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mercoledì 31 gennaio 2018

RENZI, BERLUSCONI, SALVINI, DI MAIO: IL FRONTE UNICO CONTRO I SALARIATI



La campagna elettorale è formalmente agli inizi, ma ha già rivelato la sua cifra: un fronte unico di tutti i partiti dominanti contro i lavoratori salariati.
Renzi, Berlusconi, Salvini, Di Maio, apparentemente gli uni contro gli altri armati, sono in realtà accomunati da due indirizzi di fondo: una ulteriore riduzione delle tasse per i capitalisti e il rispetto dell'Unione Europea e dei suoi vincoli. La risultante del combinato disposto è una sola: un'ulteriore aggressione al lavoro salariato, privato e pubblico.
Basta semplicemente far di conto, sfrondando la confezione delle parole e andando a guardare qual è la merce.

In fatto di tasse, Renzi rilancia sulle decontribuzioni ai padroni, Berlusconi e Salvini gareggiano su una flat tax la più bassa possibile, Di Maio offre di fatto maggiore libertà di evasione (“basta controlli fiscali”) e abolizione dell'Irap. Ma parliamo in ogni caso di una nuova massiccia detassazione del capitale, in linea con la tendenza degli ultimi trent'anni, e col nuovo corso della politica fiscale sul piano mondiale (riforma fiscale di Trump, May, Macron...).
Anche in fatto di UE, tutti giocano alla “rinegoziazione delle regole” con posture diverse: Renzi offre un allungamento dei tempi del Fiscal Compact, Berlusconi e Salvini si contendono la tutela del made in Italy dalla concorrenza straniera, Di Maio chiede la revisione del tetto di deficit del 3%. Ma tutti sono paladini dell'Unione Europea capitalista, inclusi i sovranisti (ugualmente truffaldini) di ieri. E quindi tutti accettano il pilastro strutturale su cui la UE si fonda: la riduzione progressiva del debito pubblico, attraverso il suo pagamento, a garanzia delle banche creditrici (nazionali ed estere).

Bene. Qual è la risultante annunciata di un'ulteriore e massiccia riduzione delle tasse per i capitalisti, combinata con la prosecuzione del pagamento del debito pubblico (per di più a fronte del prevedibile innalzamento dei tassi di interesse sui titoli a seguito della cessazione della pioggia d'oro della BCE)? È molto semplice: una nuova massiccia aggressione alla voci della spesa sociale, in fatto di pensioni, sanità, istruzione, protezioni sociali. Non c'è altra risposta possibile. Perché anche la logica ha i suoi diritti. Se i capitalisti pagano ancor meno tasse (si calcola dai 40 ai 150 miliardi in meno, a seconda delle proposte in campo) e i banchieri continuano a incassare i 70/80 miliardi annui di soli interessi sul debito (in probabile rialzo), non ci può essere altra fonte di finanziamento che il continuo smantellamento delle tutele sociali. Altro che abolizione della Fornero, come blatera quell'ipocrita di Salvini. Altro che le pensioni di 1000 euro a tutte le casalinghe, come promette Berlusconi (in una logica iperfamilista). Altro che il reddito di cittadinanza a cinque stelle (in cambio della disponibilità al lavoro precario)! Il programma reale dei partiti dominanti è l'opposto di ciò che si annuncia nella televendita elettorale. E persino se una piccola parte di quelle misure venisse simbolicamente abbozzata sarebbe comunque a spese dei lavoratori salariati, il vero bancomat dell'intero sistema capitalista. Quelli che reggono sulla propria schiena l'80% del prelievo fiscale. Quelli che vivono ogni giorno la miseria di uno sfruttamento sempre più intollerabile, a garanzia dei profitti di borsa di grandi azionisti e parassiti, mai tanto prosperi e sempre meno tassati.

Questa truffa a reti unificate va contrastata. Ma lo può fare con le carte in regola solo una sinistra rivoluzionaria. Non una sinistra già compromessa nelle politiche dominanti, che omaggia Tsipras, che si limita all'antiliberismo. Ma una sinistra che si batte per il rovesciamento del capitalismo, per un governo dei lavoratori, per un'alternativa socialista. L'unica reale alternativa.


Partito Comunista dei Lavoratori

lunedì 29 gennaio 2018

IL MERCOLEDÌ DA LEONI DEL SINDACO DE MAGISTRIS

Il sindaco del "popolo" contro gli operai





Ci sono a volte piccoli episodi nella vicenda politica che finiscono con assumere un significato che li trascende. È il caso del “mercoledì da leoni” di Luigi De Magistris.

Mercoledì 24 gennaio il sindaco di Napoli dichiarava il proprio sostegno alla lista elettorale di Potere al Popolo. Nessuna sorpresa. Il centro sociale Je so' pazzo, promotore di Potere al Popolo, ha appoggiato da sempre De Magistris (privatizzazioni delle municipalizzate incluse). Del tutto naturale dunque un atto di riconoscenza, sia pure formulato con distacco istituzionale.

Sta di fatto che lo stesso mercoledì, a Napoli, gli operai delle pulizie della ditta Samir intraprendevano uno sciopero contro il mancato pagamento degli stipendi, bloccando i trasporti della città. Uno sciopero duro e compatto, con occupazione di binari ferroviari, che è stato oggetto di cariche poliziesche piuttosto pesanti con diversi feriti tra gli scioperanti. Cariche giustamente denunciate da sindacalisti USB.

Anche De Magistris è intervenuto. Contro la polizia, penserà qualcuno. No, contro gli operai. E con un comunicato durissimo che denuncia lo sciopero dei lavoratori Samir come «azione criminale», dichiara testualmente tolleranza zero contro gli scioperanti, annuncia provvedimenti punitivi ad ogni livello nei loro confronti. Gli operai della Samir, già in lotta per la paga, dovranno ora vedersela in sede giudiziaria. Una vergogna.

L'episodio è piccolo, naturalmente, ma il suo significato è grande. Dimostra che un populismo elettoralista che rimuove il riferimento di classe nel nome del 'popolo' è esposto per sua natura a equivoci esplosivi, al di là di ogni illusione. De Magistris si è posto a tutore del popolo indistinto dei propri elettori contro la lotta e gli interessi dei salariati. Ha agito come garante dell'ordine pubblico della città contro uno sciopero che lo ha turbato. Con toni e argomenti francamente identici a quelli usati dal PD e dalle destre, ma in più con la diretta minaccia verso gli operai consentita dal suo potere istituzionale. Del resto, è il naturale riflesso condizionato del giustizialismo dipietrista e legalista da cui De Magistris proviene.

Il PCL non si aspetta nulla di diverso dal chavismo in salsa napoletana, a cui hanno capitolato tante sinistre (anche in ambienti di estrema sinistra). Ma invece chi pensa alla giunta De Magistris come metafora del “potere del popolo” ha forse una occasione in più per riflettere, ben al di là del perimetro partenopeo. Non può esistere un potere del popolo al di sopra delle classi. Il potere, ogni potere, o è dei lavoratori o è contro di loro. È in fondo la ragione di una sinistra rivoluzionaria.


