Il 4 marzo
ha segnato uno sconvolgimento profondo del quadro italiano. La crisi di
consenso delle politiche dominanti e la crisi parallela del movimento operaio -
combinandosi e sommandosi nei lunghi anni della grande crisi - hanno prodotto
una risultante storica: da un lato il crollo del centro borghese in tutte le
sue varianti (PD e Forza Italia), dall'altro la capitalizzazione a destra di questo
crollo (M5S e Lega).
Al Nord (ma anche in aree crescenti del centro Italia) il capitalismo dei distretti ha trovato il proprio riferimento nella Flat tax della Lega, che ha costruito attorno a sé un blocco sociale vasto che coinvolge partite Iva colpite dalla crisi ma anche significativi settori di classe operaia industriale spesso dirottati contro gli immigrati e attratti dalla promessa dell'abolizione della Legge Fornero.
Al Sud ha sfondato il M5S con cifre da autentico plebiscito. Un M5S molto legato alla piccola borghesia delle libere professioni, che ha guadagnato la testa dei disoccupati e della popolazione povera del Mezzogiorno attorno alla bandiera del reddito di cittadinanza, ma che ha raggruppato anche la larga maggioranza del lavoro salariato dell'industria, e settori crescenti del pubblico impiego.
Nessuno dei due vincitori (M5S e Lega) è espressione diretta e organica dell'establishment. Entrambi coinvolgono nel loro insieme l'ampia maggioranza del proletariato italiano, e asfaltano la sinistra politica.
UNA CESURA PROFONDA COL PASSATO
Questo scenario segna una cesura profonda col passato.
Il vecchio bipolarismo tra centrodestra e centrosinistra che aveva incardinato la Seconda Repubblica è deceduto dopo lunga agonia. Ma al tempo stesso un nuovo equilibrio non è ancora nato, né si delinea. Né il centrodestra né il M5S appaiono in grado di comporre una propria maggioranza parlamentare, mentre una loro collaborazione di governo (pur ricercata) fatica a trovare uno sbocco.
Il M5S si offre alla borghesia italiana (e internazionale) come nuovo architrave della Terza Repubblica. Ma il suo spazio di manovra politico è limitato dalla combinazione di due rigidità difficilmente aggirabili: la necessità di guidare il governo, l'impossibilità di imbarcare Berlusconi. Dal canto suo, la Lega di Salvini non può scaricare Berlusconi se non amputando la propria forza negoziale e mettendo a rischio l'eredità dei suoi voti. Da qui la prolungata paralisi politica.
Senza entrare in previsioni di dettaglio, si impongono in ogni caso due osservazioni di fondo.
La prima è che difficilmente si prospetta una soluzione di legislatura. Le elezioni politiche anticipate (prima o dopo) sembrano inscritte nel risultato del 4 marzo.
La seconda è che l'Italia è l'unico paese imperialista nel concerto europeo nel quale la soluzione di governo è di fatto affidata a forze “populiste”, esterne al centro politico borghese.
Non sono aspetti irrilevanti, perché misurano una contraddizione evidente: la valenza di destra del voto del 4 marzo rafforza il padronato e la sua offensiva sui luoghi di lavoro, ma la borghesia accentua parallelamente la propria crisi di direzione sul piano politico. E l'accentua nel momento stesso in cui lo scenario mondiale sottolinea gli elementi di fragilità del capitalismo italiano (prossimo esaurimento del Quantitative Easing della BCE, ristrettezza dei margini negoziali di manovra sul terreno delle politiche di bilancio e della crisi bancaria, rischi connessi alla guerra commerciale tra blocchi imperialisti per un paese esportatore come l'Italia...).
L'INCOGNITA M5S NELLA TERZA REPUBBLICA
A tutto questo si aggiunge un'incognita che va al di là della soluzione contingente della crisi politica. Il M5S è in grado di reggere sulle proprie spalle le responsabilità di pilastro della Terza Repubblica? Sicuramente è determinato a rivendicare quel ruolo, al prezzo del più grottesco trasformismo. Ma è attrezzato a reggere gli oneri enormi che l'esercizio di quel ruolo comporta?
È possibile. È possibile che la funzione plasmi l'organo in tempi più accelerati di quanto si pensi. Ma non sarà facile, per ragioni diverse tra loro combinate.
Il M5S non ha una classe dirigente sperimentata nell'amministrazione dello Stato borghese. Le difficoltà registrate nella giunta comunale di Roma sono solo una pallida anticipazione dei problemi ben più complessi che si presenterebbero su scala nazionale. Certo, il M5S può fare (ha già fatto e farà) una vasta campagna acquisti nel libero mercato delle professionalità di governo, imbarcando sul carro del vincitore la folta fila degli aspiranti al ruolo, più o meno improvvisati. Ma come conciliare l'acquisizione di forze esterne con la continuità della disciplina di setta, sotto il comando della Casaleggio Associati?
La seconda incognita, ben più rilevante, riguarda la tenuta del blocco sociale del M5S, nelle sue enormi contraddizioni. Il voto per il M5S del 4 marzo non è la fotocopia del 2013. Non solo, com'è ovvio, per le sue proporzioni, ma anche per il suo significato. Il 25% del 2013 esprimeva principalmente il segno del “vaffa”, del rifiuto dei vecchi partiti. Il 32% del 2018 esprime anche e soprattutto un'attesa, seppure passiva, di cambiamento sociale. Lo sfondamento del reddito di cittadinanza nella popolazione povera del Sud ha questo segno. Si può rispondere a quella domanda, fosse pure in modo distorto, dentro la camicia di forza di una crisi capitalistica irrisolta, e dentro spazi negoziali delle politiche di bilancio in sede UE resi più difficili dallo scenario interno tedesco (crescita dell'opposizione populista alla Merkel) e dagli equilibri europei (fronda rigorista a guida olandese)?
Fare la DC della Terza Repubblica è naturalmente un'ambizione legittima. Ma la DC prosperò non a caso nella stagione del boom, quando la prosperità capitalista offriva ampi margini di spesa clientelare e redistributiva. Fare la DC nell'epoca delle vacche magre è assai più difficile. Tanto più se le bandiere elettorali acchiappavoti (via il Jobs Act! via la Fornero! reddito di cittadinanza!) convivono con le promesse solenni fatte al capitale finanziario in termini di riduzione delle tasse sui profitti, eliminazione dell'Irap, abbattimento di 40 punti percentuali del debito pubblico sul Pil. Le stesse promesse che hanno lastricato la via dell'apertura padronale al M5S, proprio per questo difficilmente rimovibili, ancor più in presenza dell'agguerrita concorrenza salviniana (Flat tax, ecc.).
Tutto lascia credere dunque che un coinvolgimento di governo del M5S metterebbe a dura prova la tenuta del M5S e della sua base sociale. Ma attenzione. Chi pensa che queste difficoltà annunciate andranno di per sé a beneficio della sinistra politica e della sua ripresa rovescia l'ordine dei fattori. Solo una ripresa del movimento operaio sul terreno della lotta di classe può consentire una capitalizzazione a sinistra della crisi possibile del M5S. In caso contrario, in un quadro immutato di ripiegamento delle lotte di massa, una crisi del M5S potrebbe trovare a destra - a determinate condizioni - il proprio sbocco. Persino in una nuova ascesa del salvinismo (e, a rimorchio, di organizzazioni fasciste). Il crollo di consenso del renzismo, in un quadro di prolungata passività sociale, è precipitato a destra, non a sinistra. Perché la stessa dinamica non potrebbe ripetersi col M5S?
Non esiste dunque una dinamica oggettiva delle cose che di per sé possa risolvere i problemi dell'orientamento soggettivo della classe operaia e della sua avanguardia. Affrontare la questione della direzione della classe e del rapporto con la classe è tanto più nel nuovo scenario una questione centrale.
