UNA NUOVA FASE DI INSTABILITÀ, CON IL
CRESCENTE RISCHIO DI DERIVE REAZIONARIE
Il referendum del 4 dicembre ha rappresentato uno snodo dell'evoluzione
politica italiana.
La crisi del renzismo ha trovato il proprio riflesso nella clamorosa sconfitta
del governo. La vittoria del No ha superato ogni previsione (59%), nel quadro
di una partecipazione per molti aspetti straordinaria (quasi il 70%). La
composizione sociale, generazionale e territoriale del No è stata altrettanto
significativa: lavoro dipendente, giovani sotto i quarant'anni, periferie
cittadine e metropolitane, Mezzogiorno d'Italia e isole. Sul No si è riversata
la sofferenza della maggioranza della società italiana, in tutte le sue
principali espressioni, sullo sfondo della grande crisi dell'ultimo decennio.
Il No ha dunque travalicato lo stesso sentimento di ostilità verso il governo:
ha rappresentato una crisi complessiva di rigetto delle politiche dominanti
dettate dalla crisi e dei loro effetti sociali. Al tempo stesso è parziale
interpretare questo risultato come una pura espressione sociale. Questo diffuso
sentimento antisistema si combina infatti con la tenuta dei blocchi reazionari
che si fronteggiano nello scenario italiano: quello leghista (voto veneto),
quello berlusconiano (seppur oggi ridotto), quello grillino (periferie urbane).
La sovrapposizione della geografia del No con quella elettorale del paese,
confermata da tutte le analisi, riflette anche la perdurante influenza del
populismo reazionario tra i salariati, i disoccupati e nella giovane
generazione. Liberare la pulsione classista del voto dall'involucro populista
che le si sovrappone è il compito della politica di classe. A partire dai
milioni di No provenienti dal versante dell'opposizione classista e di sinistra
su Jobs Act , Buona scuola, politiche ambientali.
La disfatta del renzismo non investe unicamente le prospettive del progetto
bonapartista racchiuso dalla controriforma costituzionale.
In primo luogo investe gli equilibri politici di governo. Renzi, ancora a capo
del PD, sogna la propria rivincita (primarie ed elezioni anticipate),
capitalizzando larga parte del 41% di Sì. Tuttavia questa operazione sconta
diverse difficoltà: la diffidenza di parte importante della grande borghesia la
resistenza inerziale di vasti settori parlamentari ed istituzionali (a partire
dal Presidente della Repubblica); un’immagine pubblica, già sfregiata dal
risultato referendario, che viene ulteriormente sfigurata dalla smaccata
continuità col governo precedente. Il piano di rivincita coltivato da Renzi,
per quanto reale e determinato, è dunque tutt'altro che scontato nel suo
esito.
In secondo (ma non secondario) luogo, il crollo di una controriforma che
concentrava i poteri nel Governo (nei confronti del parlamento) e nello Stato
(nei confronti delle Regioni) è il fallimento di una possibile soluzione della
crisi politico-istituzionale borghese. Dunque segna l'apertura di una nuova
fase di riorganizzazione. Le dimissioni del governo, la rapida formazione del
nuovo esecutivo Gentiloni, segnano solo l'inizio di questo convulso processo.
Il quadro tripolare del sistema politico mina le prospettive di stabilità
politica e istituzionale: nessuno appare oggi in grado di costruire attorno a
sé un blocco maggioritario. La stessa discussione sulla nuova legge elettorale
rivela la difficoltà di uno sbocco.
A ciò si aggiungono le incognite sulla tenuta dei diversi poli, attraversati
ognuno da evidenti linee di frattura interne. Dissolto il vecchio bipolarismo,
sconfitto il progetto bonapartista, il sistema politico non ha un baricentro.
Mentre si conferma una irrisolta crisi bancaria (Monte dei Paschi) e
l'instabilità degli assetti del capitalismo italiano (acquisizione di Pioneer da
parte francese, guerra in Confindustria sul Sole 24 Ore, iniziativa corsara del
capitale francese su Mediaset), sullo sfondo di quella immutata crisi
dell'Unione Europea cui la sconfitta di Renzi in Italia aggiunge un nuovo
tassello, nella prospettiva di una chiusura del Quantitative Easing della BCE e
delle sue conseguenze sulla tenuta del debito pubblico italiano e sui suoi
livelli di governabilità.