Partito Comunista dei Lavoratori

venerdì 26 gennaio 2018

CONTRO LA GUERRA DI ERDOGAN



La Turchia di nuovo all'assalto dei kurdi

L'aggressione militare della Turchia alle forze kurde siriane segna un nuovo capitolo dello scenario di guerra della regione. L'obiettivo dichiarato del regime di Erdogan è annientare alla radice ogni possibile germe di autodeterminazione kurda, ma anche allargare manu militari la propria area d'influenza in Siria per rafforzare il peso negoziale turco al tavolo della spartizione. Non è un caso che l'aggressione avvenga alla vigilia del cosiddetto dialogo nazionale siriano, previsto a Sochi a fine gennaio.

L'aggressione turca si avvale di due fattori importanti. Il primo è la chiara copertura della Russia di Putin, che cerca di capitalizzare a proprio vantaggio ogni frizione interna al campo della NATO, e che ottiene in cambio da Erdogan il nuovo gasdotto in Turchia, rotta preziosa verso l'Europa attraverso il Mar Nero. Il secondo è la paralisi imbarazzata dell'imperialismo USA, che prima ha usato le forze kurde come propria fanteria nella guerra siriana, ma ora ha una evidente difficoltà a contrapporsi alla Turchia - alleato NATO - in termini politici e tanto più militari. «Gli Stati Uniti riconoscono pienamente il diritto legittimo della Turchia di proteggere i propri cittadini da elementi terroristi che lanciano i propri attacchi dalla Siria», ha dichiarato non a caso il segretario di Stato USA Rex Tillerson. La preoccupazione di non consegnare la Turchia alla Russia è manifesta.

I kurdi sono dunque ancora una volta la vittima designata degli interessi delle potenze imperialiste vecchie e nuove, e delle ambizioni neo-ottomane del regime turco. L'idea che la questione kurda possa essere risolta dai balletti delle diplomazie, magari come ricompensa del sangue versato contro l'ISIS, riceve l'ennesima smentita.
Esattamente come un secolo, fa le potenze imperialiste e regionali sono unicamente interessate al grande gioco della spartizione del Medio Oriente, contro i kurdi come contro i palestinesi. L'esperienza drammatica dei fatti dimostra una volta di più che i diritti di autodeterminazione nazionale del popolo kurdo, come del popolo palestinese, possono essere realizzati solo per via rivoluzionaria. Solo legando le aspirazioni delle nazioni oppresse alla rottura con l'imperialismo, con il sionismo, con tutti i regimi reazionari della regione, nella prospettiva storica di una federazione socialista del Medio Oriente.

In questo quadro, e da questa angolazione, difendiamo oggi le forze kurde dall'aggressione turca.


Partito Comunista dei Lavoratori

giovedì 25 gennaio 2018

COMUNICATO STAMPA

COMUNICATO STAMPA
Le vittime ed i feriti del gravissimo incidente ferroviario di questa mattina a Pioltello sono sulla coscienza di chi decide continui tagli ai costi del trasporto ferroviario locale, privilegiando solo l'alta velocità e l'immagine della azienda.
Solo un governo dei lavoratori, solo un controllo di comitati di lavoratori delle ferrovie ed utenti del trasporto pubblico locale potrà evitare in futuro che la logica del profitto produca altre vittime.

Partito Comunista dei lavoratori
Coordinamento regionale della Lombardia


martedì 23 gennaio 2018

PER UNA SINISTRA RIVOLUZIONARIA - PAVIA

Una lista classista e anticapitalista, una lista unica nel panorama delle forze esistenti  anche sul versante della sinistra politica.


dalla Provincia Pavese del 23 gennaio 2018

sinistra rivoluzionaria

Anfossi, Vanetti, Boggiani e Coda in lista
PAVIA
La lista Per una sinistra rivoluzionaria, nata dall'unione tra Partito comunista dei lavoratori e Sinistra classe e rivoluzione candida al collegio uninominale Mauro Vanetti per la Camera a Pavia, Simona Coda per Vigevano Voghera, Andrea Boggiani per Lodi e Francesco Anfossi, Pcl Pavia, per il Senato. Vanetti, ingegnere informatico, ha 38 anni, da sempre impegnato in politica, si è dedicato con Senza Slot alla lotta al gioco d'azzardo. Simona Coda, di Scaldasole, ha 30 anni e lavora in una società informatica, è stata coordinatrice provinciale dei Giovani Comunisti. Francesco Anfossi, 62 anni, impiegato in pensione, ex sindacalista Cgil dei bancari ed ex di Democrazia proletaria. Andrea Boggiani, 48 anni, inferimere al San Matteo e sindacalista. In programma uscita dall'UE, rifiuto del pagamento del debito, nazionalizzazione delle banche, abolizione del Jobs Act, del finanziamento pubblico alle scuole private e dell'obiezione di coscienza sull'aborto, ripristino dell'articolo 18, salario minimo a 1200 euro, matrimonio tra persone dello stesso sesso. (a.gh.)

sabato 20 gennaio 2018

mercoledì 17 gennaio 2018

TSIPRAS COLPISCE IL DIRITTO DI SCIOPERO



Il governo Syriza-Anel ha varato pochi giorni fa due misure esemplari: da un lato la messa all'asta delle case sequestrate per debiti verso le banche; dall'altro una legge antisciopero che dichiara illegali gli scioperi promossi da assemblee dei lavoratori cui non partecipino la maggioranza degli iscritti ai sindacati. Uno scandalo. Hanno qualcosa da dire al riguardo Liberi e Uguali e Potere al Popolo?

Potere al Popolo ha presentato due giorni or sono la propria lista al Parlamento europeo, ospitato dal gruppo del GUE/Sinistra Europea, capeggiata da Tsipras. Ha sentito il dovere di solidarizzare pubblicamente con gli scioperi in corso in tutta la Grecia contro le misure del governo Tsipras, oppure ha onorato col proprio silenzio il padrone di casa contro i lavoratori greci? Naturalmente la seconda cosa.

La verità è che il diavolo fa la pentola ma non i coperchi. Tanta retorica sulle lotte, sui movimenti, sul “fare e non dire”, per continuare a coprire il governo Tsipras!
Solo la lista “Per una sinistra rivoluzionaria” dirà la verità su quanto sta avvenendo in Grecia.
Perchè la verità è rivoluzionaria.


Partito Comunista dei Lavoratori

lunedì 15 gennaio 2018

RENZI, BERLUSCONI, SALVINI, DI MAIO: IL FRONTE UNICO CONTRO I SALARIATI



La campagna elettorale è formalmente agli inizi, ma ha già rivelato la sua cifra: un fronte unico di tutti i partiti dominanti contro i lavoratori salariati.
Renzi, Berlusconi, Salvini, Di Maio, apparentemente gli uni contro gli altri armati, sono in realtà accomunati da due indirizzi di fondo: una ulteriore riduzione delle tasse per i capitalisti e il rispetto dell'Unione Europea e dei suoi vincoli. La risultante del combinato disposto è una sola: un'ulteriore aggressione al lavoro salariato, privato e pubblico.
Basta semplicemente far di conto, sfrondando la confezione delle parole e andando a guardare qual è la merce.

