Nei prossimi
giorni è probabile un attacco militare in Siria da parte dell'imperialismo USA,
dell'imperialismo francese, dell'imperialismo inglese, con l'appoggio attivo
dello Stato d'Israele e dell'Arabia Saudita. La motivazione pubblica
dell'attacco annunciato, cioè l'uso di armi chimiche da parte di Assad per
espugnare la città di Douma, è un pretesto falso e ridicolo. Non per il fatto
che Assad disdegni necessariamente le armi chimiche, come vorrebbero tanti
cantori del suo presunto progressismo (il regime dispotico di Damasco è stato
ed è capace di tutto). Ma perché in ogni caso i macellai dell'imperialismo
“democratico” - che per lungo tempo hanno oltretutto sostenuto Assad - non si
muovono certo per ragioni ideali, come dimostra il calvario di morte, orrori e
distruzione di venticinque anni di guerre “umanitarie” in Medio Oriente.
L'unica bussola degli imperialismi sono i propri interessi, economici e
strategici. Ogni loro mossa è in funzione di questi interessi. Nel campo della
propaganda, della diplomazia, delle bombe.
IMPERIALISMI A CONFRONTO
Nel ginepraio del Medio Oriente si agitano oggi interessi imperialisti profondamente diversi e tra loro conflittuali. La guerra siriana ne è l'epicentro.
Due sono le cordate imperialiste che si confrontano. La prima è quella imperniata sull'imperialismo USA: ne fanno parte i suoi alleati imperialisti europei, la potenza israeliana, il regime saudita. La seconda si raccoglie attorno agli interessi dell'imperialismo russo: comprende il regime teocratico iraniano e il regime siriano. Due campi di forze, gli uni contro gli altri armati, che si contendono la spartizione del Medio Oriente. Due campi che tendono a sussumere nella propria orbita, a scapito del campo rivale, ogni ogni altro interesse esistente in regione. L'imperialismo USA non ha esitato ad usare le forze kurde come propria fanteria nella “guerra all'ISIS”, salvo negare loro ogni diritto nazionale. L'imperialismo russo non ha esitato a incunearsi nelle contraddizioni interne al campo della NATO, tra USA e Turchia, incoraggiando le ambizioni di Erdogan e rifornendolo dei moderni sistemi antimissile.
La disfatta delle rivoluzioni arabe del 2011 con la deriva reazionaria che ne è seguita ha fatto da sfondo a questa contesa. Lo stesso sviluppo dell'ISIS tra il 2014 e il 2016 è figlio di questo scenario.
LA TEMPORANEA “VITTORIA” DI PUTIN
Questa contesa ha incoronato un (temporaneo) vincitore: il blocco russo-iraniano.
L'intervento militare della Russia e dell'Iran è stato determinante per garantire la tenuta del regime di Assad e il suo recupero territoriale. Per entrambi un indubbio successo.
L'Iran ha consolidato una propria area di influenza lungo l'asse sciita, seppur pagando sul fronte interno i costi sociali di questa espansione (vedi i movimenti di opposizione al regime nel 2017).
Ma soprattutto la Russia di Putin ha incassato il vantaggio maggiore. Ha rinverdito le proprie ambizioni di potenza internazionale, ben al di là di quei confini “regionali” in cui gli USA volevano relegarla. Ha rilanciato una propria presenza diretta in Medio Oriente, sedendo a capotavola della sua spartizione (vertici di Astana). Ha guadagnato una posizione negoziale preziosa da spendere su ogni altro terreno e contenzioso (Ucraina). Ha difeso e consolidato il proprio sbocco sul Mediterraneo, con risvolti economici e militari (Tartus e Latakia). Ha infine incassato sul fronte interno il dividendo elettorale patriottico (successo di Russia Unita alle elezioni presidenziali).
Le basi materiali dell'imperialismo russo sono fragili sul fronte economico interno. Ma il regime di Putin ha di fatto capitalizzato a proprio vantaggio la grande crisi dell'egemonia USA in Medio Oriente. Dopo la disfatta in Iraq e l'impantanamento in Afghanistan, l'imperialismo USA non ha potuto rilanciare una presenza diretta significativa di proprie truppe nella regione: presenza incompatibile con la tenuta del consenso interno, e con i margini economici ristretti dalla crisi capitalistica. Da qui il tentativo di Obama di sganciarsi dal Medio Oriente con una manovra combinata (annuncio della ritirata dall'Afghanistan, accordo di pace con l'Iran), in funzione di un ribilanciamento strategico contro la Cina sul Pacifico. Ma l'operazione è clamorosamente fallita, aprendo un vuoto che la guerra siriana ha dilatato. La Russia si è prontamente inserita in questo spazio, aggravando la crisi politica USA.