Su questo il Comitato Centrale del nostro partito ha impegnato la propria riflessione, definendo un orientamento generale di azione e proposta politica che approfondirà nella prossima fase.
CLASSE E POPOLO
La prima questione che si pone all'avanguardia di classe è la propria autonomia politica dal populismo, in tutte le sue varianti e declinazioni.
Autonomia politica dal populismo significa più cose.
Innanzitutto una chiara e inequivoca contrapposizione al Movimento 5 Stelle. Il PCL ha fatto su questo versante una battaglia politica di lungo corso, in aperta controtendenza rispetto agli orientamenti ammiccanti verso il grillismo di settori significativi della sinistra riformista e centrista, o addirittura alle politiche di aperto sostegno politico ed elettorale al M5S anche da parte di forze d'avanguardia. A maggior ragione consideriamo fondamentale questa battaglia nel nuovo scenario politico.
Autonomia politica verso il grillismo implica intanto una netta collocazione di opposizione e demarcazione politica. L'esatto contrario della politica oggi seguita da Liberi e Uguali (Grasso) e della stessa Sinistra Italiana (Fratoianni). Che, non contenti della vecchia subalternità verso il PD e il centrosinistra, sbandierata nella stessa campagna elettorale, mimano oggi un'apertura parlamentare al M5S iscrivendosi in modo patetico al futuribile governo Di Maio. È il tentativo disperato di scampare al proprio naufragio provando a rientrare nel gioco politico parlamentare dalla porta di servizio. Una politica non solo suicida per chi la conduce ma disastrosa per il movimento operaio.
Ma autonomia dal populismo è una questione più ampia, che va ben al di là dell'opposizione al M5S. Investe la cultura profonda della sinistra politica e della sua avanguardia.
Il rimpiazzo della classe lavoratrice con il “popolo” ha marciato in questi anni in ambienti diversi della stessa avanguardia. Ha investito settori dell'avanguardia sindacale; ha conosciuto rivestimenti culturali e razionalizzazioni teoriche soprattutto da parte del sovranismo di sinistra (Formenti); ha trovato una sua traduzione nell'esperienza in corso di Potere al Popolo, e nei suoi riferimenti internazionali emergenti (Mélenchon). Oggi l'appello congiunto di Francia Ribelle, Podemos, Bloco de Esquerda “Per una rivoluzione democratica in Europa” (Dichiarazione di Lisbona), nel nome della “sovranità del popolo”, “al servizio del popolo”, ripropone e rilancia lo stesso canovaccio in vista delle elezioni europee.
Il PCL contrasta alla radice questa cultura, e propone a tutte le avanguardie di classe, ovunque collocate, una battaglia comune su questo versante.
Non siamo economicisti, siamo comunisti. Sappiamo che la costruzione di un blocco sociale alternativo deve coinvolgere tutte le domande ed istanze delle masse oppresse, anche non direttamente classiste (sociali, di genere, democratiche, ambientaliste...). Istanze che riguardano non solo il proletariato, ma una più ampia massa di popolo. Ma il punto decisivo è quale classe prende la testa del “popolo” e quale traduzione dà alle sue istanze. Perché il popolo come soggetto indistinto al di sopra delle classi e della loro lotta non esiste nel mondo reale, esiste solo nella metafisica borghese. Nel mondo reale o è la classe dei lavoratori salariati che egemonizza la massa popolare nella dinamica della propria lotta (in funzione, per parte nostra, di una prospettiva anticapitalista), oppure sono e saranno le forze di altre classi a subordinare il popolo al capitale, dissolvendo in esso la classe operaia come massa anonima e atomizzata. Questo è il bivio.
POPULISMO DI SINISTRA E SOVRANISMO. PER UNA POLARIZZAZIONE CLASSISTA NELL'AVANGUARDIA
Questa duplice subordinazione - della classe al “popolo”, e del “popolo” al capitale - può certo avvenire in forme diverse.
Può avvenire in forme reazionarie, come rivela la marea del populismo di destra (lepenismo, salvinismo...), in chiave prevalentemente anti-immigrati. Può avvenire in forme ibride che combinano posture progressiste e vocazione reazionaria, come nel caso del populismo digitale anti-casta a 5 Stelle. Ma può anche avvenire in forme democratiche, come recita il populismo di sinistra di Podemos e Mélenchon, che rimpiazza i confini tra sinistra e destra nel nome della contrapposizione tra oligarchia e popolo, ed espelle la bandiera rossa dalle proprie manifestazioni.
Questo populismo di sinistra non è solo una mistificazione teorica, è un fenomeno politico. Può a volte registrare in forma distorta dinamiche sociali progressive (Podemos è stato anche un sottoprodotto degli indignados, Mélenchon ha anche capitalizzato sul piano elettorale la primavera di lotta del 2016). E tuttavia le subordina alla cultura interclassista del senso comune dominante, che a sua volta contribuisce a nutrire.
In Italia il populismo di sinistra ha allargato il proprio spazio politico - non a caso - grazie alla combinazione di due fattori: un riflusso prolungato del movimento operaio che non ha paragoni tra i paesi imperialisti dell'Unione Europea e il crollo parallelo di Rifondazione Comunista.
Rifiuto dei partiti, demonizzazione della politica nel nome della società civile, sostituzione della classe con la "cittadinanza" progressista o antagonista - in definitiva con il “popolo” - hanno trovato qui la propria radice, col contributo operoso dei dirigenti in disarmo di Rifondazione (blocco giustizialista con Di Pietro, lista civica con Ingroia, lista Tsipras con Barbara Spinelli). Potere al Popolo è l'ultima variante, con declinazione sociale e di sinistra, di questo spartito. Il Fatto Quotidiano, il giornale oggi più diffuso a sinistra, ne è invece la declinazione moderata, pro-grillina e manettara.
Questo spartito del populismo progressista, nelle sue varie forme, non è innocente. È stato al tempo stesso effetto e concausa dello smottamento ulteriore della sinistra politica e dello sfondamento populista anche in settori di avanguardia. La breccia aperta a sinistra dalla tematica del sovranismo è in questo senso emblematica.
Populismo e sovranismo si tengono insieme, anche quando declinati in chiave progressista. Quando si dissolve la classe nel popolo, la bandiera del popolo diventa quella della nazione. E se la nazione è imperialista diventa quella del proprio imperialismo e del proprio Stato. Podemos ha contrapposto la “sovranità democratica” della Spagna al diritto di autodeterminazione della Catalogna. Francia Ribelle di Mélenchon rivendica la proprietà francese della Guyana con tanto di sventolio del tricolore e della tradizione nazionale. Potere al Popolo ha una cifra diversa, ma si richiama pubblicamente a Mélenchon, e ospita al proprio interno le posizioni dichiaratamente sovraniste di Eurostop, che nel dicembre 2016 protestava davanti all'ambasciata tedesca rivendicando la sovranità mutilata dell'Italia.
Resta in ogni caso un fatto abnorme: l'esistenza stessa dell'imperialismo italiano viene rimossa proprio negli anni in cui l'Italia compete con l'imperialismo tedesco nei Balcani e sgomita con l'imperialismo francese in Nord Africa. In compenso, l'economista Bagnai, reverito per anni in tanti i convegni come icona del sovranismo di sinistra (contro i pregiudizi ideologici dei trotskisti), è finito deputato di Salvini. E rivendica, a buon ragione, la continuità dei propri argomenti, candidandosi a un ruolo di cerniera verso M5S e... “sinistra”, nel nome dell'"interesse nazionale" dell'Italia.
Questo mixage di populismo e sovranismo, con i suoi risvolti trasformisti più o meno grotteschi, plasma immaginari e riflessi condizionati diffusi.