In fatto di tasse, Renzi rilancia sulle decontribuzioni ai padroni, Berlusconi e Salvini gareggiano su una flat tax la più bassa possibile, Di Maio offre di fatto maggiore libertà di evasione (“basta controlli fiscali”) e abolizione dell'Irap. Ma parliamo in ogni caso di una nuova massiccia detassazione del capitale, in linea con la tendenza degli ultimi trent'anni, e col nuovo corso della politica fiscale sul piano mondiale (riforma fiscale di Trump, May, Macron...).
Anche in fatto di UE, tutti giocano alla “rinegoziazione delle regole” con posture diverse: Renzi offre un allungamento dei tempi del Fiscal Compact, Berlusconi e Salvini si contendono la tutela del made in Italy dalla concorrenza straniera, Di Maio chiede la revisione del tetto di deficit del 3%. Ma tutti sono paladini dell'Unione Europea capitalista, inclusi i sovranisti (ugualmente truffaldini) di ieri. E quindi tutti accettano il pilastro strutturale su cui la UE si fonda: la riduzione progressiva del debito pubblico, attraverso il suo pagamento, a garanzia delle banche creditrici (nazionali ed estere).

Bene. Qual è la risultante annunciata di un'ulteriore e massiccia riduzione delle tasse per i capitalisti, combinata con la prosecuzione del pagamento del debito pubblico (per di più a fronte del prevedibile innalzamento dei tassi di interesse sui titoli a seguito della cessazione della pioggia d'oro della BCE)? È molto semplice: una nuova massiccia aggressione alla voci della spesa sociale, in fatto di pensioni, sanità, istruzione, protezioni sociali. Non c'è altra risposta possibile. Perché anche la logica ha i suoi diritti. Se i capitalisti pagano ancor meno tasse (si calcola dai 40 ai 150 miliardi in meno, a seconda delle proposte in campo) e i banchieri continuano a incassare i 70/80 miliardi annui di soli interessi sul debito (in probabile rialzo), non ci può essere altra fonte di finanziamento che il continuo smantellamento delle tutele sociali. Altro che abolizione della Fornero, come blatera quell'ipocrita di Salvini. Altro che le pensioni di 1000 euro a tutte le casalinghe, come promette Berlusconi (in una logica iperfamilista). Altro che il reddito di cittadinanza a cinque stelle (in cambio della disponibilità al lavoro precario)! Il programma reale dei partiti dominanti è l'opposto di ciò che si annuncia nella televendita elettorale. E persino se una piccola parte di quelle misure venisse simbolicamente abbozzata sarebbe comunque a spese dei lavoratori salariati, il vero bancomat dell'intero sistema capitalista. Quelli che reggono sulla propria schiena l'80% del prelievo fiscale. Quelli che vivono ogni giorno la miseria di uno sfruttamento sempre più intollerabile, a garanzia dei profitti di borsa di grandi azionisti e parassiti, mai tanto prosperi e sempre meno tassati.

Questa truffa a reti unificate va contrastata. Ma lo può fare con le carte in regola solo una sinistra rivoluzionaria. Non una sinistra già compromessa nelle politiche dominanti, che omaggia Tsipras, che si limita all'antiliberismo. Ma una sinistra che si batte per il rovesciamento del capitalismo, per un governo dei lavoratori, per un'alternativa socialista. L'unica reale alternativa.


Partito Comunista dei Lavoratori

sabato 13 gennaio 2018

DOPO SETTE ANNI LA TUNISIA TORNA NELLE STRADE

Dalla parte dei lavoratori e dei giovani tunisini



Ciò che sta avvenendo in Tunisia sbugiarda una volta di più la retorica dell “aiutiamoli a casa loro”, e riporta le cose alla loro realtà.

Il Fondo Monetario Internazionale (cui contribuisce il capitale finanziario “di casa nostra”) prende per il collo il popolo tunisino col metodo classico dello strozzinaggio. Parla come sempre di “aiuto”. Offre in realtà un prestito quadriennale di 2,9 miliardi di dollari in cambio di drastiche misure d'austerità. Il governo tunisino di unità nazionale fa da esattore per conto di FMI: taglio dei sussidi alimentari ed energetici con i conseguenti aumenti di prezzo (dal pane alla benzina), aumento dell'età pensionabile, aumento delle imposte indirette. In un paese in cui la disoccupazione giovanile è del 30% e i salari arrivano a 200 euro.

L'italiano Sole 24 ore, organo di Confindustria, plaude a queste misure: «Riforme strutturali impopolari, ma un passaggio obbligato, per quanto doloroso» (11 gennaio). Aggiunge tuttavia il timore di... «una ripresa incontrollata dei flussi migratori». Già, uno spiacevole dettaglio.

Di certo ampi settori popolari e di gioventù tunisina non sono disposti a subire i costi sociali dello strozzinaggio. A sette anni esatti dalla rivoluzione popolare che rovesciò Ben Alì le strade e le piazze della Tunisia sono percorse da manifestazioni di massa e parole d'ordine contro il governo e il FMI. La polizia colpisce i manifestanti, usando le norme dello Stato d'emergenza ancora in vigore dal 2015: centinaia di arresti e feriti, un manifestante assassinato, sono la misura della repressione. Ma le manifestazioni si moltiplicano irradiandosi da Tunisi ai piccoli centri della provincia. Il governo tunisino di Youssef Chahed dispone di un ampia maggioranza in Parlamento, ma non sa come controllare le piazze.

Al tempo stesso la direzione del movimento è inadeguata. Il cosiddetto Fronte popolare, che unisce in sé settori stalinisti e nasseriani, partecipa alle manifestazioni ma invita al pacifismo, mentre tiene un comportamento opportunista in Parlamento sulla stessa legge di bilancio che la popolazione povera contesta. In realtà l'unico reale obiettivo del Fronte è usare il movimento come cassa elettorale in vista del voto amministrativo del prossimo 6 maggio. Una seconda componente del movimento si raccoglie nel collettivo “Cosa aspettiamo?” di impronta più radicale, ma non avanza una prospettiva politica, al di là di una manifestazione nazionale annunciata. Sull'intero scenario pesa l'atteggiamento della burocrazia sindacale dell'UGTT, che rifiuta di proclamare lo sciopero generale e di fatto sostiene il governo.

Occorre voltare pagina. Costruire comitati d'azione nei luoghi di lavoro, nei quartieri, nelle scuole, nelle università, per dare un'organizzazione di massa al movimento. Rivendicare il fronte unico più largo di tutte le forze del movimento operaio in aperta opposizione al governo Chahed, per il ritiro incondizionato della legge di bilancio, per il rilascio immediato di tutti gli arrestati. Battersi per la proclamazione dello sciopero generale. Rivendicare un piano sociale di svolta, a partire dal ripudio del debito pubblico della Tunisia verso gli strozzini del capitale finanziario, la nazionalizzazione delle banche e dei monopoli imperialisti. Avanzare la prospettiva di un governo operaio e popolare come unica alternativa per la popolazione povera di Tunisia. Sono le parole d'ordine imposte dalla dinamica degli avvenimenti, nel segno di una direzione alternativa della lotta.