LA CONTROFFENSIVA DELL'IMPERIALISMO USA
Oggi il nuovo corso di Donald Trump vuole recuperare il terreno perduto sulla scacchiera del Medio Oriente (e non solo). L'attacco militare in Siria si colloca in questo quadro.
Naturalmente influiscono su questa scelta anche motivazioni interne, come la volontà di Trump di reagire alla guerra che gli muove la FBI e una parte rilevante dell'establishment, con una ricercata drammatizzazione del confronto internazionale, capace di guadagnargli il consenso dell'opinione pubblica sciovinista e di ricomporre attorno al Presidente gli apparati dello Stato.
Ma soprattutto pesa l'interesse internazionale dell'imperialismo USA.
Donald Trump non punta alla guerra contro la Russia (come non puntava alla guerra contro la Corea). Gli stessi vertici del Pentagono consigliano prudenza al Presidente. E il Presidente continua oltretutto ad alternare minacce alla Russia e annunci di ritiro dalla Siria. Un quadro contraddittorio e instabile, che in ogni caso non definisce ancora il vero obiettivo politico dell'operazione militare annunciata: rovesciare Assad o inviare come un anno fa un semplice segnale di avvertimento, poco più che simbolico? Probabilmente né l'una né l'altra cosa. Gli USA vogliono semplicemente riequilibrare i rapporti di forza in Medio Oriente. I bombardamenti annunciati mirano a indebolire Assad, minare la stabilizzazione del regime, ridimensionare la vittoria russa nella partita siriana, rilanciare il potere negoziale americano nella definizione dei nuovi assetti ed aree di influenza. Natura e tempi dell'operazione militare saranno calibrati in base a questa esigenza.
Tre sono i fattori che concorrono in questa direzione.
In primo luogo, l'attacco in Siria serve a rispondere alle pressioni incalzanti dei propri alleati regionali: Israele e Arabia Saudita. Il nuovo corso di Trump punta a ricostruire gli assi strategici fondamentali dell'imperialismo USA con tali paesi (riconoscimento di Gerusalemme come capitale sionista, e nuovo riarmo di Ryad). Ma sia Israele che Arabia Saudita sono nemici mortali dell'Iran, oggi rafforzato dall'asse vincente con la Russia. Sia Israele che Arabia Saudita chiedono dunque agli USA di arginare con la propria forza militare l'espansione iraniana e di cestinare gli accordi con l'Iran stretti da Obama. Trump accoglie questa richiesta alleata.
In secondo luogo, l'attacco in Siria vuole parlare alla Turchia, alleato NATO. La frattura con Erdogan e le nuove relazioni della Turchia con Mosca sono un fattore di massimo allarme per gli USA. Impedire che queste relazioni si trasformino in una vera e propria ricollocazione di campo della Turchia assume valenza strategica. L'iniziativa militare contro Assad, e la conseguente polarizzazione dello scontro, vuole bloccare quella possibile saldatura scompaginando il quadro, e provando a recuperare l'”alleato” turco (con esiti incerti).
Infine l'iniziativa USA mira a riaffermare la direzione americana del fronte imperialista europeo. Un fronte imperialista allineatosi agli USA nelle sanzioni alla Russia (guerra diplomatica attivata dalla Gran Bretagna) ma percorso in realtà da contraddizioni profonde. Tra una Francia che vorrebbe rilanciare una propria autonoma grandeur imperialista (propria iniziativa in Nord Africa, minaccia di un autonomo intervento militare contro l'espansionismo turco nel nord siriano, rivendicazione di un proprio possibile attacco anti-Assad in caso di rinuncia USA...). Un imperialismo tedesco che cerca in ogni modo di preservare un proprio spazio di manovra autonomo verso la Russia e la Cina, in funzione dei propri interessi. Un imperialismo italiano che vorrebbe salvaguardare le relazioni commerciali con la Russia, ma dispone di una forza negoziale assai più limitata (anche per via della crisi politico istituzionale interna) e dunque obtorto collo segue gli USA. Chiedendo in cambio il sostegno americano nel contenzioso con l'imperialismo francese in Libia e in Africa.
Con l'attacco in Siria, Trump chiede a tutti i riottosi alleati della NATO un pronto riallineamento attorno agli USA, quale prima potenza mondiale. 'America first' significa anche questo.
CONTRO LA GUERRA, DA UN PUNTO DI VISTA CLASSISTA E INTERNAZIONALISTA
Da questo quadro generale emerge un dato inequivocabile. A confrontarsi oggi in Siria non sono la reazione e il progresso. Sono due diversi blocchi imperialisti e le potenze regionali loro alleate (o che sfruttano il loro conflitto), entrambi nemici dei lavoratori e dei popoli oppressi.
