil continentale) ed oltretutto ha visto dopo la
Brexit e prima della pandemia un ulteriore restringimento. Dunque per
soddisfare i creditori, cioè gli acquirenti dei titoli, occorre espandere le
risorse di bilancio disponibili. Si può farlo in due modi: applicando nuove
imposte continentali e/o aumentando i versamenti statali al bilancio europeo.
L'Italia si è impegnata ad esempio ad accrescere di 50 miliardi il proprio
versamento, così altri paesi. Come finanziano gli Stati nazionali, a loro
volta, questi accrescimenti di spesa? O attraverso la fiscalità generale, che
grava ovunque sui lavoratori salariati, o/e tagliando le spese sociali a danno prevalentemente
della popolazione povera.
Dunque, il
primo dato certo dell'indebitamento europeo è che verrà scaricato sul
portafoglio dei lavoratori. E non è che il primo aspetto.
A CHI
ANDRANNO I SOLDI?
Una volta
che la UE ha venduto i nuovi titoli continentali sul mercato finanziario,
coprendoli con risorse prese da salari e spese sociali, distribuisce il
ricavato ai diversi paesi secondo il criterio prima indicato, parte in
prestiti, parte a fondo perduto. Ma a chi andranno concretamente questi soldi?
In buona misura a imprese e banche, colpite dalla recessione. Gli stati
nazionali hanno già varato per proprio conto grandi operazioni di finanziamento
dei capitalisti attraverso l'apposizione di garanzie pubbliche al credito
bancario. Ora il Recovery Fund interviene sullo stesso tracciato, sotto forma
del “sostegno alla competitività delle imprese” e della “sostenibilità del
credito”. Gli stessi investimenti green, infrastrutturali e in digitalizzazione
sono di fatto trasferimenti alle imprese sotto forma di incentivi, sussidi,
detassazioni. Un affidamento al mercato, che come l'esperienza insegna non
promette alcuna svolta né sul terreno ambientale né su quello sociale.
La novità è
che parte di questa elargizione non dovrà essere rimborsata. Si tratta di
regalia pura, senza accrescimento del debito pubblico. Peraltro, già il solo
annuncio della nuova pioggia di miliardi in arrivo ha coperto una ulteriore
detassazione dei capitali. In Italia è stata tagliata in piena pandemia la
prima tranche dell'IRAP (4 miliardi) che oggi finanzia la sanità. Confindustria
chiede in queste ore che la prossima legge di stabilità cancelli
definitivamente la tassa (13,4 miliardi complessivi). Lo stesso ordine del
giorno, in varie forme, viene posto in Francia e in Spagna. Ovunque i soldi
europei finanziano la detassazione dei padronati nazionali, tutti in corsa gli
uni contro gli altri per la massimizzazione dei propri profitti.
Non solo.
Per poter ridurre i contributi di Olanda, Svezia, Danimarca e Austria al
bilancio europeo, e al tempo stesso allargare quest'ultimo, il Consiglio
Europeo ha tagliato 9,4 miliardi di spese sanitarie e 7 miliardi per la
ricerca. Il primo biglietto da visita del Recovery Fund lo pagano la sanità
pubblica e la ricerca medica. E ciò in presenza della più grande pandemia del
dopoguerra.
LE “RIFORME”
AL SERVIZIO DI CHI?
A sua volta,
questa destinazione ai capitalisti dei diversi paesi di quanto ricavato dalla
vendita dei titoli europei ai gruppi capitalisti è condizionata dal varo delle
famigerate “riforme”. Le “riforme” hanno il marchio di sempre: liberalizzazione
del mercato, flessibilizzazione del lavoro, e soprattutto piani di rientro
credibili dal debito pubblico.
Il debito
pubblico di ogni paese è cresciuto enormemente per le spese legate alla
pandemia, il soccorso pubblico a imprese e banche, la precipitazione della
recessione. Non volendo tassare i capitalisti ed anzi volendo continuare a
detassarli, i governi borghesi sono ricorsi ben prima del Recovery fund a nuovo
deficit e nuovo debito. Cioè hanno emesso propri titoli pubblici, ordinari o
straordinari, per venderli sul mercato finanziario. Li hanno comprati banche
nazionali, compagnie di assicurazione, e la BCE. Una BCE che oggi continua a
finanziare massicciamente innanzitutto l'Italia, comprando i suoi titoli, ben
al di là della quota detenuta in BCE da Bankitalia.
Questa
enorme crescita del debito pubblico sovrano è una mina vagante per l'economia
mondiale ed europea. Occorrono dunque piani di rientro. Nel 2020 ovviamente è
impossibile, dal 2021 è inevitabile, pena la fuga degli investitori, la
minaccia di crack, l'impennata dei tassi di interesse.
Come
avvengono i piani di rientro? Consolidando il cosiddetto avanzo primario, cioè
il rapporto tra entrate e uscite al netto dei tassi di interesse. Significa che
ogni anno i tagli dovranno essere superiori al prelievo fiscale. Punto. Non a
caso l'avanzo primario è una costante delle leggi di bilancio in Italia negli
ultimi vent'anni. Il ministro del Tesoro Gualtieri ha assicurato che manterrà
questo «percorso virtuoso». È la garanzia offerta dall'Italia ai propri
creditori, banche italiane in testa e BCE. La piena preservazione della Legge
Fornero, la cancellazione della elemosina di quota 100, sono già nella partita
di scambio. Nessun pranzo è gratis, come dicono i padroni. Tranne per i
padroni.
NÉ
EUROPEISTI NÉ SOVRANISTI. SEMPLICEMENTE COMUNISTI
Qual è
dunque l'indicazione di fondo che emerge dal nuovo accordo europeo? L'Unione
Europea, stretta nella morsa tra USA e Cina, preserva la propria esistenza
attraverso una gigantesca operazione a debito, che si somma al crescente
indebitamento pubblico di tutti gli Stati nazionali. La montagna del debito,
nazionale ed europeo, poggia sulla schiena di centinaia di milioni di
lavoratori salariati del vecchio continente. C'è un solo modo di liberarsene:
rovesciare la classe dei capitalisti, a partire dai capitalisti di casa nostra.
È possibile recuperando l'autonomia della classe lavoratrice contro gli
europeisti borghesi e contro i sovranisti reazionari. La linea divisoria non è
tra Unione Europea e Indipendenza Nazionale. È tra i capitalisti, italiani ed europei,
e i salariati di ogni paese.
L'abolizione
del debito pubblico verso il capitale finanziario, la nazionalizzazione delle
banche, vanno posti all'ordine del giorno nei programmi di mobilitazione della
classe lavoratrice, in ogni paese e su scala continentale, legandoli alle
battaglie per la ripartizione del lavoro (30 ore pagate 40), di
riorganizzazione ecologica della produzione, di un investimento massiccio nel
sistema sanitario e nell'istruzione, pagata dai grandi patrimoni, rendite,
profitti.
La crisi la
paghi chi l'ha provocata, non chi l'ha subita.
Partito
Comunista dei Lavoratori
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