La costruzione di una direzione marxista rivoluzionaria resta la questione decisiva, come ha dimostrato la stessa esperienza della rivoluzione di massa del 2010/2011. La forza d'urto più grande non può realizzare un'alternativa senza una direzione cosciente. Selezionare le forze di una nuova direzione è il compito dei marxisti rivoluzionari in Tunisia, e non solo.

Partito Comunista dei Lavoratori

giovedì 11 gennaio 2018

Le ragioni di un programma rivoluzionario



Il tema del programma acquista durante le tornate elettorali una notevole attenzione e un vasto uditorio. È utile approfittare di questo momento per fare chiarezza su quali sono le ragioni di un programma rivoluzionario, cosa lo contraddistingue e a che cosa serve. Questo è fondamentale soprattutto a sinistra, per fare chiarezza tra un programma di rivoluzione sociale e tutte le diverse declinazioni di illusioni riformiste

IL PROGRAMMA E LE RIVENDICAZIONI

Durante le elezioni quasi tutti i programmi si configurano come un lungo elenco di rivendicazioni. Il punto cruciale da osservare è che una rivendicazione, pur radicale, non serve a qualificare un programma come rivoluzionario. Di più; un insieme di rivendicazioni radicali, da solo, non si qualifica come un programma rivoluzionario. È importante capire questo punto, per capire le ragioni di un programma rivoluzionario.

Una rivendicazione che viene percepita dal senso comune come particolarmente radicale è quella della nazionalizzazione. È una parola d'ordine che accomuna i programmi di diverse liste e anche di diversi riferimenti internazionali. Nel programma di Potere al Popolo si parla di “ripubblicizzazione delle industrie e delle infrastrutture strategiche privatizzate negli anni passati“; il laburista Jeremy Corbyn, cui Liberi ed Uguali cerca esplicitamente di riferirsi, rivendica la “nazionalizzazione di imprese vitali come acqua, energie, trasporti” e “istruzione universitaria gratuita” rivendicazione ripresa pari pari da Grasso; lo stesso Melenchon nel suo programma per le presidenziali francesi, parlava di “Nazionalizzazioni possibili in caso di interesse generale dello Stato“.

La nazionalizzazione dunque, riportando alcuni settori strategici nelle mani dello stato, configura il programma di cui fa parte come un programma rivoluzionario? La risposta è ovviamente negativa.

Per una duplice ragione.

In primo luogo se la nazionalizzazione non è esplicitamente rivendicata come senza indennizzo e sotto il controllo dei lavoratori, non entra minimamente in conflitto con la proprietà dei mezzi di produzione dei soliti pochi padroni, imprenditori, capitalisti, cui viene elargito in cambio un sostanzioso indennizzo, come per altro previsto dalla stessa Costituzione. L'indennizzo e l'assenza di controllo operaio sulla produzione ha come conseguenze che da un lato assicura ai padroni un compenso economico che sarà presto reinvestito in altri settori, dall'altro che non c'è un passaggio di proprietà da una classe (i padroni) ad un altra (i lavoratori), ma lo stato si fa garante della proprietà privata, in attesa di poterla riconsegnare ai suoi padroni borghesi, come il record di privatizzazioni operate in Italia negli ultimi vent'anni ha drammaticamente confermato.

In secondo luogo, una singola rivendicazione radicale, fosse anche una di quelle centrali (che intervenga cioè sul sistema bancario o su un settore industriale strategico) fino alle sue estreme conseguenze (l'esproprio), non configura da sola un programma rivoluzionario. Perché? Su questo punto si darà più lunga spiegazione in un paragrafo successivo dedicato, ma qui si possono anticipare due temi centrali, che si intrecciano tra loro: in prima istanza le istituzioni borghesi non sono il terreno di trasformazione sociale. Nessun programma di riforma radicale opererà mai, attraverso il parlamento borghese, una trasformazione sociale o un passaggio di potere da una classe ad un'altra, in secondo luogo e come in parte implicato dal primo passaggio, non ci sarà alcuna trasformazione sociale senza il coinvolgimento della massa di salariati senza, cioè, la discesa in campo dei lavoratori con la loro forza organizzata, che spezzino le istituzioni borghesi e ne costruiscano di nuove, basate sulla loro autorganizzazione a partire dai luoghi di lavoro. Il programma rivoluzionario deve cioè convincere e dunque ottenere la simpatia non della maggioranza di generici elettori, ma la maggioranza dei lavoratori.

Se una singola rivendicazione radicale non trasforma un programma in un programma rivoluzionario, nemmeno un insieme di rivendicazioni radicali è sufficiente a configurare un programma rivoluzionario.

Un programma come quello di Potere al Popolo, molto lungo e dettagliato, contiene molte rivendicazioni anche radicali, ma l'insieme di queste rivendicazioni non trasforma quella proposta in un programma rivoluzionario, vediamo perché.

Scorrendo le rivendicazioni ci imbattiamo in alcune proposte che tutti nella sinistra radicale trovano accettabili, persino di buon senso: cancellazione di JobsAct, Fornero e Collegato Lavoro; riduzione dell'orario di lavoro a 32 ore settimanali; una patrimoniale; la nazionalizzazione della banca d'Italia e via discorrendo. Che cosa manca, dunque? Manca il passaggio da semplice elenco di rivendicazioni radicali a progetto anticapitalista. Per evitare che un programma sia solo una lista di petizioni di principio, occorre che ci sia una proposta programmatica anticapitalista reale. È impossibile combattere la disoccupazione e rivendicare l'abolizione delle controriforme del lavoro, senza rivendicare la ripartizione del lavoro esistente tra tutti, tramite la riduzione dell'orario di lavoro a parità di salario. Ma se in ogni parte del mondo e dell'Italia il capitalismo estende gli orari di lavoro, riduce i salari, precarizza le condizioni di lavoro, come trasformiamo queste rivendicazioni da semplici oggetti del desiderio a rivendicazioni reali? Si può fare questo passaggio solamente assumendo il governo dei lavoratori come orizzonte politico generale, la rottura dell'ordinamento sociale esistente e la sua ricostruzione su basi socialiste.

Questo snodo centrale vale per ogni aspetto del programma.
Se si vuole avere la più piccola speranza di realizzare anche solo uno degli aspetti di un vasto programma di trasformazione sociale, bisogna mettersi in rotta di collisione con l'esistente. Su tutte le illusioni del caso è meglio sgomberare il campo da dubbi: l'esperienza degli ultimi 30 anni ci ha dimostrato che non esisterà mai alcun governo di centrosinistra amico degli sfruttati e dei lavoratori e che allo stesso modo non ci sarà alcun governo che opererà in rotta con il sistema sotto la pressione di alcun presunto “controllo popolare” o “pressione dal basso”.