Non è certo fronte del progresso l'imperialismo “democratico” USA ed europeo, come vorrebbero settori delle leadership kurde nell'attesa di un proprio riconoscimento come debito di riconoscenza per la guerra all'ISIS. Ma non lo è neppure il neoimperialismo russo del bonaparte Putin, alleato dei peggiori nazionalismi xenofobi europei, o il regime reazionario di Teheran che impicca i sindacalisti e opprime le donne nelle forme peggiori. La verità è che entrambi i blocchi arruolano i lavoratori in un conflitto che non li riguarda, che ne fa carne da macello, e che viene per di più scaricato sul loro portafoglio.
Contro i due fronti imperialisti si tratta di ricostruire il punto di vista indipendente della classe lavoratrice e la sua solidarietà di classe internazionale. Ovunque. In Medio Oriente, dove solo la classe lavoratrice può dare uno sbocco progressivo alle aspirazioni delle masse oppresse, ponendosi alla testa delle rivendicazioni nazionali del popolo palestinese, del popolo kurdo, della nazione araba, contro ogni imperialismo e contro lo Stato sionista, nella prospettiva di una federazione socialista del Medio Oriente. Nei paesi imperialisti, dove solo il proletariato può rovesciare la dittatura di quella piccola minoranza di capitalisti e di banchieri che non solo sfrutta i propri operai ma opprime altri popoli e partecipa al saccheggio del mondo, anche attraverso le guerre.
PER UNA MOBILITAZIONE IMMEDIATA CONTRO LA GUERRA
È necessaria una immediata mobilitazione contro la guerra sul nostro fronte interno. Il nemico principale è in casa nostra. Negli Stati Uniti, nei paesi europei, nel “nostro” Paese. È urgente una mobilitazione larga, unitaria, di tutte le sinistre - politiche, sindacali, associative, di movimento - che rivendichi l'opposizione incondizionata all'attacco imperialista in Siria, il rifiuto di concedere le basi militari all'attacco, il rifiuto della NATO. Una mobilitazione che denunci il rapido e scontato allineamento agli USA di tutti i partiti borghesi che si candidano al governo del capitalismo italiano, a partire dal M5S, il più atlantista di tutti. Una mobilitazione che chieda l'iniziativa reale del movimento operaio e sindacale contro la guerra, ben al di là di platoniche prese di distanza.
Dentro questa mobilitazione unitaria porteremo il nostro punto di vista coerentemente classista, internazionalista, contro tutti gli interessi imperialisti che si muovono in Medio Oriente (e non solo). Disponibili a pubbliche iniziative comuni con tutte le forze che vogliano valorizzare insieme questo autonomo punto di vista classista.
IMPERIALISMI A CONFRONTO
Nel ginepraio del Medio Oriente si agitano oggi interessi imperialisti profondamente diversi e tra loro conflittuali. La guerra siriana ne è l'epicentro.
Due sono le cordate imperialiste che si confrontano. La prima è quella imperniata sull'imperialismo USA: ne fanno parte i suoi alleati imperialisti europei, la potenza israeliana, il regime saudita. La seconda si raccoglie attorno agli interessi dell'imperialismo russo: comprende il regime teocratico iraniano e il regime siriano. Due campi di forze, gli uni contro gli altri armati, che si contendono la spartizione del Medio Oriente. Due campi che tendono a sussumere nella propria orbita, a scapito del campo rivale, ogni ogni altro interesse esistente in regione. L'imperialismo USA non ha esitato ad usare le forze kurde come propria fanteria nella “guerra all'ISIS”, salvo negare loro ogni diritto nazionale. L'imperialismo russo non ha esitato a incunearsi nelle contraddizioni interne al campo della NATO, tra USA e Turchia, incoraggiando le ambizioni di Erdogan e rifornendolo dei moderni sistemi antimissile.
La disfatta delle rivoluzioni arabe del 2011 con la deriva reazionaria che ne è seguita ha fatto da sfondo a questa contesa. Lo stesso sviluppo dell'ISIS tra il 2014 e il 2016 è figlio di questo scenario.
LA TEMPORANEA “VITTORIA” DI PUTIN
Questa contesa ha incoronato un (temporaneo) vincitore: il blocco russo-iraniano.
L'intervento militare della Russia e dell'Iran è stato determinante per garantire la tenuta del regime di Assad e il suo recupero territoriale. Per entrambi un indubbio successo.
