“Siamo
l'unica oasi dell'America Latina” aveva dichiarato dieci giorni fa il
Presidente del Cile Sebastián Piñera. E tutti gli osservatori internazionali a
partire dai mercati finanziari non avevano ragione di dubitarne. Crescita annua
del 3%, “riduzione della povertà estrema”, allargamento della classe media,
tutti gli indicatori convenzionali sembravano avvalorare l'immagine di un paese
politicamente stabile con una base sociale d'appoggio in espansione. Ma era
solo una rappresentazione capovolta della realtà. Dopo quarant'anni di
politiche sociali iperliberiste dettate dalla scuola dei Chicago boys, il Cile
era un'oasi solo per il grande capitale, americano ed europeo. L'allargamento
della classe media ha convissuto per decenni con l'impoverimento di ampi strati
popolari e con la crescita abnorme delle disuguaglianze, in un paese in cui il
costo della vita è europeo ma i salari sono miserabili, le pensioni da fame,
gli studenti sono indebitati a livelli americani, il servizio sanitario è
inaccessibile per milioni di cileni. Questo è il grande deposito di dinamite su
cui Piñera sedeva. Ora è esploso.
Il
fiammifero che ha acceso la miccia è apparentemente banale: l'aumento ulteriore
del 3,7% del prezzo del biglietto della metropolitana, dopo continui rincari.
Migliaia di giovani hanno risposto con lo scavalcamento dei tornelli e il
rifiuto di pagare. La polizia ha reagito con la tipica ottusità di regime:
criminalizzazione e repressione, ciò che ha innescato il dilagare della rivolta
sociale e il suo carattere incontrollabile. Il Presidente ha aggravato la
situazione domenica sera con una dichiarazione demenziale: “Siamo in guerra
contro un nemico subdolo e potente che minaccia la sicurezza pubblica”. Da qui il
ricorso al pugno di ferro, con la convinzione di intimidire la piazza.
Coprifuoco, stato di emergenza nella capitale e nelle principali città, 20.000
militari nelle strade a supporto della polizia con relativi blindati. Il
bilancio è di 18 morti (molti crivellati dalle armi da fuoco), di centinaia di
feriti, ma anche di sequestri, stupri e torture, come denunciato e documentato
dalle organizzazioni democratiche cilene. In un paese in cui certo non manca la
professionalità militare. Ma questo ricorso alla repressione non solo non ha
isolato le prime proteste ma le ha generalizzate in tutto il Cile, e
soprattutto ha allagato a macchia d'olio la base sociale della mobilitazione.
Tra domenica e martedì una autentica sollevazione popolare ha attraversato il
Cile. L'onda d'urto è stata talmente dirompente che martedì sera il Presidente
Piñera ha dovuto cambiare spartito. Dalla minaccia militare alla “richiesta di
perdono” a reti unificate per la propria «incapacità di cogliere sino in fondo
le ragioni sociali della protesta», e dunque l'invito al «dialogo nazionale per
riportare il Cile alla pace», salvo mantenere i militari per le strade e il
relativo stato di emergenza. Una contraddizione talmente plateale da privare la
postura dialogante di ogni credibilità. Salvo un paio di partiti borghesi,
persino l'opposizione liberale ha dovuto smarcarsi dal Presidente, e così ha
fatto il Partito Socialista di Bachelet, partito chiave del precedente governo,
nella sorpresa generale.
Finito con
le spalle al muro, e senza sapere che fare, Sebastián Piñera ha giocato
mercoledì sera la carta delle concessioni sociali: aumento del 20% delle
pensioni, un'assicurazione sanitaria pubblica, un reddito minimo garantito di
500 dollari al mese, la cancellazione degli aumenti dell'elettricità, l'aumento
dell'aliquota fiscale per i redditi superiori a 11.000 dollari al mese, persino
l'immancabile riduzione degli stipendi dei parlamentari. Non poco, per molti
aspetti, per un governo iperliberista: la misura della forza della sollevazione.
La prova, se ve n'era bisogno, che solo la minaccia di una rivoluzione può
strappare riforme, non altro. Ma le concessioni sociali di un regime screditato
sono apparse alle grandi masse del Cile per quello che sono: la misura della
fragilità del potere, il fallimento della repressione, un ulteriore
incoraggiamento alla ribellione.
Mercoledì,
mentre Piñera giocava la carta sociale, il movimento operaio ha fatto il suo
ingresso prepotente sulla scena. Fino ad allora la rivolta popolare aveva un
carattere indistinto, una sorta di magma sociale acefalo popolato da una
miriade di gruppi spontanei, collettivi popolari di quartiere, settori
diseredati delle periferie. Con l'ingresso sulla scena della classe operaia, il
quadro cambia. L'ingresso in sciopero prima dei portuali e poi dei minatori ha
finito col trascinare con sé il movimento operaio cileno. I minatori del rame
sono la spina dorsale del proletariato cileno, i portuali detengono una grande
tradizione sindacale. La loro irruzione nella lotta ha indotto la burocrazia
sindacale della CUT a proclamare lo sciopero generale, attorno alla
rivendicazione della fine dello stato di emergenza e della punizione dei
responsabili dei crimini, quali condizione dell'apertura del dialogo con
Piñera. È il tentativo della burocrazia di recuperare il controllo della
mobilitazione sociale e di rafforzare il proprio peso negoziale d'apparato. Ma
al di là del gioco burocratico, l'ingresso della classe operaia sulla scena può
dare alla mobilitazione di massa una direzione e un baricentro sociale, con
potenzialità dirompenti.
Il ricambio
generazionale è un'ulteriore chiave di lettura degli avvenimenti. La giovane
generazione che occupa le strade e le piazze non ha conosciuto il trauma della
dittatura militare di Pinochet, se non attraverso le memorie della generazione
precedente. Anche per questo non è segnata dal riflesso condizionato della
paura. E questo vale anche per la giovane classe operaia cilena. Inoltre, il
controllo dei vecchi apparati riformisti sul movimento di massa è l'ombra di
quello che fu mezzo secolo fa. Allora il Partito Comunista stalinista di
Corvalan e il Partito Socialista di Altamirano godevano di una forza capillare
e un radicamento enorme. Se ne servirono per subordinare la rivoluzione cilena
al cappio della collaborazione con la borghesia in cambio di riforme sociali,
ciò che spianò la strada al fallimento di Allende e al golpe fascista del
generale Pinochet, lo stesso cui Allende aveva consegnato la... tutela della
democrazia. Oggi la socialdemocrazia cilena è usurata dalla lunga pratica del
governo di centrosinistra di Bachelet (2014-2018) che ha governato il Cile nel
rispetto ossequioso del FMI e delle sue ricette, mentre il Partito Comunista,
fedele alla sua tradizione, si è compromesso nel governo Bachelet e nella sua
rovina. Il disincanto di massa verso i vecchi partiti di governo e di
opposizione ha questa radice. Tutto ciò allarga il potenziale della rivoluzione
cilena, ma pone perciò stesso il nodo cruciale della sua direzione.
Seguiremo la
dinamica degli avvenimenti, e ci occuperemo in un prossimo articolo del
confronto interno alla sinistra cilena, sul ruolo dei marxisti rivoluzionari,
sul dibattito relativo alle parole d'ordine che l'attraversa. Ma a partire
dalla difesa della seconda rivoluzione cilena, e per costruire la direzione
politica che le mancò mezzo secolo fa.
Partito
Comunista dei Lavoratori
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