Nell'epoca del capitalismo in crisi, non ci sono mezze misure che possono reggere il confronto con la brutalità e la ferocia con cui i padroni si stanno riprendendo tutto quello che sono stati costretti a cedere con trent'anni di lotte straordinarie nel dopoguerra.


IL PROGRAMMA ED IL FINE

Il programma rivoluzionario è costantemente orientato verso il fine. Il fine è la rottura del sistema sociale capitalista e la riorganizzazione della società su basi socialiste. In questo senso le rivendicazioni che costituiscono il programma rivoluzionario devono soddisfare tre caratteristiche: a) devono partire dalle condizioni immediate, oggettive, della classe sociale di riferimento; b) devono funzionare da ponte tra queste condizioni immediate e il livello di coscienza attuale della classe lavoratrice e l'obbiettivo finale, ovvero la rivoluzione, dunque devono essere esplicitamente contro la proprietà capitalistica; c) devono essere collegate al solo strumento che quel fine e di conseguenza quelle stesse rivendicazioni è in grado di mettere in atto, ovvero il governo dei lavoratori e delle lavoratrici.

La battaglia per la riduzione dell'orario di lavoro a parità di salario è un classico esempio.
Si parte da alcune condizioni immediate: da un lato abbiamo l'insieme delle condizioni dei lavoratori in Italia, fatto di un tasso di disoccupazione permanentemente sopra il 10%, l'allungamento dell'età pensionabile, l'estensione e lo spezzettamento degli orari di lavoro, milioni di ore di cassa integrazione. La riduzione dell'orario di lavoro a parità di paga rompe con questo paradigma, allargando il numero dei lavoratori effettivi senza impoverirli. Il lavoro esistente deve essere suddiviso tra tutti i lavoratori, quelli oggi a lavoro e quelli disoccupati o parzialmente impiegati e sulla base di ciò deve essere calcolata la durata della settimana lavorativa. Il salario deve rimanere quello precedente e comunque non inferiore ad un minimo fissato per legge di almeno 1500 euro.

La distribuzione dell'orario di lavoro a parità di paga attraverso la redistribuzione del lavoro stesso, emerge quindi come necessità dalle condizioni oggettive della classe lavoratrice ad oggi.

In che modo questa rivendicazione si pone come ponte con il fine?

I padroni, i capitalisti e i loro guardaspalle oppongono una presunta irrealizzabilità ad ogni rivendicazione che migliorerebbe le condizioni di vita dei lavoratori e peggiorerebbe quelle delle loro tasche. Il senso comune, la stampa, i media, parlano di “interesse nazionale” e rilanciano la vecchia menzogna del patto sociale per cui “se stanno bene i padroni, allora staranno bene anche i lavoratori”. Questa truffa è ormai completamente smascherata dalla realtà. Dovunque il capitalismo e i suoi governi difendono il benessere dei padroni a discapito di quello dei lavoratori. I profitti sono garantiti e tutelati dissanguando i lavoratori e i proletari in generale. La contraddizione tra le uniche rivendicazioni progressive che l'insieme del movimento dei lavoratori può accettare per migliorare le proprie condizioni immediate di vita e il profitto dei capitalisti svela il trucco della società borghese: nel capitalismo in crisi non c'è nessuna compatibilità possibile tra salari, diritti e salute dei lavoratori da un lato e profitti dei padroni dall'altro. Dal capitalismo gli sfruttati e gli oppressi non hanno più niente da ottenere. Se non ci si vuole rassegnare alla disperazione e allo sconforto, bisogna trovare una via diversa. Per imporre quelle misure progressive necessarie al miglioramento delle condizioni immediate è necessario allora un tipo di governo diverso, non un governo del capitalismo, pur in salsa “centrosinistra”, ma un governo contro il capitalismo. Un governo dei lavoratori e delle lavoratrici, che organizzi la loro forza e imponga queste misure di emergenza sociale. L'instaurazione di un governo dei lavoratori e la riuscita di queste rivendicazioni è cosa che passa dalla lotta, dall'unificazione del fronte dei lavoratori e dall'assunzione di questo fronte di una direzione politica esplicitamente anticapitalista e rivoluzionaria.

Si potrebbe fare lo stesso tipo di ragionamento per la sola rivendicazione dell'abolizione della Legge Fornero. La cancellazione della legge Fornero è una rivendicazione sacrosanta. Dal fronte padronale viene opposta l'irrealizzabilità e l'irresponsabilità di tale proposta per i costi che ricadrebbero “sulla società”. Ma l'aumento dell'età pensionabile rappresenta già, di fatto, lo scaricamento dei costi sociali della crisi sulle spalle dei lavoratori! Da un lato bisogna quindi che l'abolizione della Fornero non sia una semplice petizione astratta e dall'altro bisogna ribaltare la logica dell'insostenibilità dei costi, sbandierata dai padroni. La risposta di fronte a questo bivio è semplice: è necessario abolire la Fornero per migliorare le condizioni di vita di milioni di lavoratori e per farlo è necessario abolire unilaterlmente il debito pubblico verso banche e assicurativi che costa ogni anno 70 miliardi di soli interessi, liberando così le risorse necessarie ad un nuovo sistema pensionistico. Sono questi i “costi sociali” da prendere in considerazione! Quelli che ingrassano le tasche di un manipolo di possidenti e azionisti a discapito della maggioranza della società. Ma quale governo si porrebbe in aperta rottura con il capitalismo a tal punto da mettere in discussione il sistema strangolatore del debito? Ancora una volta l'esperienza diretta ci mostra come sperare di fare questo tipo di operazioni dentro il sistema borghese conduce inevitabilmente alla tragedia. Il tradimento di Tsipras in Grecia è una lezione indelebile. Ancora una volta solo un governo dei lavoratori e delle lavoratrici può imporre questo tipo di rivendicazioni progressive.


IL RUOLO DELLA MASSA

Il programma rivoluzionario è un programma per un'alternativa di società. Per questo a differenza dei vari programmi riformisti buoni per ogni tornata elettorale, il programma rivoluzionario è uno strumento di lotta quotidiano indispensabile per il partito della rivoluzione.

Affrontare il tema del programma rivoluzionario ci dà la possibilità di indagare alcuni aspetto fondamentali della politica comunista. In questo paragrafo si tratterà di tre punti: a) la risposta alla domanda posta nel primo paragrafo, cioè perché le rivendicazioni radicali anche coerenti da sole non bastano a configurare un programma di rivoluzione; b) in che cosa consiste la politica rivoluzionaria e in che modo questa si distingue dalla politica riformista vicino e lontano dalle elezioni; c) perché presentare un programma rivoluzionario durante una tornata elettorale è parte della politica rivoluzionaria. Abbiamo visto nel primo paragrafo di questo breve testo come un insieme di rivendicazioni da sole non configurino un programma rivoluzionario e abbiamo osservato, nel secondo paragrafo, come le rivendicazioni necessitino di un metodo transitorio e di uno stretto collegamento tra i bisogni immediati della classe e il fine del socialismo per poter configurare un programma rivoluzionario. Mancano però ancora alcuni ingredienti perché si possa parlare di politica e programma conseguentemente rivoluzionari. Non c'è processo rivoluzionario possibile senza l'irruzione delle masse nella lotta e non c'è lotta di massa che possa diventare un processo rivoluzionario senza un partito comunista con un programma e una politica rivoluzionaria. O il programma rivoluzionario è uno strumento per la conquista della simpatia delle masse operaie, sfruttate e oppresse al progetto del comunismo, oppure è poco più di una lista della spesa.

