La battaglia
dell'Ilva assume oggi una valenza centrale.
LA BUFALA
DELL'ACCORDO DI UN ANNO FA
L'accordo
firmato un anno fa dal primo governo Conte (M5S-Lega) concedeva la principale
azienda siderurgica italiana al più grande colosso della siderurgia mondiale,
Arcelor Mittal. Le burocrazie sindacali firmatarie dell'accordo, CGIL, CISL,
UIL, lo celebrarono come l'accordo del secolo, magnificandone le virtù: difesa
dell'occupazione e dei diritti dei lavoratori, garanzia di risanamento
ambientale, un orizzonte radioso. Persino USB firmò, unendosi al coro. Il tutto
a copertura, incredibile a dirsi, dell'allora governo M5S-Lega, ma anche col
plauso del PD e di larga parte delle sinistre “radicali”. Del resto...
garantiva il mitico Maurizio Landini, neosegretario generale CGIL, come si
poteva sconfessarlo?
Ma l'anno
trascorso ha fatto tabula rasa di questa retorica. Riduzione dell'occupazione
reale a regime, selezione antisindacale delle riassunzioni, taglio dei diritti
acquisiti per i lavoratori riassunti, aumento della cassa integrazione,
risparmi sulla sicurezza del lavoro, ritardi sugli impegni ambientali. Basti
pensare che ad oggi i soli interventi di risanamento avvenuti, compresa la
copertura dei parchi minerari, sono stati finanziati dai fondi sequestrati a
Riva. Insomma, un vero bidone. Come il nostro partito aveva denunciato e
previsto.
Il “recesso”
di ieri di Arcelor Mittal è solo la confessione pubblica di questa verità.
L'IMMUNITÀ
PENALE PER IL PROFITTO
Il colosso
franco-indiano ha acquistato gli stabilimenti ex Ilva dietro garanzia
dell'immunità penale. Una clausola inesistente altrove. Sta a dire che la messa
a norma della produzione dal punto di vista ambientale richiede un certo tempo,
e che in questo tempo l'azienda è immune sotto il profilo giudiziario, cioè non
risponde di reati ambientali o di mancata sicurezza sul lavoro. L'esistenza
stessa di questa clausola, quale condizione dell'acquisto, chiarisce se ve
n'era bisogno la sua spregiudicatezza e persino la sua natura incostituzionale.
Il profitto reclamava una zona franca a garanzia dei azionisti, governo e
sindacati acconsentivano.
Ma dopo il
tracollo elettorale dei Cinque Stelle a Taranto, e non solo, il panico dei
parlamentari pugliesi, la minaccia di un loro abbandono, in particolare al
Senato, col rischio conseguente di una possibile caduta del governo, il buon Di
Maio è dovuto correre ai ripari concedendo alla fronda interna la rimozione
parziale dell'immunità. E Arcelor Mittal ha colto la palla al balzo per tirarsi
fuori. Senza immunità penale il profitto se ne va.
LA GUERRA
MONDIALE DELL'ACCIAIO
Una mossa
contrattuale per riottenere lo scudo giudiziario, oppure per negoziare magari
un nuovo accordo con tagli maggiori sull'occupazione? Lo vedremo. Certo
l'operazione ha risvolti più ampi che vanno ben al di là dell'aspetto
giuridico. Arcelor Mittal ha acquisito gli stabilimenti ex Ilva per sottrarli
innanzitutto alla concorrenza. La sovrapproduzione dell'acciaio è enorme sul
piano mondiale, anche per l'ingresso della concorrenza cinese. Tutti i grandi
gruppi del settore sono dunque impegnati in una guerra senza risparmio di
colpi. Questa guerra si combatte attraverso l'abbattimento dei costi: riduzione
della manodopera, distruzione dei diritti, aggiramento delle clausole
ambientali (laddove esistono). Arcelor Mittal è in prima fila in questa guerra,
una guerra che investe la siderurgia europea, a partire da Germania e Francia.
L'Italia è solo un frammento di questa partita di domino. I grandi azionisti di
Arcelor si muovono e si muoveranno in Italia secondo le convenienze del proprio
piano industriale globale. Di certo la nomina come nuovo amministratore
delegato della mastina Lucia Morselli, nota “tagliatrice di teste” in fatto di
posti di lavoro, non promette nulla di buono. Le cifre che circolano sui
cosiddetti esuberi annunciano una possibile mattanza.