In questo quadro di grande instabilità politica e sociale, emerge un nuovo
protagonismo ed una rinnovata forza sociale delle forze reazionarie di massa,
sia nelle sue più classiche versioni xenofobe e nazionaliste (la Lega di
Salvini e le forze dell’estrema destra), sia nelle nuove forme ibride e confuse
del grillismo e del M5S. Forze che colgono il vento di una crescita
significativa di queste tendenze in tutto il continente europeo, sospinte dalla
perdurante crisi, dal precipitare della competizione fra poli e blocchi
commerciali, dal persistente odore di guerra che serpeggia su quasi tutti i
confini (Europa orientale, Medio Oriente, Nord Africa), dalla crisi dei
profughi, da una sinistra riformista subalterna al quadro capitalista, dalla
crisi diffusa del movimento operaio. Forze che oggi colgono anche un possibile
ed incipiente cambio di fase nelle politiche internazionali, con la conquista
del governo di uno dei principali poli capitalisti: l’amministrazione Trump
potrebbe nei prossimi mesi attivare una decisa svolta nella gestione
capitalista della crisi, con la definitiva archiviazione dei grandi accordi commerciali
(TTIP e TTP), l’apertura di conflitti commerciali (con la Cina e non solo), la
ripresa di una spesa pubblica statale per sostenere la domanda interna. Una
svolta che potrebbe a sua volta dare nuovi ragioni nella propaganda di massa di
queste forze reazionarie, ma soprattutto che potrebbe forgiare nuove alleanze
con settori significativi dei grandi capitali, nazionali ed europei, disegnando
una loro possibile ascesa al governo anche in Stati chiave del continente
europeo (dalla Francia alla stessa Italia).
IL CONTRATTO DEI METALMECCANICI: UN
CAMBIO DI FASE NEI RAPPORTI DI FORZA TRA LE CLASSI
Il 26 novembre scorso, pochi giorni prima del referendum, FIM, FIOM e UILM
hanno siglato il primo rinnovo unitario del contratto dei metalmeccanici dal 2008.
Da mesi era in corso una prova di forza. Il padronato si era posto
esplicitamente l’obbiettivo di destrutturare i contratti nazionali, sospinto
dalla lunga crisi (dalla necessità di recuperare margini di profitto a partire
dai costi) e dall’indebolimento sindacale - della classe nel suo complesso -
dopo la sconfitta sul Jobs Act. La FIM di Bentivogli, dopo FCA, condivideva
l’obbiettivo di ridefinire il CCNL, andando oltre l’impianto delle
confederazioni (CGIL-CISL-UIL chiedevano, all’inizio della stagione dei
rinnovi, aumenti nazionali in grado anche di redistribuire la produttività,
cedendo invece sull’organizzazione del lavoro): chiedeva però aumenti più
diffusi e la definizione di criteri omogenei per gli aumenti sul secondo
livello. La FIOM, smantellata la fallimentare “coalizione sociale” ed alla
ricerca di una gestione unitaria in CGIL (ingresso di Landini in Segreteria),
si predisponeva a siglare in ogni caso un contratto, ma chiedeva delle minime
condizioni per giustificare la capitolazione. In questo teatrino, nessuno aveva
interesse a far scendere in campo lavoratori e lavoratrici: per mesi la
trattativa si è trascinata senza scioperi, assemblee o mobilitazioni di massa.
La stessa FIOM non ha quasi mai riunito l’assemblea dei cinquecento ed ha abbandonato
la propria piattaforma senza colpo ferire. Con l’autunno l’accordo è
arrivato.