Per questo un programma rivoluzionario è tale solo ed esclusivamente se è il programma di un partito conseguentemente marxista rivoluzionario. Per essere tale un partito comunista deve essere in opposizione a tutti i governi padronali, quale che sia il colore del loro schieramento e deve tutelare l'autonomia degli interessi di classe del proletariato; deve avere la capacità di collegare gli obbiettivi di lotta immediati, con la prospettiva anticapitalista di fondo; deve assumere una prospettiva socialista internazionale; deve, da ultimo, battersi per un governo dei lavoratori, ovvero per la presa del potere da parte della classe lavoratrice. In questo quadro l'enorme massa dei diciassette milioni di lavoratori salariati gioca un peso ineliminabile. Un partito comunista che vuole essere tale, deve orientare la sua politica su questo ordine di grandezza, alla conquista di questa maggioranza della società, rifuggendo ogni tentazione minoritaria o settaria. Negli ultimi anni la forza di questa massa è rimasta inespressa, imbrigliata dalla burocrazia sindacale, disillusa dai tradimenti della sinistra riformista, corteggiata dalle sirene del populismo. Si tratta di lavorare in controtendenza, per rilanciare l'entusiasmo, per unificare il movimento dei lavoratori attraverso il più ampio fronte unico di lotta possibile, su obbiettivi chiari e anticapitalisti.

Si può finalmente rispondere alla domanda iniziale: perché le rivendicazioni radicali anche coerenti da sole non bastano a configurare un programma di rivoluzione? Il programma rivoluzionario è tale solo se è parte di un progetto rivoluzionario che comprende un partito coerentemente comunista e che si batte per la conquista della direzione politica della maggioranza degli sfruttati.

Da ciò conseguono importanti considerazioni in merito alla politica rivoluzionaria. O il partito ha una proiezione di massa e un intervento sulla massa oppure il suo programma è un'arma spuntata.

Questo è un elemento cruciale di distinzione politica. Prendiamo l'esempio del PC guidato da Marco Rizzo. Dal PC di Rizzo ci distanziano enormi abissi, sia in termini di storia politica (Rizzo fu parte di quel gruppo dirigente che spaccò il PRC per sostenere il Governo D'Alema bombardiere di Belgrado), sia intermini di costruzione del partito (basta leggere lo statuto del PC di Rizzo per rendersi conto che non c'è nessuna traccia di centralismo-democratico e del funzionamento dei partiti comunisti delle origini), sia come riferimenti politici (il PC di Rizzo sostiene la monarchia dinastica della famiglia Kim in Corea del Nord). Ma quello che interessa qui è analizzare come dietro slogan e rivendicazioni, si può nascondere una prassi politica che niente ha a che vedere con la politica rivoluzionaria.

Formalmente il PC di Marco Rizzo rivendica alcune parole d'ordine coerenti: ad esempio la nazionalizzazione senza indennizzo di alcune aziende come l'Alitalia e la Piaggio. Ma questo non contribuisce in nessun modo a caratterizzare il partito di Rizzo in un partito rivoluzionario e non solo per quanto detto poco sopra. Il PC di Rizzo ricalca in sedicesimi in Italia la metodologia di intervento politico del fratello maggiore KKE in Grecia. Tenta di costruire una scalata al sindacalismo di base, nel tentativo di emulare il controllo del KKE sul PAME, costruendo un intervento assolutamente settario e completamente sganciato da ogni prospettiva di massa. Il KKE si è caratterizzato in negativo per il suo ruolo nefasto durante la stagione di straordinarie mobilitazioni in Grecia contro i governi della Troika precedenti a Syriza. Il PAME si è sistematicamente opposto a rivendicare lo sciopero generale prolungato, ha costantemente organizzato le sue manifestazioni, i suoi cortei e i suoi scioperi distaccati e in opposizione alle enormi manifestazioni di massa che sconquassarono la Grecia in quei mesi, ha tenuto la sua forza organizzata in disparte, quando non l'ha usata per... difendere il parlamento greco dai manifestanti stessi, di fatto operando per dividere il fronte dei lavoratori invece di unificarlo e tutto al servizio di una logica di sopravvivenza e continuità d'apparato. Il PC di Rizzo, fuori da un contesto tumultuoso come quello della Grecia in rivolta, riproduce pedissequamente lo stesso tipo di costruzione ed intervento.

Per sviluppare una politica rivoluzionaria coerente bisogna necessariamente lavorare all'unificazione del fronte di lotta dei lavoratori, a prescindere dalla loro collocazione sindacale, bisogna combattere senza tregua le burocrazie sindacali, bisogna dare ad ogni singola lotta, ogni singola vertenza, la prospettiva generale di unificazione in un'unica grande vertenza del mondo del lavoro che assuma le rivendicazioni anticapitaliste del programma rivoluzionario come proprie.

In questo quadro dovrebbe risultare chiaro perché presentare un programma anticapitalista, rivoluzionario, alle elezioni borghesi fa parte della politica rivoluzionaria. Le elezioni sono un momento di grande attenzione da parte di grandi masse in generale, ma in fasi storiche come quella attuale, di grande riflusso delle lotte, di difficoltà del mondo del lavoro e dei movimenti sociali di costruire momenti di lotta radicale, prolungata o anche semplicemente di vaste dimensioni, la tribuna che le elezioni offrono è uno strumento irrinunciabile per parlare alle orecchie di milioni di lavoratori e lavoratrici, precari, disoccupati e sfruttati.

Il grande circo delle elezioni tartassa le menti degli espropriati con le promesse elettorali dei populisti di tutti i colori e le inganna con le false speranze dei riformisti vecchi e nuovi. I rivoluzionari hanno il dovere di utilizzare questo momento così peculiare per dire attraverso ogni spazio possibile una parola di verità: che in questo sistema sociale gli sfruttati non hanno più niente da ottenere, che per strappare qualsiasi risultato progressivo si deve assumere la prospettiva di rompere con il capitalismo, che l'unico modo per farlo è fare leva sulla forza di milioni di lavoratori organizzati, che solo un governo che sia espressione di questa forza può attuare le rivendicazioni necessarie a migliorare le condizioni immediate di vita della stragrande maggioranza della popolazione, che solo facendola finita col capitalismo si può ricominciare a rialzare la china.