È significativo che oggi in Italia persino nel senso comune di estrema sinistra la rappresentazione dell'Italia “schiava di Bruxelles” e della Germania sia spesso più popolare e comprensibile di quella che contrappone operai e padroni. La lotta dei metalmeccanici tedeschi è passata non a caso sotto silenzio. Parallelamente, la fascinazione esercitata dal putinismo in chiave anti-USA - dentro la rappresentazione campista del mondo - è la rimozione non solo della sua realtà reazionaria (e neoimperialista) ma anche delle difficili lotte controcorrente dei proletari russi. Nei fatti la sussunzione indistinta dei salariati nel popolo diventa una linea di frattura silenziosa con i salariati degli altri paesi e con altri popoli oppressi, in subordine al proprio imperialismo o a quello altrui.
L'influenza populista a sinistra pervade peraltro altri terreni, non meno insidiosi. La tesi dell'”immigrazione clandestina” come progetto del capitale globale (Diego Fusaro), l'idea dell'arretratezza della battaglia antifascista (Marco Rizzo) a fronte della centralità della contrapposizione a Bruxelles, l'idea dei diritti civili di omosessuali e transessuali come diritti “borghesi” contrapposti ai diritti sociali (ancora Marco Rizzo), sono tra loro sicuramente diverse, e hanno spazi diversi di diffusione a sinistra, ma hanno tutte una superficie contigua col pensiero corrente dominante, oggi arato da ideologie populiste regressive. Ed hanno aperto a sinistra brecce impensabili dieci anni fa.
La verità è che il superamento della distinzione tra destra e sinistra, caro alle peggiori ideologie reazionarie, diventa la forma ideologica di penetrazione delle categorie della destra nel campo della sinistra e della sua stessa avanguardia. Il populismo di sinistra ne è il veicolo. Più o meno mediato, più o meno inconsapevole, ma non casuale.
Per questa ragione la battaglia classista antipopulista, nel campo stesso dell'avanguardia della classe lavoratrice e dei movimenti sociali, assume una valenza politica centrale. È una battaglia controcorrente per lo sviluppo della coscienza. Segna una prima linea di demarcazione e di raggruppamento che il PCL perseguirà con coerenza. Una linea di polarizzazione classista, anticapitalista, internazionalista, che ricercherà possibili unità d'azione su questo fronte con altre organizzazioni classiste, e che interverrà sulle contraddizioni di Potere al Popolo in un rapporto di interlocuzione aperta con i settori di avanguardia che questo raccoglie.
AVANGUARDIA E MASSA. POPOLO DELLA SINISTRA E POPOLO PENTASTELLATO
La seconda questione che si pone all'avanguardia di classe è quella della proiezione di massa e della proposta di massa.
La rigorosa delimitazione dell'avanguardia da ogni declinazione di populismo non deve significare avanguardismo. Al contrario. Ha senso solo in funzione della più ampia proiezione verso la maggioranza della classe e degli oppressi al fine di sviluppare loro azione di massa e la loro coscienza politica.
Nei dieci anni del grande riflusso del movimento operaio italiano si è allargata la divaricazione tra l'avanguardia e la massa. Tra le decine di migliaia di militanti e attivisti della classe lavoratrice e dei movimenti sociali che in forme diverse preservano una linea di resistenza e conflitto, e la grande massa dei 17 milioni di salariati. In parte (e soprattutto) è una divaricazione fisiologica trascinata dalla dinamica di passivizzazione, ma in parte è stata ed è l'effetto di una cultura minoritaria dei gruppi dirigenti dell'avanguardia (sindacali e politici) che si è sovrapposta a quella dinamica oggettiva e l'ha approfondita: si tratta della propensione all'autorappresenzazione dell'avanguardia come massa, del proprio sciopero di sigla come sciopero “generale”, del proprio movimento o manifestazione come “il” movimento di massa. La gioia ostentata dai dirigenti del Potere al Popolo dopo l'1% dei voti, sullo sfondo dello sfondamento salviniano e grillino, è in fondo un riflesso della stessa cultura.
Questa cultura dell'autorecinzione non è un'espressione di radicalità ma di moderazione. Confessa non solo la rinuncia alla prospettiva di rivoluzione - che è di massa o non è - ma la stessa rinuncia ad una svolta della lotta di classe, a favore del ripiegamento nella propria nicchia (più o meno) “antagonista” in funzione della conservazione del proprio spazio. Una logica tanto più negativa in un quadro di riflusso del movimento di massa e di arretramento profondo della coscienza di classe.
Il PCL esprime un indirizzo di segno opposto, di azione e proposta.
La funzione dell'avanguardia non è quella di separarsi dalla massa, ma di sviluppare la sua coscienza, elevare il livello della sua azione, conquistarne in prospettiva la direzione. Quanto più la massa arretra tanto più è importante preservare ogni possibile spazio e canale di relazione con la massa per contrastare quell'arretramento e creare le condizioni di una ripresa. Così è sempre stato nella storia migliore del movimento operaio, così è oggi in Italia.
Rapportarsi alla massa significa partire innanzitutto dalla sua realtà.
La massa non è una dimensione uniforme ma stratificata. Non solo per condizioni sociali, ma per livelli di coscienza, esperienza, sentimenti, tradizioni. Ciò vale per la massa dei salariati come vale più in generale per le masse oppresse.
Su questo terreno assistiamo in Italia a modificazioni profonde, che il voto del 4 marzo ha registrato. Il popolo della sinistra (quello, per intenderci, che vive una relazione soggettiva, in forme diverse, con la tradizione del movimento operaio) non è scomparso. Nel milione e mezzo di voti riportato dalle liste della sinistra c'è un lascito importante di quella storia. Ma per la prima volta nella storia d'Italia la sinistra politica nel suo insieme scende sotto il 5% dei voti. È un dato unico tra i paesi imperialisti della UE. Misura il ripiegamento del popolo della sinistra in un bacino di avanguardia, sia pure di massa, mentre la grande maggioranza della massa, a partire dai proletari stessi, si rivolge a partiti populisti, soprattutto (ma non solo) al M5S.
Di più. Attorno al M5S è confluito elettoralmente un settore importante dello stesso vecchio popolo della sinistra che, disarmato dall'irriconoscibilità e dalle compromissioni della sinistra, ha cercato e cerca nel M5S un'alternativa, in non pochi casi “una sinistra vera”. Non è certo questo un fatto positivo, non riflette affatto una radicalizzazione nei comportamenti sociali, semmai spesso una passivizzazione ulteriore. Ma resta un fatto. Un fatto da assumere nell'orientamento dell'avanguardia: l'avanguardia di classe, politica e sindacale, non può oggi sviluppare una battaglia di massa nella stessa classe operaia senza parlare alla base di massa del M5S.
In altri termini, nello stesso momento in cui s'impone la più netta opposizione e denuncia controcorrente della realtà del M5S, è necessario tracciare un canale di comunicazione con la base di massa che l'ha votato. Ciò che pone anche un problema di innovazione di linguaggio e comunicazione, non per adattarsi alla rappresentazione populista, ma per combatterla e sradicarla.
LA SELEZIONE DELLE PAROLE D'ORDINE. DISARTICOLARE I BLOCCHI SOCIALI POPULISTI PER UN FRONTE UNICO DI MASSA
Rapportarsi alla massa significa selezionare le parole d'ordine.
La battaglia anticapitalista per il governo dei lavoratori resta l'asse centrale della propaganda rivoluzionaria, cui il PCL riconduce in ultima analisi ogni intervento di massa, assieme alla propaganda, ad essa connessa, delle rivendicazioni transitorie. Ma l'intervento di massa non si riduce alla propaganda (centrale) della rivoluzione sociale. È necessario tracciare un piano di rivendicazioni immediate che traducano e introducano quel programma sapendo parlare e comunicare alla massa e al suo immaginario. Un piano di rivendicazioni che sappiano entrare nelle stesse contraddizioni dei blocchi sociali reazionari col fine di portarle a rottura in funzione di un blocco sociale alternativo.