Non è solo un pessimo rinnovo. Sicuramente distribuisce pochi soldi in quattro
anni (forse una cinquantina di euro, a fronte degli 80-100 degli altri
contratti). Soprattutto, però, sfibra l’intero sistema contrattuale,
indebolendo i rapporti di forza complessivi della classe: registra
semplicemente l’inflazione reale (ex post), non prevedendo nessuna
distribuzione della ricchezza; indirizza pesantemente la contrattazione
aziendale su parametri variabili (aumentando così la flessibilità salariale);
introduce assicurazioni sociali e buoni carrello (tagliando il salario
complessivo e contribuendo a smantellare il welfare universale); conferma le
flessibilità organizzative previste nel 2012 (a partire dagli straordinari
obbligatori). Questa capitolazione, comunque, non è solo responsabilità della
FIOM. Per contrastarla sarebbe stata necessaria una comprensione di massa della
battaglia in corso, dell’attacco del padronato e delle prospettive di
resistenza. Quasi nessuno ha invece lavorato nei mesi scorsi per creare questo
clima. Partiti, comitati, associazioni, giornali, radio, siti e social: quasi
nessuno nella sinistra ha seguito un contratto che rischia di segnare condizioni
e prospettive di milioni e milioni di lavoratori e lavoratrici. È nel contempo
tragico e buffo: da anni tutti declamano che per ricostruire una sinistra
bisogna partire dal programma, dal lavoro, dalla realtà. I metalmeccanici però
sono stati lasciati soli, per non disturbare Landini o per non sporcarsi le
mani con il conflitto di classe. I rapporti di forza alla partenza, allora,
erano molto chiari: da una parte i gruppi dirigenti e gli apparati sindacali,
nel silenzio della stampa, delle piazze e di larga parte della sinistra;
dall’altra un’opposizione a questo contratto sostenuto soprattutto dal basso,
da delegati e delegate, dall'opposizione CGIL, dai sindacati di base.
Con questo rinnovo si chiude comunque una fase politica sindacale, che ha visto
bene o male la FIOM rappresentare una resistenza contro la gestione padronale
della crisi, il tentativo di recuperare margini di profitto attraverso una
compressione drastica del salario globale (diretto, indiretto e sociale) ed un
aumento dello sfruttamento (durata e intensità del lavoro). Nei contratti
separati, nella lotta contro Marchionne, nelle mobilitazioni nazionali del 2010
del 2012, nello scontro con Camusso, la FIOM ha rappresentato non solo per i
metalmeccanici ma per tutto il mondo del lavoro un punto di tenuta: il simbolo
di un interesse generale, quello di classe. Sappiamo, ed abbiamo sempre
denunciato, che da tempo la FIOM aveva abbandonato questa battaglia nella sua
azione concreta: con la capitolazione a Grugliasco sul modello Marchionne, con
la rinuncia a condurre le lotte in FCA, con la repressione interna delle
minoranze, con l’abbandono di ogni mobilitazione di massa e la sua semplice
rappresentazione mediatica (la “coalizione sociale”). La firma di questo
contratto, però, segna la chiusura anche simbolica di una parabola: il gruppo
dirigente storico della FIOM abdica per primo alla difesa del contratto
nazionale, normalizza la propria azione nel quadro del Testo Unico del 10
gennaio (che due anni fa contestò) e si approssima ad entrare stabilmente nella
maggioranza della CGIL. Una CGIL che, concentrata sui referendum e sulla
ricerca illusoria di un accordo padronale, non intende comunque sostenere e
promuovere nessuna mobilitazione, nessun conflitto sociale nei prossimi
mesi.
UN FRONTE UNICO DEL LAVORO, CONTRO
RENZISMO E DERIVE POPULISTE
In questo quadro generale di crisi sociale, politica, istituzionale, è
necessario battersi per una azione di classe indipendente del movimento
operaio, che entri nel varco aperto dalla sconfitta politica del renzismo per
costruire uno sbocco e una prospettiva classista. In aperta contrapposizione
alle tre destre che dominano lo scenario politico. È necessario cioè rivolgersi
a quel diffuso sentimento antisistema che ha sostenuto il No al referendum, all’insieme
dei settori popolari colpiti dalla crisi ed al complesso del mondo del lavoro,
per far emergere uno sbocco politico alternativo a quello delle destre, dei
movimenti populisti e delle forze reazionarie di massa. Trasformare cioè il No
a Renzi nel rilancio di una mobilitazione unitaria e di massa che rivendichi la
cancellazione di tutte le leggi reazionarie del renzismo, a partire dal Jobs
Act e dalla Buona scuola; trasformare la mobilitazione contro le leggi di Renzi
nella rottura generale con la stagione trentennale delle politiche antioperaie
di austerità e sacrifici: questo è l'asse di iniziativa e proposta del nostro
partito nella fase apertasi dopo il 4 dicembre.