CLASSE, DIREZIONE, PARTITO

Si possono trarre importanti lezioni dallo studio di che cos'è un programma rivoluzionario, che chiamano in causa alcuni degli elementi fondamentali della politica comunista. Un programma rivoluzionario è innanzitutto un programma di un partito rivoluzionario. È attraverso il suo programma, attraverso la definizione dei suoi obbiettivi, che il partito parla alla sua classe sociale di riferimento. C'è un rapporto dialettico fondamentale qui. Il programma parte dalle condizioni immediate cui versa la classe di riferimento (ad esempio il bisogno di ridurre l'orario di lavoro a parità di paga per garantire il lavoro a una più ampia fetta di proletariato) ma non vi si appiattisce, anzi diventa uno strumento per elevare la coscienza della classe a cui parla da semplice difesa dei propri interessi immediati a comprensione che quegli interessi immediati possono essere soddisfatti solo a patto di entrare nell'ottica di spezzare il capitalismo e riorganizzare la società su basi socialiste. È questo uno dei ruoli cruciali del partito, quello di difendere e diffondere la necessità di una coscienza rivoluzionaria. Il partito però non può accettare di lasciarsi relegare al ruolo di buon consigliere. È necessario che sviluppi una lotta per la conquista della direzione del movimento operaio. Con questa formula non si intende questa o quella soggettività d'avanguardia, politica o sindacale, che si proclama in tal senso, ma chi materialmente guida la maggioranza della classe operaia. Uno dei drammi della storia recente in Italia è stato il vuoto politico che si è generato a sinistra e il ruolo di supplenza che la CGIL ha avuto come direzione maggioritaria del movimento operaio. Ruolo attraverso cui ha operato sistematicamente svendite e tradimenti, contribuendo in maniera incisiva al clima di sfiducia e smobilitazione (su tutti valgano la smobilitazione della lotta contto il Jobs Act e la paura di andare fino in fondo sulla Buona Scuola). Oppure più recentemente in Catalogna, il movimento indipendentista ha espresso una direzione piccolo borghese che ha trasformato nel giro di poco tempo una straordinaria mobilitazione democratica e progressiva di massa da un potenziale punto di rottura rivoluzionario degli equilibri capitalistici in UE ad una grottesca farsa di proporzioni storiche.

Il programma allora assume anche il ruolo di strumento di conquista della maggioranza e della sua direzione politica. La politica comunista è un rapporto dialettico costante tra il partito rivoluzionario, la classe di riferimento e il programma di rottura col capitalismo a cui il partito lotta per conquistare la maggioranza di questa classe.


Nicola Sighinolfi

lunedì 8 gennaio 2018

CALA IL SIPARIO, IL RE È NUDO

A proposito degli organigrammi di Potere al Popolo



La lista di Potere al Popolo ha definito da giorni (faticosamente) il proprio organigramma interno.
Nove portavoce, uno per organizzazione e partito, incluso il segretario di Rifondazione Comunista. Poi un coordinamento più ampio - per risolvere le (numerose) controversie sulle candidature e curare i delicati equilibri tra i partiti - di cui fanno parte il segretario di Rifondazione e l'ex ministro Paolo Ferrero. Tutto legittimo, naturalmente. Ma perché non rendere pubblico un accordo tra segreterie di partito e di organizzazione? Se il potere è del popolo, perché almeno non informarlo?
Questa “riservatezza”, chiamiamola così, non è certo casuale. Maschera l'imbarazzo di chi ha raccontato la favola bella della lista di base, costruita dal basso, estranea ai vecchi partiti, al solo scopo di racimolare consenso, e ora si trova nella spiacevole situazione di svelare una realtà ben diversa: quella di un accordo tra i vecchi gruppi dirigenti di una sinistra cosiddetta radicale che ha sulle spalle responsabilità politiche incancellabili (il voto al pacchetto Treu, alle missioni di guerra, alla detassazione dei profitti, ai campi di detenzione per i migranti...) e che per questo preferisce nasconderle dietro il sipario della retorica basista gentilmente offerta da un centro sociale.
Per tanti compagni che non vogliono farsi ingannare, è un ulteriore occasione di riflessione.

Partito Comunista dei Lavoratori

mercoledì 3 gennaio 2018

SUL MOVIMENTO DI MASSA IN IRAN

«Mullah capitalisti, ridateci i nostri soldi!»



Un importante movimento di giovani e di donne si è levato in Iran. È la più importante esperienza di mobilitazione dopo la cosiddetta “onda verde” del 2009.

Il movimento è nato nella città di Mashhad, per protestare contro l'aumento del 40% del prezzo delle uova. È possibile che questa prima protesta sia stata in qualche modo incentivata dalle autorità religiose locali, vicini alle posizioni reazionarie più integraliste della Guida Suprema Khamenei, e per questo critiche verso il Presidente “moderato” Rouhani. Ma è certo che la dinamica della mobilitazione è andata ben al di là delle sue basi iniziali.


LA DINAMICA DEL MOVIMENTO

Il movimento si è propagato in molte città e realtà di provincia. La sua dimensione di massa è complessivamente minore (ad oggi) di quella del 2009, ma la sua estensione geografica sul territorio nazionale è più ampia. Soprattutto, le sue rivendicazioni appaiono più radicali. Nel 2009 il movimento era nato in opposizione alla rielezione del presidente reazionario Ahmadinejad, nel nome di rivendicazioni democratiche limitate che non mettevano in discussione il regime religioso dei mullah. Il movimento aveva una natura progressiva, ma la sua direzione politica (Moussavi, consigliere del presidente “riformista” Kathami) era in qualche modo interna al regime. Oggi il quadro è diverso.

Il movimento attuale ha innanzitutto un contenuto sociale più esplicito, di contrapposizione al carovita e alle politiche economiche del governo (aumento di prezzo dei beni alimentari, taglio dei sussidi sociali, speculazioni bancarie a danno di piccoli risparmiatori caduti in rovina, aumento della disoccupazione giovanile al 30%). È la reazione sociale al mancato rispetto delle promesse annunciate a seguito degli accordi con la presidenza Obama. “Avevate promesso benessere e prosperità, ma dopo due anni abbiamo raccolto solo miseria”: questo il senso comune della protesta. Per questa stessa ragione il movimento ha assunto una dinamica di contrapposizione non solo a Rouhani, ma al regime teocratico reazionario. Il clero sciita non è solo l'architrave del regime confessionale integralista che domina l'Iran da quasi quarant'anni, responsabile della repressione sistematica e brutale delle organizzazioni del movimento operaio e di tutte le più elementari rivendicazioni democratiche dei giovani e delle donne. È anche strettamente compenetrato con la classe capitalistica iraniana. L'alto clero, i vertici militari, i comandi degli apparati repressivi, controllano interi comparti dell'economia nel campo della produzione e della finanza. Era dunque inevitabile che un movimento di contestazione delle ingiustizie sociali entrasse in collisione col cuore profondo del regime. “Mullah capitalisti, restituiteci i nostri soldi”, lo slogan che è rimbalzato in molte manifestazioni, è la documentazione plastica di questa connessione, assieme alla distruzione di manifesti e immagini della guida spirituale Khamenei.