I poli populisti hanno sfondato nella classe lavoratrice brandendo non solo la clava anti-immigrati o anti-casta, ma anche obiettivi di ampio richiamo sociale, alcuni persino formalmente “classisti”. L'abolizione della Legge Fornero è stata il chiavistello della Lega in settori consistenti della classe operaia del Nord. Il cosiddetto reddito di cittadinanza (reddito minimo a 780 euro) è stata la bandiera del plebiscito grillino presso i disoccupati e la popolazione povera del Meridione. Sia la Lega che il M5S hanno formalmente sventolato nel proprio programma l'abolizione del Jobs Act. Il M5S ha addirittura rivendicato nel proprio programma (poi sbianchettato) la riduzione dell'orario di lavoro. Insomma: per coinvolgere le classi subalterne nei proprio blocco reazionario, i partiti populisti hanno dovuto “legittimare” rivendicazioni progressive, per quanto distorte, facendone bandiera del proprio successo e innescando perciò stesso una aspettativa, per quanto passiva. Al tempo stesso, è del tutto evidente che nessun partito dominante può attuare realmente quelle misure, a partire dal M5S. È una contraddizione potenzialmente esplosiva.
Entrare allora in questa contraddizione da un versante di classe è centrale nel nuovo scenario politico. Non si tratta di alimentare l'aspettativa di massa nei partiti populisti, ma di far leva (anche) su quell'aspettativa ai fini del rilancio di un movimento autonomo di classe e di massa, fuori e contro di essi.
La rivendicazione dell'abrogazione del Jobs Act, e dunque del ripristino dell'articolo 18, può essere rilanciata su basi indipendenti e ricondotta alla parola d'ordine della cancellazione di tutte le leggi di precarizzazione del lavoro.
La parola d'ordine dell'abolizione della legge Fornero (con pensione a 60 anni o 35 anni di lavoro) può essere ripresa e collegata alla rivendicazione della riduzione generale dell'orario di lavoro a 32 ore a parità di paga.
La rivendicazione del reddito minimo (che nella versione a 5 Stelle è strumento di generalizzazione del lavoro precario e sottopagato) può essere trasformata nella parola d'ordine di un vero salario dignitoso per i disoccupati.
Ogni bandiera sociale sollevata strumentalmente dai populisti come strumento di raggiro va ripulita e piegata contro la politica reale e i programmi reali dei populisti. E attorno a queste bandiere va rivendicata una vertenza generale unificante dell'intera classe lavoratrice, della massa dei lavoratori precari e dei disoccupati, preparando le premesse di movimenti reali di lotta. Perché ad esempio non provare a lavorare nel Sud a un movimento reale di disoccupati attorno all'obiettivo di un salario dignitoso, con la creazione e il coordinamento di specifici comitati?
Non si tratta di chiedere al M5S (e tanto meno alla Lega) di mantener fede alle promesse, ciò che significherebbe spacciare per buone quelle promesse, avallare gli equivoci, coprire le illusioni. Si tratta di fare esattamente l'opposto: usare (anche) quelle promesse per denunciare la realtà dell'inganno populista, ricomporre l'unità tra gli sfruttati che il populismo vuole divisi (tra Nord e Sud, tra occupati e disoccupati), preparare il terreno di una svolta di lotta generale, unitaria e di massa, che è e resta la dimensione di lotta necessaria per incidere sui rapporti di forza complessivi, e ricomporre un blocco sociale alternativo.
LA NUOVA IMPORTANZA DELLA BATTAGLIA IN CGIL CONTRO LA BUROCRAZIA SINDACALE
Rapportarsi alla massa significa battersi per una linea di classe in ogni organizzazione di massa.
Dentro il lungo ripiegamento del movimento operaio e la disgregazione della sinistra politica, la CGIL è rimasta di fatto l'unica organizzazione di massa dei lavoratori salariati. La battaglia di classe e anticapitalista all'interno della CGIL ha un'importanza maggiore di ieri.
La burocrazia dirigente della CGIL è la principale responsabile della disfatta del movimento operaio negli anni della grande crisi, e non solo. Non ha solo svenduto le ragioni del lavoro al padronato, dando semaforo verde alla Legge Fornero e aprendo la diga alla deroga dei contratti nazionali di lavoro e al welfare aziendale, ma ha spezzato ogni dinamica di resistenza e conflitto: ha portato su un binario morto il movimento di opposizione al Jobs Act, ha disperso nel nulla il più grande sciopero generale della scuola del dopoguerra, ha sistematicamente bloccato e isolato le mille vertenze di fabbrica portandole una dopo l'altra alla sconfitta. La conseguenza non è stata solo sindacale, ma politica. Lo sfondamento del populismo nella grande massa dei salariati ha nella linea CGIL la principale responsabile.
Questa linea di fondo non è reversibile. È il codice di una burocrazia che ha come bussola la collaborazione organica col padronato, come mostra una volta di più il recente accordo quadro tra sindacati e Confindustria. Le illusioni spese a piene mani in anni recenti nel gruppo dirigente della FIOM (Landini) come possibile contraltare alla burocrazia si sono scontrate con la realtà del gioco burocratico di chi non ha esitato a regalare ai padroni il peggior contratto dei metalmeccanici pur di entrare in Segreteria CGIL e aspirare alla guida della confederazione.
Ma la CGIL non è solo la sua burocrazia. È anche il luogo in cui si concentra la maggioranza delle masse sindacalmente attive, a partire dai salariati dell'industria, senza le quali è difficile immaginare un'azione generale vincente sul terreno della lotta di classe, a maggior ragione una prospettiva anticapitalista. Per questo la battaglia in CGIL non ha e non deve avere un carattere “residuale”: è parte inseparabile tanto più oggi di una battaglia politica di massa per un'altra direzione del movimento operaio.
La battaglia de “Il Sindacato è un'altra cosa” in occasione del prossimo congresso della CGIL è in questo quadro di grande importanza. È una battaglia che non si limita al terreno congressuale. Si tratta di una tendenza classista che si è assunta le proprie responsabilità in campo aperto tra i lavoratori, a partire dall'opposizione nelle assemblee e nei referendum aziendali nei confronti di contratti capestro, come è stato con un ruolo centrale tra i lavoratori metalmeccanici: le percentuali rilevanti del no all'accordo in numerose grandi fabbriche sono soprattutto un risultato di questa battaglia. Oggi questa battaglia di massa trova la sua naturale continuità e coerenza nel congresso CGIL attorno a un documento alternativo. Per questo il PCL sostiene e sosterrà tale battaglia col massimo impegno dei propri militanti e iscritti.
Non si tratta di confinare nella sola CGIL l'impegno sindacale classista di avanguardia, che oggi trova la propria espressione in una pluralità di organizzazioni sindacali. Il nostro stesso partito ha una presenza articolata anche nei sindacati di base, in particolare tra quelli di impostazione più apertamente classista. Ma in ogni sindacato classista poniamo l'esigenza della ricomposizione di un fronte di massa, della rifondazione democratica e classista di un sindacato di massa, di una linea d'azione e programma anticapitalista. Una prospettiva inseparabile dalla battaglia centrale in CGIL contro la sua burocrazia dirigente, oggi condotta dall'opposizione interna a questo sindacato.
Al tempo stesso, nel nuovo scenario politico, la battaglia contro la burocrazia CGIL non può limitarsi al solo piano sindacale. La CGIL è oggi l'unica organizzazione che per il suo insediamento potrebbe attivare un'opposizione di massa al populismo vincente del 4 marzo. L'esatto opposto delle attuali aperture CGIL a un governo M5S-PD, in linea guarda caso con la borghesia italiana. Si tratta allora di chiamare pubblicamente la CGIL alle sue responsabilità politiche di opposizione, a fronte della disgregazione della sinistra; di incalzare le sue contraddizioni sul piano politico; di sviluppare anche per questa via la coscienza dei settori più avanzati della sua base di classe attorno alla necessità di una alternativa politica di direzione del movimento operaio. Che è un aspetto decisivo per la stessa rifondazione sindacale.
