Un'iniziativa
del PCL in Calabria sui moti di Reggio
I moti di
Reggio Calabria furono uno snodo significativo della storia italiana. Il
dibattito che oggi si sta sviluppando è paralizzato dalla riproposizione banale
di posizioni che, da un lato, si presentano come una rivolta di popolo contro
un ceto politico prevaricatore guidata dai “boia chi molla” e, dall’altro,
rivendicano al gruppo dirigente del PCI il “merito” di avere garantito la
stabilità delle istituzioni. In questi termini si perde, in maniera
interessata, l’occasione di una riflessione adeguata.
Su questi
problemi la Commissione meridionale del Partito Comunista dei Lavoratori ha,
invece, promosso una conferenza che ha discusso aspetti essenziali sui quali
riflettere per farne tesoro in questo momento cruciale.
Nel clima di
omologazione oggi imperante va indubbiamente rilevata la scarsa attenzione che
gli organi di informazione hanno riservato all’iniziativa. Essa è partita dalla
lucida ricostruzione dei fatti sviluppata dal compagno Brunetti, all’epoca
segretario regionale del PSIUP, che è partito dal riferimento generale al
contesto italiano.
Negli anni
seguiti alla nascita del centrosinistra, la società meridionale vide lo
sviluppo di mobilitazioni di massa di grande rilievo condotte da lavoratori,
contadini e da settori importanti delle giovani generazioni. Dopo la
repressione delle lotte per la riforma agraria, stroncate nel dopoguerra dalle
stragi di Melissa, e il consolidamento di un blocco reazionario e mafioso nel
Sud, le masse finalmente tornavano in campo.
Ciò accadeva
anche nella città di Reggio Calabria, con ferrovieri, studenti, ampi settori di
un proletariato cresciuto con lo sviluppo demografico e l’inurbamento di
migliaia di lavoratori che si stavano mobilitando contro emarginazione e
sfruttamento.
La
mobilitazione toccava aspetti di grande significato, come l’opposizione
all’imperialismo, l’occupazione delle scuole, il riconoscimento dei diritti del
lavoro.
C’era, in
altri termini, la possibilità di costruire un grande movimento che unisse la
società meridionale alle masse del Nord e alle loro lotte.
Il malessere
del Sud emergeva con la manifestazione di bisogni di massa che talvolta
venivano espressi anche con elementi di confusione. Quando questo malessere si
incrociò con la scelta del capoluogo regionale, la sinistra avrebbe dovuto
essere presente nella società con una proposta che giocasse al rialzo e ponesse
al centro la necessità di spezzare l’ordine sociale sulle questioni del lavoro,
della mafia, e che parlasse con la voce dell’anticapitalismo; se ciò fosse
avvenuto, le masse di Reggio Calabria non sarebbero state consegnate
all’egemonia della destra.
Il gruppo
dirigente del PCI fece totalmente altro, con una scelta che rimuoveva le
indicazioni di Gramsci e cancellava il compito di unire le masse di tutto il
paese, per privilegiare invece il suo ruolo di forza politica nazionale che
garantisse la tenuta dell’ordine sociale e la stabilità delle istituzioni
borghesi.
Le posizioni
del PSIUP calabrese, che si muovevano su una prospettiva radicalmente diversa e
di classe, furono pesantemente attaccate come irresponsabili e costrette
all’isolamento, anche con la complicità del gruppo dirigente nazionale dello
stesso PSIUP.
Posizioni
che furono ben altra cosa rispetto a quelle prodotte in maniera estemporanea da
esponenti di Lotta Continua.
A ben
considerare, la posizione assunta dal PCI era in stretta continuità con la
linea imposta al partito da Togliatti e da tutto il gruppo dirigente staliniano
con la svolta di Salerno.
La sconfitta
sui fatti di Reggio, che il responsabile meridionale del PCI Gerardo
Chiaromonte classificò come “una ragazzata di quattro teppisti”, portò
conseguenze pesanti, con il definitivo arroccamento del PCI al governismo e
alla collaborazione di classe. Tutto ciò con conseguenze che ricadono fino ad
oggi, momento in cui globalizzazione e imperialismo producono, anche per la
crisi del movimento operaio, una miseria più grande e nuovi spaventosi
sviluppi.
Cinquanta
anni dopo i moti si evidenzia come la Caporetto della sinistra governista, che
è durata nel tempo, ha contribuito a una crisi generale gravissima.
Nel suo
quadro si collocano la situazione di un’area mediterranea sempre più povera e
uno sconvolgimento che tocca aree geografiche e sociali sempre più grandi.
La speranza
che l’Europa degli imperialisti possa produrre un riequilibrio è solo una pia
illusione. Solo un’Europa diversa basata sull’unione dei lavoratori del vecchio
continente e delle masse dei paesi poveri costrette all’immigrazione può
invertire la rotta. La proposta di un piano per il nuovo lavoro e un’economia
non più fondata sul capitalismo è di fondamentale importanza.
Altri
aspetti sono stati puntualizzati dal compagno Pino Siclari, coordinatore della
Commissione meridionale del PCL. La cecità delle burocrazie politiche e
sindacali e il loro naufragio sui fatti di Reggio emersero anche con la
sottovalutazione del problema del capoluogo inserita nella riforma che al
momento del varo della Costituzione introduceva l’ordinamento regionale. Essi
avevano tutto il tempo per disinnescare questa mina vagante e per evitare tutte
le sue catastrofiche conseguenze sulla realtà sociale calabrese. Le scelte
adottate dal PCI diedero spazio all’egemonia reazionaria e consentirono alla
destra di costruire un blocco sociale contrapposto al movimento operaio e
collaterale, se non collegato, alla strategia della tensione e delle stragi.
L’errore
proseguì nel tempo; ancor prima del governo Andreotti, in Calabria si costituì
una maggioranza regionale allargata al PCI.
Poi il
compromesso storico, la svolta dell’EUR con i sacrifici che, imposti nel sacro
nome dello sviluppo del Sud, avrebbero penalizzato ulteriormente le masse
meridionali.
E poi ancora
la mutazione dell’identità esteriore del PCI e la sua inequivoca collocazione
nel campo delle forze borghesi con la nascita del PDS e dei DS.
Infine una
considerazione sul lascito culturale dell’egemonia reazionaria: la protesta
contro i misfatti dei “politici”.
L’odierna
“antipolitica” non può essere considerata una proiezione di quel delirio
"rivoluzionario" che oggi si ripropone con Grillo e Salvini?
In questo
momento di emergenza, a una sinistra più debole e mal messa si ripropone lo
stesso dilemma di allora: o essere l’elemento di garanzia per il mondo di
lorsignori o parlare il linguaggio della rivoluzione.
Altri
interventi, come quelli dei compagni Demetrio Cutrupi e Antonio Messineo, hanno
puntualizzato la responsabilità di quei gruppi dirigenti che lasciarono campo
aperto alla destra e resero ancor più esplicito l’abbandono delle categorie
politiche di Antonio Gramsci. Quelle categorie politiche che invece la
conferenza del PCL ha rimesso al centro, e con le quali ha letto i moti di
Reggio, rendendo la loro lezione utile sul terreno della prospettiva politica
nel nome e per conto dell’interesse dei lavoratori.
L’iniziativa
si è conclusa con l’annuncio di una prossima sessione degli "itinerari
gramsciani” dedicata ai moti di Reggio e con l’indicazione di un’assemblea
meridionale della sinistra di opposizione da tenersi nei mesi a venire.
Partito
Comunista dei Lavoratori - Commissione meridionale
Nessun commento:
Posta un commento
Nota. Solo i membri di questo blog possono postare un commento.