Per questo l’iniziativa del PCL, nella propaganda e nell’azione politica, deve
essere principalmente e prioritariamente diretta alla costruzione di un fronte
unico del lavoro, sul piano politico e su quello sociale. In primo luogo sul
terreno concreto e diffuso che può offrire ogni occasione di mobilitazione e di
lotta unitaria: in difesa di aziende o settori di lavoro, di diritti sociali e
civili, o contro leggi, normative, disposizioni locali e nazionali che possano
innescare dinamiche di questo genere. In secondo luogo, sul piano più generale,
con un appello ed un’azione pubblica rivolta a tutte le organizzazioni
sindacali e di massa che si sono pronunciate formalmente per il No alla riforma
costituzionale di Renzi, e che hanno promosso referendum abrogativi delle sue
leggi peggiori (Jobs Act), perché passino dalle parole ai fatti. Perché rompano
col governo Gentiloni, continuità mascherata del renzismo e delle sue leggi.
Perché rompano con Confindustria, massima sostenitrice del Jobs Act. Perché
promuovano una svolta di lotta generale, unitaria e di massa, che ponga
finalmente al centro dello scontro un'agenda di rivendicazioni operaie capace
di configurare una soluzione di classe della crisi sociale e politica. La
proposta del fronte unico di classe e di massa deve divenire uno strumento di
aperta denuncia dell'immobilismo delle burocrazie, e di relazione con
l'avanguardia larga di classe.
I poli reazionari convergono sulla richiesta di elezioni politiche anticipate,
nell'intenzione non solo di rafforzarsi nello scontro reciproco, ma anche di
evitare il referendum sociale sul Jobs Act. Il loro obiettivo comune è evitare
l'irrompere della questione di classe come terreno centrale di confronto. In
aperta contrapposizione alle tre destre poniamo l'esigenza esattamente opposta.
Non si tratta di attendere il referendum in una logica istituzionale. Si tratta
di assumere il tema della cancellazione delle leggi del renzismo come leva e
campagna di mobilitazione di massa. Che è anche la via, di riflesso, per
vincere un domani sul terreno referendario. Ma soprattutto è la via per segnare
una svolta nei rapporti di forza, disgregare i blocchi sociali reazionari,
aprire il varco a una prospettiva di classe alternativa. Quella di un governo
dei lavoratori e delle lavoratrici.
PER UN'INIZIATIVA CLASSISTA E
ANTICAPITALISTA NELLA CRISI
Questa azione politica, volta a sostenere ogni occasione di fronte unico, volta
ad appellarsi alle principali organizzazioni della sinistra per una ripresa
delle mobilitazioni, non può comunque fare a meno di confrontarsi con la realtà
della capitolazione della FIOM, con la scelta della CGIL di sospendere ogni
mobilitazione nell’attesa dei referendum sul Jobs Act (nell’attesa cioè di
poter riprendere forza per via elettorale, per potersi nuovamente sedere ai
tavoli della concertazione con governo e padronato).
Nel contempo, infatti, alcuni settori di classe sono disponibili alla
resistenza. Una resistenza che non è limitata ad avanguardie politiche
marginali, ma che trova ascolto, consenso e coinvolgimento in settori
significativi di classe. È questo il segnale che ci arriva dal voto nel
contratto dell’igiene ambientale (43% di contrari nel settore pubblico), dagli
scioperi nazionali nelle ferrovie e locali dei ferrotranvieri, dalle lotte
della logistica come da alcune mobilitazioni studentesche. È, soprattutto, il
segnale che ci arriva dal No al rinnovo del CCNL metalmeccanico, che si è
espresso in particolare nelle grosse industrie, non solo dove è influente
l’opposizione CGIL o qualche sindacato di base (Dalmine di Bergamo, Fincantieri
di Marghera e di Ancona, cantieri liguri, in tutti gli stabilimenti della
Electrolux, Marcegaglia di Forlì, Same, Piaggio, GKN, Ilva, STM di Agrate e di
Catania, Ansaldo, AST di Terni, ecc.). Sul terreno dell'azione di avanguardia
siamo quindi impegnati a contrastare questa nuova stagione di subalternità, non
solo tra i metalmeccanici, ma anche in generale sul patto di fabbrica con
Confindustria come nell'accordo sul pubblico impiego. Da qui la
contrapposizione alla burocrazia sindacale, per una direzione alternativa del
movimento operaio. Da qui il sostegno ai coordinamenti del No, nei
metalmeccanici come in altri settori, come ad ogni altra forma di larga
avanguardia che dovesse determinarsi.