Al Nord (ma anche in aree crescenti del centro Italia) il capitalismo dei distretti ha trovato il proprio riferimento nella Flat tax della Lega, che ha costruito attorno a sé un blocco sociale vasto che coinvolge partite Iva colpite dalla crisi ma anche significativi settori di classe operaia industriale spesso dirottati contro gli immigrati e attratti dalla promessa dell'abolizione della Legge Fornero.
Al Sud ha sfondato il M5S con cifre da autentico plebiscito. Un M5S molto legato alla piccola borghesia delle libere professioni, che ha guadagnato la testa dei disoccupati e della popolazione povera del Mezzogiorno attorno alla bandiera del reddito di cittadinanza, ma che ha raggruppato anche la larga maggioranza del lavoro salariato dell'industria, e settori crescenti del pubblico impiego.
Nessuno dei due vincitori (M5S e Lega) è espressione diretta e organica dell'establishment. Entrambi coinvolgono nel loro insieme l'ampia maggioranza del proletariato italiano, e asfaltano la sinistra politica.
UNA CESURA PROFONDA COL PASSATO
Questo scenario segna una cesura profonda col passato.
Il vecchio bipolarismo tra centrodestra e centrosinistra che aveva incardinato la Seconda Repubblica è deceduto dopo lunga agonia. Ma al tempo stesso un nuovo equilibrio non è ancora nato, né si delinea. Né il centrodestra né il M5S appaiono in grado di comporre una propria maggioranza parlamentare, mentre una loro collaborazione di governo (pur ricercata) fatica a trovare uno sbocco.
Il M5S si offre alla borghesia italiana (e internazionale) come nuovo architrave della Terza Repubblica. Ma il suo spazio di manovra politico è limitato dalla combinazione di due rigidità difficilmente aggirabili: la necessità di guidare il governo, l'impossibilità di imbarcare Berlusconi. Dal canto suo, la Lega di Salvini non può scaricare Berlusconi se non amputando la propria forza negoziale e mettendo a rischio l'eredità dei suoi voti. Da qui la prolungata paralisi politica.
Senza entrare in previsioni di dettaglio, si impongono in ogni caso due osservazioni di fondo.
La prima è che difficilmente si prospetta una soluzione di legislatura. Le elezioni politiche anticipate (prima o dopo) sembrano inscritte nel risultato del 4 marzo.
La seconda è che l'Italia è l'unico paese imperialista nel concerto europeo nel quale la soluzione di governo è di fatto affidata a forze “populiste”, esterne al centro politico borghese.
Non sono aspetti irrilevanti, perché misurano una contraddizione evidente: la valenza di destra del voto del 4 marzo rafforza il padronato e la sua offensiva sui luoghi di lavoro, ma la borghesia accentua parallelamente la propria crisi di direzione sul piano politico. E l'accentua nel momento stesso in cui lo scenario mondiale sottolinea gli elementi di fragilità del capitalismo italiano (prossimo esaurimento del Quantitative Easing della BCE, ristrettezza dei margini negoziali di manovra sul terreno delle politiche di bilancio e della crisi bancaria, rischi connessi alla guerra commerciale tra blocchi imperialisti per un paese esportatore come l'Italia...).
L'INCOGNITA M5S NELLA TERZA REPUBBLICA
A tutto questo si aggiunge un'incognita che va al di là della soluzione contingente della crisi politica. Il M5S è in grado di reggere sulle proprie spalle le responsabilità di pilastro della Terza Repubblica? Sicuramente è determinato a rivendicare quel ruolo, al prezzo del più grottesco trasformismo. Ma è attrezzato a reggere gli oneri enormi che l'esercizio di quel ruolo comporta?
È possibile. È possibile che la funzione plasmi l'organo in tempi più accelerati di quanto si pensi. Ma non sarà facile, per ragioni diverse tra loro combinate.
Il M5S non ha una classe dirigente sperimentata nell'amministrazione dello Stato borghese. Le difficoltà registrate nella giunta comunale di Roma sono solo una pallida anticipazione dei problemi ben più complessi che si presenterebbero su scala nazionale. Certo, il M5S può fare (ha già fatto e farà) una vasta campagna acquisti nel libero mercato delle professionalità di governo, imbarcando sul carro del vincitore la folta fila degli aspiranti al ruolo, più o meno improvvisati. Ma come conciliare l'acquisizione di forze esterne con la continuità della disciplina di setta, sotto il comando della Casaleggio Associati?
La seconda incognita, ben più rilevante, riguarda la tenuta del blocco sociale del M5S, nelle sue enormi contraddizioni. Il voto per il M5S del 4 marzo non è la fotocopia del 2013. Non solo, com'è ovvio, per le sue proporzioni, ma anche per il suo significato. Il 25% del 2013 esprimeva principalmente il segno del “vaffa”, del rifiuto dei vecchi partiti. Il 32% del 2018 esprime anche e soprattutto un'attesa, seppure passiva, di cambiamento sociale. Lo sfondamento del reddito di cittadinanza nella popolazione povera del Sud ha questo segno. Si può rispondere a quella domanda, fosse pure in modo distorto, dentro la camicia di forza di una crisi capitalistica irrisolta, e dentro spazi negoziali delle politiche di bilancio in sede UE resi più difficili dallo scenario interno tedesco (crescita dell'opposizione populista alla Merkel) e dagli equilibri europei (fronda rigorista a guida olandese)?
Fare la DC della Terza Repubblica è naturalmente un'ambizione legittima. Ma la DC prosperò non a caso nella stagione del boom, quando la prosperità capitalista offriva ampi margini di spesa clientelare e redistributiva. Fare la DC nell'epoca delle vacche magre è assai più difficile. Tanto più se le bandiere elettorali acchiappavoti (via il Jobs Act! via la Fornero! reddito di cittadinanza!) convivono con le promesse solenni fatte al capitale finanziario in termini di riduzione delle tasse sui profitti, eliminazione dell'Irap, abbattimento di 40 punti percentuali del debito pubblico sul Pil. Le stesse promesse che hanno lastricato la via dell'apertura padronale al M5S, proprio per questo difficilmente rimovibili, ancor più in presenza dell'agguerrita concorrenza salviniana (Flat tax, ecc.).
Tutto lascia credere dunque che un coinvolgimento di governo del M5S metterebbe a dura prova la tenuta del M5S e della sua base sociale. Ma attenzione. Chi pensa che queste difficoltà annunciate andranno di per sé a beneficio della sinistra politica e della sua ripresa rovescia l'ordine dei fattori. Solo una ripresa del movimento operaio sul terreno della lotta di classe può consentire una capitalizzazione a sinistra della crisi possibile del M5S. In caso contrario, in un quadro immutato di ripiegamento delle lotte di massa, una crisi del M5S potrebbe trovare a destra - a determinate condizioni - il proprio sbocco. Persino in una nuova ascesa del salvinismo (e, a rimorchio, di organizzazioni fasciste). Il crollo di consenso del renzismo, in un quadro di prolungata passività sociale, è precipitato a destra, non a sinistra. Perché la stessa dinamica non potrebbe ripetersi col M5S?
Non esiste dunque una dinamica oggettiva delle cose che di per sé possa risolvere i problemi dell'orientamento soggettivo della classe operaia e della sua avanguardia. Affrontare la questione della direzione della classe e del rapporto con la classe è tanto più nel nuovo scenario una questione centrale.
Su questo il Comitato Centrale del nostro partito ha impegnato la propria riflessione, definendo un orientamento generale di azione e proposta politica che approfondirà nella prossima fase.
CLASSE E POPOLO
La prima questione che si pone all'avanguardia di classe è la propria autonomia politica dal populismo, in tutte le sue varianti e declinazioni.
