La catena di
complicità e coperture dell'Arma dei Carabinieri attorno agli assassini di
Stefano Cucchi si è rotta perché un carabiniere coinvolto ha parlato. Ma ora
proprio la dinamica dell'accaduto chiama in causa il cuore profondo dello
Stato: le gerarchie di comando di quei “corpi d'uomini in armi” (Engels) ai
quali la democrazia borghese affida la tutela dell'ordine pubblico.
Le gerarchie
hanno coperto il crimine per nove anni. Per nove anni hanno non solo depistato
le indagini, falsificato i reperti, comandato il silenzio ai sottoposti,
trasferito per punizione chi aveva parlato (Casamassima), minacciato ogni altro
possibile sgarro. Ma hanno promosso la criminalizzazione di Ilaria Cucchi e
della famiglia del giovane assassinato. Quando Ilaria osò pubblicare l'immagine
facebook di uno dei carabinieri coinvolti con tanto di esibizione di muscoli e
pose marziali («ecco la foto dell'uomo che ha ammazzato mio fratello») si
scatenò contro di lei l'inferno. Ben tre sindacati di polizia la querelarono
per diffamazione e istigazione all'odio. Una canea reazionaria la lapidò sui
social come intrigante interessata a far soldi sulla pelle del fratello. Gianni
Tonelli, principale dirigente del sindacato più a destra della Polizia (oggi
guarda caso parlamentare leghista) disse che Stefano aveva pagato semplicemente
le conseguenze di una vita dissoluta e che era “infame” accusare i Carabinieri.
A tutto questo si aggiungevano i commenti politici. Matteo Salvini, oggi
Ministro dell'Interno, disse pubblicamente di Ilaria «Mi fa schifo» (testuale).
Per non parlare dei La Russa e dei Giovanardi, arruolati ad onorem per sempre
nell'Arma.
Nulla di
nuovo. È quanto è accaduto e accade a difesa dell'Arma o della Polizia in altri
casi di morti “accidentali”. Quelle di Federico Aldrovandi, Giuseppe Uva,
Michele Ferrulli, per citare solo le più note. Non si tratta di semplici
episodi, si tratta della punta emergente di un iceberg profondo: quello spazio
di illegalità che diventa legge in tante carceri e stazioni di polizia;
quell'esercizio brutale della forza che si accanisce contro chi è indifeso,
tanto più se “marginale” e “reietto”; quella cultura dell'onnipotenza che si
nutre di letteratura fascista, la più popolare e non da oggi nelle caserme. Per
avere la misura intuitiva della profondità dell'iceberg è sufficiente un
esercizio di immaginazione. Se l'omertà ha protetto per nove anni l'assassinio
di Stefano, nonostante l'attenzione dell'opinione pubblica, il coraggio di
Ilaria, la tenacia della sua famiglia, quanti saranno i casi di omertà in tante
vicende analoghe prive di attenzione mediatica e relative a persone assai più
indifese?
La cultura
dell'onnipotenza dell'Arma fa leva sulla tradizione dell'impunità. Stando ai
giornali, il maresciallo dei carabinieri Roberto Mandolini ha usato nella
vicenda Cucchi un argomento centrale per chiedere il silenzio: “State
tranquilli. Ho conoscenze all'interno dell'Arma e in Vaticano”; era la garanzia
offerta della protezione in cambio della sottomissione all'ordine gerarchico.
Del resto, su grande scala, la nota vicenda della promozione sul campo dei
primi responsabili della macelleria messicana di Genova contro le
manifestazioni anti G8 è stata emblematica e ha fatto scuola. Naturalmente,
come dimostra il caso di Stefano, può capitare un “incidente” e la catena delle
connivenze può rompersi, ma nessuna eccezione può oscurare la regola, la
costituzione materiale dello Stato borghese profondo, insensibile per sua
natura a qualsiasi costituzione formale.
Proprio la
natura organica dei corpi repressivi, il loro codice interno, la legge reale
che governa le loro relazioni, li rende strumenti idonei alla difesa
dell'ordine borghese della società. Per questo nessun programma anticapitalista
può rimuovere dal proprio orizzonte la questione dello Stato e della
rivoluzione.
Partito
Comunista dei Lavoratori
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