L'emergenza?
Non esiste se si parla di produzione e di profitti
Solo gli
imbecilli possono sottovalutare l'emergenza del coronavirus e la necessità di
misure straordinarie di contenimento. Ma solo i ciechi possono rimuovere la
connessione tra il dramma in corso e l'organizzazione capitalista della
società, il suo passato e il suo presente.
Il contesto
che stiamo vivendo in questi giorni in Italia non ha precedenti nel dopoguerra.
La drammatica progressione dell'epidemia si sovrappone al crollo del sistema
sanitario e alla recessione economica. Un ciclone che si abbatte non solo sulla
vita politica e sociale ma sulla esperienza quotidiana di ciascuno, domina le
sue preoccupazioni, il suo conversario, il suo immaginario. Milioni di
lavoratori e lavoratrici, già provati da decenni di sacrifici, sono sottoposti
a una nuova durissima prova.
I LAVORATORI
DELLA SANITÀ E I PADRONI FILANTROPI
Primi fra
tutti i lavoratori e le lavoratrici della sanità.
Esposti sul
fronte di guerra, costretti a lavorare più di 12 ore al giorno, spesso privi
degli strumenti adeguati di protezione, falcidiati per questo da un tasso di
contagio doppio rispetto alla media della popolazione, costretti a scegliere
chi intubare e chi no non dalle esigenze del malato ma dall'assenza di posti
letto, di ventilatori, di spazi. Obbligati dunque a decidere ogni giorno della
vita e della morte di un malato in piena solitudine, con uno stress emotivo
devastante, a causa dei 37 miliardi di tagli alla sanità pubblica praticati
negli ultimi dieci anni.
La stessa
stampa borghese che per decenni ha lamentato gli “sprechi” della spesa
sanitaria e ha appoggiato la chiusura di centinaia di ospedali del territorio –
sempre nel nome del debito pubblico da pagare alle banche – scopre
improvvisamente l'eroismo di medici e infermieri.
Di più. Si
diffondono gesti pubblici di carità filantropica da parte delle banche e delle
grandi imprese. Banca Intesa, che ha fatto da sola in un solo anno quattro miliardi
di utili, dona qualche milione al servizio sanitario di cui ha chiesto a lungo
la demolizione; e il Corriere, di sua proprietà, dedica una pagina intera a
questo esempio amorevole di patriottismo. Il gruppo Pirelli, Armani, Dolce
Gabbana, il fior fiore del made in Italy, l'intero mondo delle imprese quotate
che ha fatto in Borsa nel 2019 ventiquattro miliardi di utili si premurano di
far sapere che hanno destinato qualche spicciolo all'acquisto di mascherine e
ventilatori. “Da Armani a Yamamay, le aziende riscoprono la responsabilità
sociale” titola La Repubblica (9 marzo). Una gara di umanesimo davvero
commovente.
L'EMERGENZA
IGNORATA NELLE FABBRICHE
Se non fosse
che le stesse imprese “socialmente responsabili” (da Confindustria a
Confcommercio) chiedono al governo di garantire ad ogni costo la continuità
della produzione nelle zone più contagiate senza garantire ai dipendenti
neppure gli strumenti più elementari di sicurezza. Guanti e mascherine monouso,
peraltro rare, sono previsti solo per gli autisti del trasporto merci, non per
i lavoratori in produzione. Le fabbriche restano zona franca: nessun rispetto
del distanziamento, assenza di disinfettanti, incuria criminale. L'emergenza
cessa improvvisamente di essere tale se si parla di produzione e di profitti, e
il lavoro diventa così un moltiplicatore del contagio, innanzitutto tra operai
e operaie. In compenso riposi e ferie sono messi a disposizione del padrone,
mentre i congedi parentali, per chi ne può usufruire, coprono solo il 30% del
salario.
MA I
CAPITALISTI BATTONO CASSA
Non
contenti, i padroni “socialmente responsabili” battono cassa.
Rastrellano
il grosso dei 7,5 miliardi stanziati (moratoria dei debiti verso le banche,
copertura pubblica dei crediti delle banche stesse), lasciando un solo miliardo
alla sanità. Chiedono l'indennizzo pieno per il fatturato perso (Confcommercio)
mentre procedono a licenziamenti collettivi, a partire dal turismo, dalla
ristorazione, dai trasporti. Chiedono la defiscalizzazione degli investimenti
dei fondi, nel mentre invocano commesse pubbliche e investimenti
infrastrutturali. E già che ci sono, sempre nel nome dell'emergenza,
rivendicano la cancellazione di ogni causale per i contratti a termine, la
liberalizzazione dei voucher e mano libera in fatto di appalti (CONFAPI). Il
tutto, naturalmente, a spese del lavoro, e della maggioranza della società. Se
poi i soldi pubblici non bastassero per tanta manna, si prendano in prestito
dalle banche, facendo altro debito e altri interessi sul debito, caricandoli
sul portafoglio degli operai. E se per questo l'aumento del debito nell'anno in
corso dovesse far lievitare lo spread, “si tranquillizzino i mercati”
annunciando da subito l'abolizione delle elemosine sociali (quota 100 e reddito
di cittadinanza), come chiede oggi Confindustria (Il Sole 24 Ore, 9 marzo).
Insomma, il
virus è cieco, ma i padroni ci vedono benissimo. Anche in tempi di emergenza
che peraltro hanno contribuito a creare. È vero, i confini di classe sfumano
nella percezione di molti, per l'arretramento della coscienza e la pressione
della paura. Ma nella realtà sono ancor più profondi di ieri. Ricostruire
controcorrente una piattaforma di mobilitazione del movimento operaio,
sviluppare la sua coscienza, ridisegnare una prospettiva anticapitalista è allora
una necessità tanto più ineludibile oggi. Di questo ci occuperemo ogni giorno,
anche nell'attuale stato d'eccezione. Anche attraverso la voce libera di questo
sito.
Partito
Comunista dei Lavoratori
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