“La Cina è
vicina”, gridavano i maoisti di casa nostra cinquant'anni fa, nel nome della
cosiddetta rivoluzione culturale. In realtà presentavano l'operazione
burocratica stalinista della frazione di Mao contro la frazione di Liu come
elisir del socialismo da indicare a modello. Ma nonostante tutto si riferivano
a una Cina che era allora uno Stato operaio, seppur burocraticamente deformato,
entro un quadro mondiale ancora segnato dal confronto tra imperialismi
d'Occidente e blocco staliniano ad Est.
Ripetere
oggi “la Cina è vicina” è cosa diversa, a fronte della realtà capitalistica e
imperialistica della Cina attuale, restaurata dalla stessa burocrazia
stalinista. Eppure è la cantica che si leva in questi giorni da diversi
ambienti intellettuali e politici dell'area sovranista, in occasione degli
accordi tra Italia e Cina.
«Accordo
Italia-Cina: un'occasione storica per la difesa degli interessi del nostro
popolo», scrive Mauro Gemma (Associazione Marx XXI). «Il PCI è per l'adesione
italiana al progetto delle Nuove Vie della Seta» dichiarano Mauro Alboresi e
Fosco Giannini, a nome del proprio partito. Ma anche l'area di Contropiano,
seppur con toni meno enfatici, presenta l'accordo come «ossigeno puro per
un'economia [italiana] asfissiata dalla austerità teutonica» (Francesco
Piccioni).
La base di
partenza è duplice. Da un lato, la caratterizzazione della Cina come paese
socialista. Dall'altro, la rappresentazione dell'Italia come paese oppresso
dalla Germania e dalla UE “tedesca”. Se queste sono le premesse, cosa c'è di
meglio per “il nostro paese” dell'abbraccio liberatorio con Xi Jinping?
L'accordo con la Cina diventa la celebrazione della “sovranità” riconquistata
dell'Italia. Le obiezioni dell'imperialismo USA, le resistenze di Germania e
Francia, non provano forse la bontà dell'accordo?
C'è davvero
da stropicciarsi gli occhi di fronte a una rappresentazione tanto grottesca.
L'imperialismo
USA fa i propri interessi, e dunque teme l'espansione della potenza imperialista
cinese, sua rivale strategica. L'imperialismo tedesco fa i propri interessi, e
dunque vuole tutelare la primazia dei propri affari con la Cina, e in Cina
contro la concorrenza italiana. L'imperialismo francese fa i propri interessi,
ha con l'Italia un contenzioso aperto su vari tavoli, e per questo osteggia
l'operazione. Ma l'imperialismo italiano? Già, perché anche il “nostro” paese è
un paese imperialista, che ha i suoi propri interessi. Più precisamente,
l'Italia è la settima potenza mondiale e la seconda manifattura d'Europa. È
alleata degli USA e della Germania, ma non è una loro colonia. Contende alla
Germania l'egemonia nei Balcani, contende alla Francia l'egemonia nel Nord
Africa, contende alla Spagna un'area di influenza in Sud America. Per questa
stessa ragione oggi l'imperialismo italiano mira ad allargare il proprio bacino
d'affari con la Cina e verso la Cina, il più grande mercato di merci e capitali
esistente al mondo, e al tempo stesso la più grande potenza imperialista
emergente.
La natura
concreta dell'accordo è evidente per entrambi i contraenti. L'imperialismo
cinese attraverso i porti italiani, Trieste in primis, allarga il canale di
espansione in Europa, sbocco importante dei propri capitali in eccesso.
L'imperialismo italiano attraverso l'accordo mira a contropartite altrettanto
appetitose: l'apertura degli appalti pubblici in Cina per i costruttori
italiani, l'allargamento delle esportazioni italiane nell'enorme mercato
cinese, la compartecipazione italiana agli investimenti cinesi in Africa. La
nomenclatura delle imprese italiane coinvolte negli accordi Italia-Cina è
significativa: Ansaldo, SNAM, CDP, ENI, Intesa, Danieli... tutti i più grandi
capitalisti italiani, nessuno escluso. Non meno significativo è l'appoggio
della grande stampa padronale all'accordo italo-cinese. Persino la stampa
borghese liberale, oggi all'opposizione del governo giallo-bruno, ha coperto e
sostenuto l'accordo, sino ad offrire pagine intere, un lungo e largo tappeto
rosso, all'intervento cerimonioso del leader cinese (Corriere della Sera). Per
non parlare della Presidenza della Repubblica, grande sponsor istituzionale
dell'intesa. Del resto il significato dell'accordo è stato illustrato nel modo
più semplice da Du Fei, presidente della cinese CCCC, azienda gigantesca di
costruzioni con 70 miliardi di dollari di fatturato e 118 mila dipendenti: “La
torta è grande, mangiamola insieme” (testuale!). Questo è “l'ossigeno puro”
dell'intesa: riguarda i profitti, non altro.
Il problema,
allora, non è essere “a favore” o “contro” l'intesa tra l'imperialismo cinese e
l'imperialismo italiano, ma di avere un angolo di sguardo indipendente sulla
faccenda. Un angolo di sguardo che muova dall'interesse indipendente dei
lavoratori, italiani e cinesi, e da una prospettiva socialista contro ogni
imperialismo (USA, UE, Cina...), a partire dall'imperialismo nazionale di casa
nostra. L'unica intesa Italia-Cina che ci può interessare è quella che passa
per la costruzione di un'alleanza internazionale tra operai italiani e operai cinesi
contro i rispettivi capitalisti e imperialismi. “Proletari di tutti i paesi,
unitevi” significa questo. L'”unitevi” rivolto all'imperialismo italiano e
cinese muove da una logica opposta: subalterna verso l'imperialismo di casa
nostra e verso la realtà dell'imperialismo mondiale. Subalterna verso gli
sfruttatori della classe lavoratrice, verso i nemici della causa socialista.
Partito
Comunista dei Lavoratori
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