Autonomia politica dal populismo significa più cose.
Innanzitutto una chiara e inequivoca contrapposizione al Movimento 5 Stelle. Il PCL ha fatto su questo versante una battaglia politica di lungo corso, in aperta controtendenza rispetto agli orientamenti ammiccanti verso il grillismo di settori significativi della sinistra riformista e centrista, o addirittura alle politiche di aperto sostegno politico ed elettorale al M5S anche da parte di forze d'avanguardia. A maggior ragione consideriamo fondamentale questa battaglia nel nuovo scenario politico.
Autonomia politica verso il grillismo implica intanto una netta collocazione di opposizione e demarcazione politica. L'esatto contrario della politica oggi seguita da Liberi e Uguali (Grasso) e della stessa Sinistra Italiana (Fratoianni). Che, non contenti della vecchia subalternità verso il PD e il centrosinistra, sbandierata nella stessa campagna elettorale, mimano oggi un'apertura parlamentare al M5S iscrivendosi in modo patetico al futuribile governo Di Maio. È il tentativo disperato di scampare al proprio naufragio provando a rientrare nel gioco politico parlamentare dalla porta di servizio. Una politica non solo suicida per chi la conduce ma disastrosa per il movimento operaio.
Ma autonomia dal populismo è una questione più ampia, che va ben al di là dell'opposizione al M5S. Investe la cultura profonda della sinistra politica e della sua avanguardia.
Il rimpiazzo della classe lavoratrice con il “popolo” ha marciato in questi anni in ambienti diversi della stessa avanguardia. Ha investito settori dell'avanguardia sindacale; ha conosciuto rivestimenti culturali e razionalizzazioni teoriche soprattutto da parte del sovranismo di sinistra (Formenti); ha trovato una sua traduzione nell'esperienza in corso di Potere al Popolo, e nei suoi riferimenti internazionali emergenti (Mélenchon). Oggi l'appello congiunto di Francia Ribelle, Podemos, Bloco de Esquerda “Per una rivoluzione democratica in Europa” (Dichiarazione di Lisbona), nel nome della “sovranità del popolo”, “al servizio del popolo”, ripropone e rilancia lo stesso canovaccio in vista delle elezioni europee.
Il PCL contrasta alla radice questa cultura, e propone a tutte le avanguardie di classe, ovunque collocate, una battaglia comune su questo versante.
Non siamo economicisti, siamo comunisti. Sappiamo che la costruzione di un blocco sociale alternativo deve coinvolgere tutte le domande ed istanze delle masse oppresse, anche non direttamente classiste (sociali, di genere, democratiche, ambientaliste...). Istanze che riguardano non solo il proletariato, ma una più ampia massa di popolo. Ma il punto decisivo è quale classe prende la testa del “popolo” e quale traduzione dà alle sue istanze. Perché il popolo come soggetto indistinto al di sopra delle classi e della loro lotta non esiste nel mondo reale, esiste solo nella metafisica borghese. Nel mondo reale o è la classe dei lavoratori salariati che egemonizza la massa popolare nella dinamica della propria lotta (in funzione, per parte nostra, di una prospettiva anticapitalista), oppure sono e saranno le forze di altre classi a subordinare il popolo al capitale, dissolvendo in esso la classe operaia come massa anonima e atomizzata. Questo è il bivio.
POPULISMO DI SINISTRA E SOVRANISMO. PER UNA POLARIZZAZIONE CLASSISTA NELL'AVANGUARDIA
Questa duplice subordinazione - della classe al “popolo”, e del “popolo” al capitale - può certo avvenire in forme diverse.
Può avvenire in forme reazionarie, come rivela la marea del populismo di destra (lepenismo, salvinismo...), in chiave prevalentemente anti-immigrati. Può avvenire in forme ibride che combinano posture progressiste e vocazione reazionaria, come nel caso del populismo digitale anti-casta a 5 Stelle. Ma può anche avvenire in forme democratiche, come recita il populismo di sinistra di Podemos e Mélenchon, che rimpiazza i confini tra sinistra e destra nel nome della contrapposizione tra oligarchia e popolo, ed espelle la bandiera rossa dalle proprie manifestazioni.
Questo populismo di sinistra non è solo una mistificazione teorica, è un fenomeno politico. Può a volte registrare in forma distorta dinamiche sociali progressive (Podemos è stato anche un sottoprodotto degli indignados, Mélenchon ha anche capitalizzato sul piano elettorale la primavera di lotta del 2016). E tuttavia le subordina alla cultura interclassista del senso comune dominante, che a sua volta contribuisce a nutrire.
In Italia il populismo di sinistra ha allargato il proprio spazio politico - non a caso - grazie alla combinazione di due fattori: un riflusso prolungato del movimento operaio che non ha paragoni tra i paesi imperialisti dell'Unione Europea e il crollo parallelo di Rifondazione Comunista.
Rifiuto dei partiti, demonizzazione della politica nel nome della società civile, sostituzione della classe con la "cittadinanza" progressista o antagonista - in definitiva con il “popolo” - hanno trovato qui la propria radice, col contributo operoso dei dirigenti in disarmo di Rifondazione (blocco giustizialista con Di Pietro, lista civica con Ingroia, lista Tsipras con Barbara Spinelli). Potere al Popolo è l'ultima variante, con declinazione sociale e di sinistra, di questo spartito. Il Fatto Quotidiano, il giornale oggi più diffuso a sinistra, ne è invece la declinazione moderata, pro-grillina e manettara.
Questo spartito del populismo progressista, nelle sue varie forme, non è innocente. È stato al tempo stesso effetto e concausa dello smottamento ulteriore della sinistra politica e dello sfondamento populista anche in settori di avanguardia. La breccia aperta a sinistra dalla tematica del sovranismo è in questo senso emblematica.
Populismo e sovranismo si tengono insieme, anche quando declinati in chiave progressista. Quando si dissolve la classe nel popolo, la bandiera del popolo diventa quella della nazione. E se la nazione è imperialista diventa quella del proprio imperialismo e del proprio Stato. Podemos ha contrapposto la “sovranità democratica” della Spagna al diritto di autodeterminazione della Catalogna. Francia Ribelle di Mélenchon rivendica la proprietà francese della Guyana con tanto di sventolio del tricolore e della tradizione nazionale. Potere al Popolo ha una cifra diversa, ma si richiama pubblicamente a Mélenchon, e ospita al proprio interno le posizioni dichiaratamente sovraniste di Eurostop, che nel dicembre 2016 protestava davanti all'ambasciata tedesca rivendicando la sovranità mutilata dell'Italia.
Resta in ogni caso un fatto abnorme: l'esistenza stessa dell'imperialismo italiano viene rimossa proprio negli anni in cui l'Italia compete con l'imperialismo tedesco nei Balcani e sgomita con l'imperialismo francese in Nord Africa. In compenso, l'economista Bagnai, reverito per anni in tanti i convegni come icona del sovranismo di sinistra (contro i pregiudizi ideologici dei trotskisti), è finito deputato di Salvini. E rivendica, a buon ragione, la continuità dei propri argomenti, candidandosi a un ruolo di cerniera verso M5S e... “sinistra”, nel nome dell'"interesse nazionale" dell'Italia.
Questo mixage di populismo e sovranismo, con i suoi risvolti trasformisti più o meno grotteschi, plasma immaginari e riflessi condizionati diffusi.
È significativo che oggi in Italia persino nel senso comune di estrema sinistra la rappresentazione dell'Italia “schiava di Bruxelles” e della Germania sia spesso più popolare e comprensibile di quella che contrappone operai e padroni. La lotta dei metalmeccanici tedeschi è passata non a caso sotto silenzio. Parallelamente, la fascinazione esercitata dal putinismo in chiave anti-USA - dentro la rappresentazione campista del mondo - è la rimozione non solo della sua realtà reazionaria (e neoimperialista) ma anche delle difficili lotte controcorrente dei proletari russi. Nei fatti la sussunzione indistinta dei salariati nel popolo diventa una linea di frattura silenziosa con i salariati degli altri paesi e con altri popoli oppressi, in subordine al proprio imperialismo o a quello altrui.
