L'11
settembre 1973 in Cile il generale Augusto Pinochet realizzava un colpo di
Stato fascista, rovesciando il governo di Unidad Popular di Salvador Allende.
Decine di migliaia di comunisti, operai, contadini, studenti, furono
assassinati, torturati, sequestrati. Un bagno di sangue voluto
dall'imperialismo americano, gestito dalle gerarchie militari cilene, benedetto
dalla Chiesa cattolica nel nome della lotta al marxismo. Tutti gli imperialismi
“democratici” alleati degli USA solidarizzarono naturalmente con i macellai, e
cancellarono in seguito persino la memoria di quel macello.
La tragedia
dell'11 settembre 1973 contiene anche però una lezione politica: il fallimento
di un'operazione riformista.
Unidad
Popular componeva un'alleanza di governo tra i partiti riformisti del movimento
operaio cileno (il Partito Socialista e il Partito Comunista) e il Partito
Radicale, di natura borghese. Il suo programma rivendicava misure sociali
sicuramente progressive (riforma agraria, nazionalizzazione del rame), ma
dentro una cornice “democratica”, rispettosa della borghesia cilena e del suo
Stato.
Tuttavia
l'ascesa del movimento di massa, operaio e contadino, trascinato dalla vittoria
elettorale di Allende del 1970 travalicò ampiamente i limiti di classe di
Unidad Popular. Occupazione di fabbriche, occupazione di terre, sviluppo di
strutture di autorganizzazione di massa di tipo consiliare (cordones
industriales, comandos comunales) espressero una dinamica rivoluzionaria
apertamente socialista e di doppio potere.
Il governo
Allende cercò di ricondurre il fiume dentro il solco della collaborazione di
classe. In particolare si distinse in questo il PC stalinista guidato da
Corvalan, che scavalcò a destra la stessa socialdemocrazia cilena. Corvalan
reclamò la restituzione delle fabbriche e terre occupate ai loro «legittimi
proprietari», offrì all'opposizione parlamentare della DC cilena il cosiddetto
codice delle garanzie contro l'«anarchia del poder popular», concordò con la DC
la famigerata Ley de armas, che autorizzava le strutture di polizia a requisire
le armi in mano agli organismi popolari e a punire i trasgressori. Il tutto nel
nome della “pacificazione democratica nazionale”. A suggello di questa politica
di “garanzia democratica” Corvalan spinse Allende a coinvolgere nel governo i
massimi vertici delle forze armate. Prima il generale Prats, poi, dopo le sue
dimissioni, il generale... Augusto Pinochet.
Questa
politica suicida ebbe un solo risultato: disarmare la rivoluzione cilena e
consegnarla al suo boia. Il fatto che il boia fosse proprio Pinochet,
presentato da Corvalan come garante della costituzione e (testuale) «guida
dell'esercito più democratico dell'America Latina», misura il clamoroso
fallimento della politica staliniana in Cile. Era già accaduto in Spagna nel
1936-1939, si ripeté in Cile nei primi anni '70: volendo ricondurre la
rivoluzione sociale nell'alveo di una "rivoluzione democratica”, la
politica staliniana spianò la strada alla reazione peggiore, quella fascista.
Furono i militanti comunisti a pagare il prezzo sulla propria pelle della
politica catastrofica dei loro dirigenti.
La memoria
della rivoluzione cilena ci consegna dunque, in forma esemplare e tragica, la
grande lezione del Novecento: solo un partito marxista rivoluzionario può
guidare la rivoluzione alla vittoria, come nell'ottobre '17. I partiti
riformisti sanno solo organizzare la sua disfatta, anche quando si definiscono
comunisti.
Partito
Comunista dei Lavoratori
Nessun commento:
Posta un commento
Nota. Solo i membri di questo blog possono postare un commento.