L'Iran ha consolidato una propria area di influenza lungo l'asse sciita, seppur pagando sul fronte interno i costi sociali di questa espansione (vedi i movimenti di opposizione al regime nel 2017).
Ma soprattutto la Russia di Putin ha incassato il vantaggio maggiore. Ha rinverdito le proprie ambizioni di potenza internazionale, ben al di là di quei confini “regionali” in cui gli USA volevano relegarla. Ha rilanciato una propria presenza diretta in Medio Oriente, sedendo a capotavola della sua spartizione (vertici di Astana). Ha guadagnato una posizione negoziale preziosa da spendere su ogni altro terreno e contenzioso (Ucraina). Ha difeso e consolidato il proprio sbocco sul Mediterraneo, con risvolti economici e militari (Tartus e Latakia). Ha infine incassato sul fronte interno il dividendo elettorale patriottico (successo di Russia Unita alle elezioni presidenziali).
Le basi materiali dell'imperialismo russo sono fragili sul fronte economico interno. Ma il regime di Putin ha di fatto capitalizzato a proprio vantaggio la grande crisi dell'egemonia USA in Medio Oriente. Dopo la disfatta in Iraq e l'impantanamento in Afghanistan, l'imperialismo USA non ha potuto rilanciare una presenza diretta significativa di proprie truppe nella regione: presenza incompatibile con la tenuta del consenso interno, e con i margini economici ristretti dalla crisi capitalistica. Da qui il tentativo di Obama di sganciarsi dal Medio Oriente con una manovra combinata (annuncio della ritirata dall'Afghanistan, accordo di pace con l'Iran), in funzione di un ribilanciamento strategico contro la Cina sul Pacifico. Ma l'operazione è clamorosamente fallita, aprendo un vuoto che la guerra siriana ha dilatato. La Russia si è prontamente inserita in questo spazio, aggravando la crisi politica USA.
LA CONTROFFENSIVA DELL'IMPERIALISMO USA
Oggi il nuovo corso di Donald Trump vuole recuperare il terreno perduto sulla scacchiera del Medio Oriente (e non solo). L'attacco militare in Siria si colloca in questo quadro.
Naturalmente influiscono su questa scelta anche motivazioni interne, come la volontà di Trump di reagire alla guerra che gli muove la FBI e una parte rilevante dell'establishment, con una ricercata drammatizzazione del confronto internazionale, capace di guadagnargli il consenso dell'opinione pubblica sciovinista e di ricomporre attorno al Presidente gli apparati dello Stato.
Ma soprattutto pesa l'interesse internazionale dell'imperialismo USA.
Donald Trump non punta alla guerra contro la Russia (come non puntava alla guerra contro la Corea). Gli stessi vertici del Pentagono consigliano prudenza al Presidente. E il Presidente continua oltretutto ad alternare minacce alla Russia e annunci di ritiro dalla Siria. Un quadro contraddittorio e instabile, che in ogni caso non definisce ancora il vero obiettivo politico dell'operazione militare annunciata: rovesciare Assad o inviare come un anno fa un semplice segnale di avvertimento, poco più che simbolico? Probabilmente né l'una né l'altra cosa. Gli USA vogliono semplicemente riequilibrare i rapporti di forza in Medio Oriente. I bombardamenti annunciati mirano a indebolire Assad, minare la stabilizzazione del regime, ridimensionare la vittoria russa nella partita siriana, rilanciare il potere negoziale americano nella definizione dei nuovi assetti ed aree di influenza. Natura e tempi dell'operazione militare saranno calibrati in base a questa esigenza.
Tre sono i fattori che concorrono in questa direzione.
In primo luogo, l'attacco in Siria serve a rispondere alle pressioni incalzanti dei propri alleati regionali: Israele e Arabia Saudita. Il nuovo corso di Trump punta a ricostruire gli assi strategici fondamentali dell'imperialismo USA con tali paesi (riconoscimento di Gerusalemme come capitale sionista, e nuovo riarmo di Ryad). Ma sia Israele che Arabia Saudita sono nemici mortali dell'Iran, oggi rafforzato dall'asse vincente con la Russia. Sia Israele che Arabia Saudita chiedono dunque agli USA di arginare con la propria forza militare l'espansione iraniana e di cestinare gli accordi con l'Iran stretti da Obama. Trump accoglie questa richiesta alleata.
In secondo luogo, l'attacco in Siria vuole parlare alla Turchia, alleato NATO. La frattura con Erdogan e le nuove relazioni della Turchia con Mosca sono un fattore di massimo allarme per gli USA. Impedire che queste relazioni si trasformino in una vera e propria ricollocazione di campo della Turchia assume valenza strategica. L'iniziativa militare contro Assad, e la conseguente polarizzazione dello scontro, vuole bloccare quella possibile saldatura scompaginando il quadro, e provando a recuperare l'”alleato” turco (con esiti incerti).