L'influenza populista a sinistra pervade peraltro altri terreni, non meno insidiosi. La tesi dell'”immigrazione clandestina” come progetto del capitale globale (Diego Fusaro), l'idea dell'arretratezza della battaglia antifascista (Marco Rizzo) a fronte della centralità della contrapposizione a Bruxelles, l'idea dei diritti civili di omosessuali e transessuali come diritti “borghesi” contrapposti ai diritti sociali (ancora Marco Rizzo), sono tra loro sicuramente diverse, e hanno spazi diversi di diffusione a sinistra, ma hanno tutte una superficie contigua col pensiero corrente dominante, oggi arato da ideologie populiste regressive. Ed hanno aperto a sinistra brecce impensabili dieci anni fa.
La verità è che il superamento della distinzione tra destra e sinistra, caro alle peggiori ideologie reazionarie, diventa la forma ideologica di penetrazione delle categorie della destra nel campo della sinistra e della sua stessa avanguardia. Il populismo di sinistra ne è il veicolo. Più o meno mediato, più o meno inconsapevole, ma non casuale.
Per questa ragione la battaglia classista antipopulista, nel campo stesso dell'avanguardia della classe lavoratrice e dei movimenti sociali, assume una valenza politica centrale. È una battaglia controcorrente per lo sviluppo della coscienza. Segna una prima linea di demarcazione e di raggruppamento che il PCL perseguirà con coerenza. Una linea di polarizzazione classista, anticapitalista, internazionalista, che ricercherà possibili unità d'azione su questo fronte con altre organizzazioni classiste, e che interverrà sulle contraddizioni di Potere al Popolo in un rapporto di interlocuzione aperta con i settori di avanguardia che questo raccoglie.
AVANGUARDIA E MASSA. POPOLO DELLA SINISTRA E POPOLO PENTASTELLATO
La seconda questione che si pone all'avanguardia di classe è quella della proiezione di massa e della proposta di massa.
La rigorosa delimitazione dell'avanguardia da ogni declinazione di populismo non deve significare avanguardismo. Al contrario. Ha senso solo in funzione della più ampia proiezione verso la maggioranza della classe e degli oppressi al fine di sviluppare loro azione di massa e la loro coscienza politica.
Nei dieci anni del grande riflusso del movimento operaio italiano si è allargata la divaricazione tra l'avanguardia e la massa. Tra le decine di migliaia di militanti e attivisti della classe lavoratrice e dei movimenti sociali che in forme diverse preservano una linea di resistenza e conflitto, e la grande massa dei 17 milioni di salariati. In parte (e soprattutto) è una divaricazione fisiologica trascinata dalla dinamica di passivizzazione, ma in parte è stata ed è l'effetto di una cultura minoritaria dei gruppi dirigenti dell'avanguardia (sindacali e politici) che si è sovrapposta a quella dinamica oggettiva e l'ha approfondita: si tratta della propensione all'autorappresenzazione dell'avanguardia come massa, del proprio sciopero di sigla come sciopero “generale”, del proprio movimento o manifestazione come “il” movimento di massa. La gioia ostentata dai dirigenti del Potere al Popolo dopo l'1% dei voti, sullo sfondo dello sfondamento salviniano e grillino, è in fondo un riflesso della stessa cultura.
Questa cultura dell'autorecinzione non è un'espressione di radicalità ma di moderazione. Confessa non solo la rinuncia alla prospettiva di rivoluzione - che è di massa o non è - ma la stessa rinuncia ad una svolta della lotta di classe, a favore del ripiegamento nella propria nicchia (più o meno) “antagonista” in funzione della conservazione del proprio spazio. Una logica tanto più negativa in un quadro di riflusso del movimento di massa e di arretramento profondo della coscienza di classe.
Il PCL esprime un indirizzo di segno opposto, di azione e proposta.
La funzione dell'avanguardia non è quella di separarsi dalla massa, ma di sviluppare la sua coscienza, elevare il livello della sua azione, conquistarne in prospettiva la direzione. Quanto più la massa arretra tanto più è importante preservare ogni possibile spazio e canale di relazione con la massa per contrastare quell'arretramento e creare le condizioni di una ripresa. Così è sempre stato nella storia migliore del movimento operaio, così è oggi in Italia.
Rapportarsi alla massa significa partire innanzitutto dalla sua realtà.
La massa non è una dimensione uniforme ma stratificata. Non solo per condizioni sociali, ma per livelli di coscienza, esperienza, sentimenti, tradizioni. Ciò vale per la massa dei salariati come vale più in generale per le masse oppresse.
Su questo terreno assistiamo in Italia a modificazioni profonde, che il voto del 4 marzo ha registrato. Il popolo della sinistra (quello, per intenderci, che vive una relazione soggettiva, in forme diverse, con la tradizione del movimento operaio) non è scomparso. Nel milione e mezzo di voti riportato dalle liste della sinistra c'è un lascito importante di quella storia. Ma per la prima volta nella storia d'Italia la sinistra politica nel suo insieme scende sotto il 5% dei voti. È un dato unico tra i paesi imperialisti della UE. Misura il ripiegamento del popolo della sinistra in un bacino di avanguardia, sia pure di massa, mentre la grande maggioranza della massa, a partire dai proletari stessi, si rivolge a partiti populisti, soprattutto (ma non solo) al M5S.
Di più. Attorno al M5S è confluito elettoralmente un settore importante dello stesso vecchio popolo della sinistra che, disarmato dall'irriconoscibilità e dalle compromissioni della sinistra, ha cercato e cerca nel M5S un'alternativa, in non pochi casi “una sinistra vera”. Non è certo questo un fatto positivo, non riflette affatto una radicalizzazione nei comportamenti sociali, semmai spesso una passivizzazione ulteriore. Ma resta un fatto. Un fatto da assumere nell'orientamento dell'avanguardia: l'avanguardia di classe, politica e sindacale, non può oggi sviluppare una battaglia di massa nella stessa classe operaia senza parlare alla base di massa del M5S.
In altri termini, nello stesso momento in cui s'impone la più netta opposizione e denuncia controcorrente della realtà del M5S, è necessario tracciare un canale di comunicazione con la base di massa che l'ha votato. Ciò che pone anche un problema di innovazione di linguaggio e comunicazione, non per adattarsi alla rappresentazione populista, ma per combatterla e sradicarla.
LA SELEZIONE DELLE PAROLE D'ORDINE. DISARTICOLARE I BLOCCHI SOCIALI POPULISTI PER UN FRONTE UNICO DI MASSA
Rapportarsi alla massa significa selezionare le parole d'ordine.
La battaglia anticapitalista per il governo dei lavoratori resta l'asse centrale della propaganda rivoluzionaria, cui il PCL riconduce in ultima analisi ogni intervento di massa, assieme alla propaganda, ad essa connessa, delle rivendicazioni transitorie. Ma l'intervento di massa non si riduce alla propaganda (centrale) della rivoluzione sociale. È necessario tracciare un piano di rivendicazioni immediate che traducano e introducano quel programma sapendo parlare e comunicare alla massa e al suo immaginario. Un piano di rivendicazioni che sappiano entrare nelle stesse contraddizioni dei blocchi sociali reazionari col fine di portarle a rottura in funzione di un blocco sociale alternativo.