Per le stesse ragioni, anche la politica estera dell'Iran è divenuta bersaglio delle proteste. L'Iran è una potenza capitalistica regionale del Medio Oriente, in lotta da sempre con l'Arabia Saudita. Le risorse risparmiate dal taglio (parziale) delle sanzioni sono state investite da Teheran nel consolidamento ed estensione dell'area di influenza regionale sciita (sostegno ad Assad in Siria, a Hezbollah in Libano...), con un indubbio successo sul fronte siriano grazie all'appoggio determinante dell'imperialismo russo. Ma le glorie militari sui campi di guerra non hanno comportato solamente migliaia di caduti, hanno trascinato con sé aumento delle tasse, carovita, inasprimento dello sfruttamento sul fronte interno, nel nome del superiore interesse della nazione. Anche per questo la contestazione sociale è rapidamente divenuta contestazione politica: “Pensate a noi, non ad Assad”, gridano migliaia di manifestanti.


GLI IMPERIALISMI DIVISI

In questo quadro è naturale che l'imperialismo USA, lo Stato sionista d'Israele, il regime reazionario saudita, cerchino di strumentalizzare la mobilitazione sociale e politica contro il regime iraniano in funzione dei propri interessi strategici in Medio Oriente e su scala globale. È sempre accaduto in tutta la storia del mondo che lotte progressive, e persino rivoluzioni, all'interno di un determinato paese, vengano “usate” (e talvolta appoggiate) da potenze straniere conservatrici e reazionarie. Ci si potrebbe meravigliare del contrario? Così è naturale che il reazionario Trump provi a strumentalizzare la protesta in Iran in funzione della svolta della propria politica estera in Medio Oriente e della polemica interna contro Obama; come è naturale che il governo sionista d'Israele voglia utilizzare gli avvenimenti iraniani per consolidare l'asse col nuovo corso di Washington e col regime saudita.

Ma chi vede ciò che avviene in Iran come esecuzione del “piano” di Trump e dei suoi agenti segreti ha la stessa visione della storia delle polizie di tutto il mondo, inclusa naturalmente quella iraniana: la ribellione è sempre figlia del “complotto straniero contro i superiori interessi della patria”, che guarda caso coincidono con quelli della classe che detiene il potere. È l'argomento che sospinge ovunque, in ogni epoca, la repressione di ogni rivolta interna. L'Iran non fa certo eccezione.

Peraltro gli amanti dell'interrogativo dietrologico “a chi giova?”, pronti a vedere in ogni rivolta la mano straniera dell'imperialismo, dovrebbero evitare di guardare solo all'imperialismo USA. Gli imperialismi europei (Italia inclusa) non si allineano affatto a Donald Trump sulla vicenda iraniana. Anzi. Vogliono inserirsi nella contraddizione apertasi tra Iran e Trump per sostenere i propri interessi imperialisti in Persia e allargarvi la propria area di influenza: dagli investimenti dell'industria automobilistica francese agli appetiti inesauribili di ENI ed ENEL. Per questo la UE tace sull'Iran, strizzando l'occhio al regime e augurandosi la sua tenuta.

La verità è che la mobilitazione in corso in Iran tende oggi ad amplificare le contraddizioni interimperialiste, non a ridurle.


IL RUOLO DEL PROLETARIATO E LA QUESTIONE DELLA DIREZIONE

In ogni caso i settori di massa e di gioventù che oggi alzano la testa in Iran non sono sospinti dagli agenti della CIA ma dal rifiuto dell'oppressione. Il regime lo sa ed è scosso. L'apparato repressivo dello Stato colpisce le manifestazioni con centinaia di arresti e con armi da fuoco, assassinando decine di giovani. E intanto chiude le piattaforme digitali per bloccare la propagazione ulteriore del movimento. Il Presidente Rouhani, dal canto suo, cerca di ritagliarsi un proprio spazio di manovra parlando del diritto a manifestare, ma è consapevole di essere bersaglio diretto della protesta e per questo spalleggia la repressione, nel mentre cerca di organizzare una propria contromobilitazione a difesa del regime. In realtà le diverse frazioni del regime teocratico attribuiscono la responsabilità della rivolta alla frazione rivale, ma proprio le contraddizioni interne al regime possono ampliare la dinamica della mobilitazione. Mentre la reazione attiva di settori di manifestanti alla repressione (e in qualche caso persino l'assalto alle caserme alla ricerca di armi) misura la potenzialità della radicalizzazione.

Inutile aggiungere che una eventuale trascrescenza del movimento in atto in un processo rivoluzionario potrebbe avere ripercussioni enormi in tutto il Medio Oriente. Ripercussioni che darebbero agli stessi USA e Israele grattacapi infinitamente più seri degli effimeri vantaggi di qualche strumentalizzazione diplomatica delle proteste in corso.

Seguiremo la dinamica della mobilitazione in atto. La sua base sociale sembra al momento limitata a settori di gioventù della popolazione povera, dei disoccupati, della classe media (studenti), con un ruolo importante delle donne. La classe operaia non è ancora scesa nell'arena della lotta. Questo sarà uno snodo decisivo per lo sviluppo degli avvenimenti. La classe operaia iraniana è una enorme potenza sociale. La sua discesa in campo alla testa della gioventù potrebbe segnare un capovolgimento dei rapporti di forza e aprire una pagina nuova dello scontro. Senza l'ingresso nell'arena della classe lavoratrice, la mobilitazione rischia di schiantarsi nel muro della repressione e di sfaldarsi. È la lezione del 2009.

Ma la semplice mobilitazione della classe lavoratrice non è sufficiente. È necessaria una sua direzione indipendente e rivoluzionaria, che sappia saldare nel vivo della lotta le rivendicazioni sociali, laiche e democratiche elementari, con la prospettiva di un'alternativa di potere della classe lavoratrice; che sappia costruire l'egemonia della classe lavoratrice sull'insieme delle domande progressive delle masse oppresse, delle città e delle campagne, nella prospettiva di un governo operaio e contadino. L'unica vera alternativa.
Nel 1979 la mobilitazione della classe operaia iraniana fu determinante per il rovesciamento dello Scià, dando vita in centinaia di fabbriche a forme di autorganizzazione democratica di massa (shorà). Ma l'assenza di una direzione indipendente, unita al ruolo collaborazionista del Tudeh stalinista, subordinò la classe operaia a Khomeini, che giunto al potere distrusse il movimento operaio organizzato e dopo pochi anni (1982) lo stesso Tudeh. La classe operaia iraniana ha pagato con quarant'anni di nuova dittatura la capitolazione del Tudeh al khomeinismo. Il Tudeh ha pagato a sua volta con cinquemila militanti assassinati.

La costruzione di una direzione marxista rivoluzionaria resta dunque la questione decisiva, come mostra la stessa esperienza della rivoluzione tunisina ed egiziana del 2010-2011.
L'irruzione nella lotta di una giovane generazione dell'avanguardia potrà rappresentare il bacino naturale della sua costruzione.

Partito Comunista dei Lavoratori