Infine l'iniziativa USA mira a riaffermare la direzione americana del fronte imperialista europeo. Un fronte imperialista allineatosi agli USA nelle sanzioni alla Russia (guerra diplomatica attivata dalla Gran Bretagna) ma percorso in realtà da contraddizioni profonde. Tra una Francia che vorrebbe rilanciare una propria autonoma grandeur imperialista (propria iniziativa in Nord Africa, minaccia di un autonomo intervento militare contro l'espansionismo turco nel nord siriano, rivendicazione di un proprio possibile attacco anti-Assad in caso di rinuncia USA...). Un imperialismo tedesco che cerca in ogni modo di preservare un proprio spazio di manovra autonomo verso la Russia e la Cina, in funzione dei propri interessi. Un imperialismo italiano che vorrebbe salvaguardare le relazioni commerciali con la Russia, ma dispone di una forza negoziale assai più limitata (anche per via della crisi politico istituzionale interna) e dunque obtorto collo segue gli USA. Chiedendo in cambio il sostegno americano nel contenzioso con l'imperialismo francese in Libia e in Africa.
Con l'attacco in Siria, Trump chiede a tutti i riottosi alleati della NATO un pronto riallineamento attorno agli USA, quale prima potenza mondiale. 'America first' significa anche questo.
CONTRO LA GUERRA, DA UN PUNTO DI VISTA CLASSISTA E INTERNAZIONALISTA
Da questo quadro generale emerge un dato inequivocabile. A confrontarsi oggi in Siria non sono la reazione e il progresso. Sono due diversi blocchi imperialisti e le potenze regionali loro alleate (o che sfruttano il loro conflitto), entrambi nemici dei lavoratori e dei popoli oppressi.
Non è certo fronte del progresso l'imperialismo “democratico” USA ed europeo, come vorrebbero settori delle leadership kurde nell'attesa di un proprio riconoscimento come debito di riconoscenza per la guerra all'ISIS. Ma non lo è neppure il neoimperialismo russo del bonaparte Putin, alleato dei peggiori nazionalismi xenofobi europei, o il regime reazionario di Teheran che impicca i sindacalisti e opprime le donne nelle forme peggiori. La verità è che entrambi i blocchi arruolano i lavoratori in un conflitto che non li riguarda, che ne fa carne da macello, e che viene per di più scaricato sul loro portafoglio.
Contro i due fronti imperialisti si tratta di ricostruire il punto di vista indipendente della classe lavoratrice e la sua solidarietà di classe internazionale. Ovunque. In Medio Oriente, dove solo la classe lavoratrice può dare uno sbocco progressivo alle aspirazioni delle masse oppresse, ponendosi alla testa delle rivendicazioni nazionali del popolo palestinese, del popolo kurdo, della nazione araba, contro ogni imperialismo e contro lo Stato sionista, nella prospettiva di una federazione socialista del Medio Oriente. Nei paesi imperialisti, dove solo il proletariato può rovesciare la dittatura di quella piccola minoranza di capitalisti e di banchieri che non solo sfrutta i propri operai ma opprime altri popoli e partecipa al saccheggio del mondo, anche attraverso le guerre.
PER UNA MOBILITAZIONE IMMEDIATA CONTRO LA GUERRA
È necessaria una immediata mobilitazione contro la guerra sul nostro fronte interno. Il nemico principale è in casa nostra. Negli Stati Uniti, nei paesi europei, nel “nostro” Paese. È urgente una mobilitazione larga, unitaria, di tutte le sinistre - politiche, sindacali, associative, di movimento - che rivendichi l'opposizione incondizionata all'attacco imperialista in Siria, il rifiuto di concedere le basi militari all'attacco, il rifiuto della NATO. Una mobilitazione che denunci il rapido e scontato allineamento agli USA di tutti i partiti borghesi che si candidano al governo del capitalismo italiano, a partire dal M5S, il più atlantista di tutti. Una mobilitazione che chieda l'iniziativa reale del movimento operaio e sindacale contro la guerra, ben al di là di platoniche prese di distanza.
Dentro questa mobilitazione unitaria porteremo il nostro punto di vista coerentemente classista, internazionalista, contro tutti gli interessi imperialisti che si muovono in Medio Oriente (e non solo). Disponibili a pubbliche iniziative comuni con tutte le forze che vogliano valorizzare insieme questo autonomo punto di vista classista.
Partito
Comunista dei Lavoratori
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