I poli populisti hanno sfondato nella classe lavoratrice brandendo non solo la clava anti-immigrati o anti-casta, ma anche obiettivi di ampio richiamo sociale, alcuni persino formalmente “classisti”. L'abolizione della Legge Fornero è stata il chiavistello della Lega in settori consistenti della classe operaia del Nord. Il cosiddetto reddito di cittadinanza (reddito minimo a 780 euro) è stata la bandiera del plebiscito grillino presso i disoccupati e la popolazione povera del Meridione. Sia la Lega che il M5S hanno formalmente sventolato nel proprio programma l'abolizione del Jobs Act. Il M5S ha addirittura rivendicato nel proprio programma (poi sbianchettato) la riduzione dell'orario di lavoro. Insomma: per coinvolgere le classi subalterne nei proprio blocco reazionario, i partiti populisti hanno dovuto “legittimare” rivendicazioni progressive, per quanto distorte, facendone bandiera del proprio successo e innescando perciò stesso una aspettativa, per quanto passiva. Al tempo stesso, è del tutto evidente che nessun partito dominante può attuare realmente quelle misure, a partire dal M5S. È una contraddizione potenzialmente esplosiva.
Entrare allora in questa contraddizione da un versante di classe è centrale nel nuovo scenario politico. Non si tratta di alimentare l'aspettativa di massa nei partiti populisti, ma di far leva (anche) su quell'aspettativa ai fini del rilancio di un movimento autonomo di classe e di massa, fuori e contro di essi.
La rivendicazione dell'abrogazione del Jobs Act, e dunque del ripristino dell'articolo 18, può essere rilanciata su basi indipendenti e ricondotta alla parola d'ordine della cancellazione di tutte le leggi di precarizzazione del lavoro.
La parola d'ordine dell'abolizione della legge Fornero (con pensione a 60 anni o 35 anni di lavoro) può essere ripresa e collegata alla rivendicazione della riduzione generale dell'orario di lavoro a 32 ore a parità di paga.
La rivendicazione del reddito minimo (che nella versione a 5 Stelle è strumento di generalizzazione del lavoro precario e sottopagato) può essere trasformata nella parola d'ordine di un vero salario dignitoso per i disoccupati.
Ogni bandiera sociale sollevata strumentalmente dai populisti come strumento di raggiro va ripulita e piegata contro la politica reale e i programmi reali dei populisti. E attorno a queste bandiere va rivendicata una vertenza generale unificante dell'intera classe lavoratrice, della massa dei lavoratori precari e dei disoccupati, preparando le premesse di movimenti reali di lotta. Perché ad esempio non provare a lavorare nel Sud a un movimento reale di disoccupati attorno all'obiettivo di un salario dignitoso, con la creazione e il coordinamento di specifici comitati?
Non si tratta di chiedere al M5S (e tanto meno alla Lega) di mantener fede alle promesse, ciò che significherebbe spacciare per buone quelle promesse, avallare gli equivoci, coprire le illusioni. Si tratta di fare esattamente l'opposto: usare (anche) quelle promesse per denunciare la realtà dell'inganno populista, ricomporre l'unità tra gli sfruttati che il populismo vuole divisi (tra Nord e Sud, tra occupati e disoccupati), preparare il terreno di una svolta di lotta generale, unitaria e di massa, che è e resta la dimensione di lotta necessaria per incidere sui rapporti di forza complessivi, e ricomporre un blocco sociale alternativo.
LA NUOVA IMPORTANZA DELLA BATTAGLIA IN CGIL CONTRO LA BUROCRAZIA SINDACALE
Rapportarsi alla massa significa battersi per una linea di classe in ogni organizzazione di massa.
Dentro il lungo ripiegamento del movimento operaio e la disgregazione della sinistra politica, la CGIL è rimasta di fatto l'unica organizzazione di massa dei lavoratori salariati. La battaglia di classe e anticapitalista all'interno della CGIL ha un'importanza maggiore di ieri.
La burocrazia dirigente della CGIL è la principale responsabile della disfatta del movimento operaio negli anni della grande crisi, e non solo. Non ha solo svenduto le ragioni del lavoro al padronato, dando semaforo verde alla Legge Fornero e aprendo la diga alla deroga dei contratti nazionali di lavoro e al welfare aziendale, ma ha spezzato ogni dinamica di resistenza e conflitto: ha portato su un binario morto il movimento di opposizione al Jobs Act, ha disperso nel nulla il più grande sciopero generale della scuola del dopoguerra, ha sistematicamente bloccato e isolato le mille vertenze di fabbrica portandole una dopo l'altra alla sconfitta. La conseguenza non è stata solo sindacale, ma politica. Lo sfondamento del populismo nella grande massa dei salariati ha nella linea CGIL la principale responsabile.
Questa linea di fondo non è reversibile. È il codice di una burocrazia che ha come bussola la collaborazione organica col padronato, come mostra una volta di più il recente accordo quadro tra sindacati e Confindustria. Le illusioni spese a piene mani in anni recenti nel gruppo dirigente della FIOM (Landini) come possibile contraltare alla burocrazia si sono scontrate con la realtà del gioco burocratico di chi non ha esitato a regalare ai padroni il peggior contratto dei metalmeccanici pur di entrare in Segreteria CGIL e aspirare alla guida della confederazione.
Ma la CGIL non è solo la sua burocrazia. È anche il luogo in cui si concentra la maggioranza delle masse sindacalmente attive, a partire dai salariati dell'industria, senza le quali è difficile immaginare un'azione generale vincente sul terreno della lotta di classe, a maggior ragione una prospettiva anticapitalista. Per questo la battaglia in CGIL non ha e non deve avere un carattere “residuale”: è parte inseparabile tanto più oggi di una battaglia politica di massa per un'altra direzione del movimento operaio.
La battaglia de “Il Sindacato è un'altra cosa” in occasione del prossimo congresso della CGIL è in questo quadro di grande importanza. È una battaglia che non si limita al terreno congressuale. Si tratta di una tendenza classista che si è assunta le proprie responsabilità in campo aperto tra i lavoratori, a partire dall'opposizione nelle assemblee e nei referendum aziendali nei confronti di contratti capestro, come è stato con un ruolo centrale tra i lavoratori metalmeccanici: le percentuali rilevanti del no all'accordo in numerose grandi fabbriche sono soprattutto un risultato di questa battaglia. Oggi questa battaglia di massa trova la sua naturale continuità e coerenza nel congresso CGIL attorno a un documento alternativo. Per questo il PCL sostiene e sosterrà tale battaglia col massimo impegno dei propri militanti e iscritti.
Non si tratta di confinare nella sola CGIL l'impegno sindacale classista di avanguardia, che oggi trova la propria espressione in una pluralità di organizzazioni sindacali. Il nostro stesso partito ha una presenza articolata anche nei sindacati di base, in particolare tra quelli di impostazione più apertamente classista. Ma in ogni sindacato classista poniamo l'esigenza della ricomposizione di un fronte di massa, della rifondazione democratica e classista di un sindacato di massa, di una linea d'azione e programma anticapitalista. Una prospettiva inseparabile dalla battaglia centrale in CGIL contro la sua burocrazia dirigente, oggi condotta dall'opposizione interna a questo sindacato.
Al tempo stesso, nel nuovo scenario politico, la battaglia contro la burocrazia CGIL non può limitarsi al solo piano sindacale. La CGIL è oggi l'unica organizzazione che per il suo insediamento potrebbe attivare un'opposizione di massa al populismo vincente del 4 marzo. L'esatto opposto delle attuali aperture CGIL a un governo M5S-PD, in linea guarda caso con la borghesia italiana. Si tratta allora di chiamare pubblicamente la CGIL alle sue responsabilità politiche di opposizione, a fronte della disgregazione della sinistra; di incalzare le sue contraddizioni sul piano politico; di sviluppare anche per questa via la coscienza dei settori più avanzati della sua base di classe attorno alla necessità di una alternativa politica di direzione del movimento operaio. Che è un aspetto decisivo per la stessa rifondazione sindacale.
Marco
Ferrando
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