NON CI SONO
PADRONI BUONI
Tutta la
lunga esperienza della privatizzazione della siderurgia italiana conferma che
non vi sono padroni buoni. Vi sono solo padroni interessati al profitto. A
qualsiasi costo, per l'appunto, cancro incluso. Sempre con l'assistenza dello
Stato, spesso con la complicità dei burocrati sindacali. Padron Riva comprò nel
1995 la vecchia Italsider per un pugno di lire, allo scopo di spolparla per
quasi vent'anni e portare in Svizzera i miliardi fatti, mentre le polveri
sottili dei parchi scoperti avvelenavano Taranto. Le burocrazie sindacali, a
partire da Taranto, finirono (letteralmente) sul libro paga dei Riva per
garantire pace sociale in fabbrica e protezione sul territorio. La vicenda
della FIOM tarantina fu emblematica. Ora i nuovi acquirenti di Arcelor Mittal
hanno prima avuto in dono dallo Stato un contratto vantaggioso penalmente
immune, e ora minacciano di rifarsi contro gli operai, per di più pretendendo
come faceva Riva la “solidarietà delle maestranze”.
Nessuna
solidarietà va data invece ai nuovi padroni. L'interesse di classe degli operai
non ha nulla da spartire col loro. La siderurgia va certo salvaguardata, fuori
e contro la pretesa specularmente opposta di chi chiede la chiusura degli
stabilimenti (chi rivendica la chiusura nel nome del risanamento del territorio
dia un occhiata al deserto di Bagnoli, presidiato da camorra e disperazione, e
poi ne riparliamo). Ma gli operai non possono scegliere tra morire di fame o
morire di cancro. Possono e debbono rivendicare insieme lavoro e salute,
diritti inseparabili, e possono farlo solo contro la legge del profitto. Per
questo avanziamo la parola d'ordine della nazionalizzazione dell'Ilva, senza
alcun risarcimento per i nuovi acquirenti, e sotto il controllo dei lavoratori.
NAZIONALIZZAZIONE
E RICONVERSIONE
La
produzione di acciaio è indispensabile, come il risanamento ambientale dei
territori inquinati. Tenere insieme queste due esigenze è perfettamente
possibile, sulla base delle acquisizione della tecnica e della scienza. La
stessa Arcelor Mittal ha riconosciuto che la produzione di acciaio attraverso
il gas e non il carbone è tecnicamente possibile, salvo lamentare i maggiori
costi e dunque la non convenienza di mercato. Ma la non convenienza per gli
azionisti coincide con la massima convenienza per i lavoratori e la maggioranza
della società. Per questo gli stabilimenti ex Ilva vanno nazionalizzati sotto
controllo operaio. Perché solo gli operai, nel loro proprio interesse, possono
tutelare i posti di lavoro, anche attraverso la riduzione dell'orario a parità
di paga. Perché solo gli operai, nel loro proprio interesse, possono conciliare
la tutela del lavoro con la riorganizzazione radicale della produzione
dell'acciaio, dando risposta reale alla domanda di sicurezza ambientale della popolazione
povera dei quartieri. Più in generale, va nazionalizzata l'intera produzione
dell'acciaio, riorganizzando la produzione secondo un piano del lavoro definito
dai lavoratori stessi, finalmente sottratto al cinismo cieco del mercato.
DI
INCOMPATIBILE C'E SOLO IL CAPITALISMO
La
nazionalizzazione è “incompatibile” con la legislazione della UE, con il libero
mercato, con le virtù del capitale? È vero. Ma solo nel senso che è il capitale
ad essere incompatibile con le esigenze della società umana. La battaglia per
la nazionalizzazione dell'ex Ilva o diventa una battaglia anticapitalistica per
un governo dei lavoratori, o non è.
Il PCL farà
della battaglia per la nazionalizzazione l'asse del proprio intervento tra i
lavoratori Ilva. Ed è una battaglia che non può limitarsi all'Ilva. Se la più
grande azienda del paese è sotto attacco, se sono in gioco 20.000 operai,
sommando l'indotto, se è in gioco il cuore della produzione industriale su
scala nazionale, lo scontro riguarda l'intero movimento operaio italiano. Il
fronte unico a difesa del lavoro per la nazionalizzazione dell'Ilva è la parola
d'ordine centrale di tutte le avanguardie di classe.
Marco
Ferrando
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