Non solo. La nostra azione d’avanguardia può rivolgersi anche su un terreno più
generale e politico, avanzando una proposta di unità d’azione alle altre forze
classiste e anticapitaliste, per sostenere una ripresa conflittualità sociale
davanti allo stallo della sinistra riformista. Un’azione che, ovviamente, non
può esser sostitutiva e non può pensarsi sostitutiva del fronte unico, della
priorità di una ripresa della mobilitazione di massa nel nostro paese.
Un’azione politica di avanguardia può però permettere la ricomposizione di
percorsi e appuntamenti di lotta, che possono svolgere un ruolo anche
significativo nel mantenere accesa, anche nella percezione di massa, la
prospettiva di un’alternativa di classe.
Questa unità d’azione può allora esser condotta localmente, per sostenere la
conflittualità diffusa di movimenti e iniziative di lotta, nei posti di lavoro
come sul territorio. Questa unità d’azione può esser condotta anche
nazionalmente, per produrre almeno in una dimensione di avanguardia alcune
possibili ricomposizioni, anche parziali. Un’azione da verificare, in primo
luogo, nella costruzione di alcuni appuntamenti di lotta nella prossima
primavera, che non lascino vuote le piazze del nostro paese: l’8 marzo il
movimento di lotta dello scorso 26 novembre sta programmando uno sciopero dello
donne; allo stesso modo, si pone l’opportunità di convocare un corteo unitario
dell’estrema sinistra, della sinistra sindacale, dei movimenti antagonisti.
Impegnandosi per evitare che, come lo scorso autunno, come gli scorsi anni,
queste occasioni diventino il terreno di demarcazione delle diverse organizzazioni
o dei diversi percorsi. Questa unità d’azione può quindi esser verificata
innanzitutto a partire da alcuni soggetti con cui condividiamo una matrice
classista, pur nella diversità dei progetti politici e delle impostazioni
teoriche (Sinistra Anticapitalista, Sinistra Classe Rivoluzione, SGB, CUB,
SiCobas...). Un coordinamento nell’azione con queste forze che, in questo
quadro, ci può permettere anche di verificare possibili convergenze in funzione
di un bilanciamento di quelle forze e quei settori neosovranisti e neocampisti,
che stanno provando a sviluppare campagne d’egemonia sull’estrema
sinistra.
PER UNA SINISTRA CLASSISTA E
RIVOLUZIONARIA, PER LO SVILUPPO DEL PCL
Il fronte unico del lavoro, l’unità d’azione nell’avanguardia sociale e di classe,
il coordinamento della nostra azione con l’avanguardia politica classista, sono
tutte linee d’intervento per la prossima primavera dirette a riprendere il
conflitto sociale nel nostro paese. In tutte queste iniziative, la nostra
proposta deve esser quella di un governo dei lavoratori e delle lavoratrici,
per dare una soluzione di classe e anticapitalistica alla crisi della
Repubblica. Un programma transitorio che, partendo dalla coscienza diffusa,
dalle contraddizioni e dai conflitti presenti, indica la necessità e la
prospettiva della rivoluzione. Questa prospettiva è e resta la nostra linea
strategica di demarcazione dal resto della sinistra politica.
La sinistra politica riformista, già vittima negli anni del proprio suicidio
politico, è del tutto incapace anche solo di prospettare una soluzione
indipendente della crisi politica e sociale. La dissoluzione di SEL è
emblematica. La sua ala destra (Pisapia) si candida addirittura a supporto
postumo del renzismo integrandosi direttamente nell'operazione del suo
rilancio. Un'altra sua componente (Smeriglio) punta a ricomporre il vecchio
centrosinistra puntando sulla minoranza del PD liberale (Bersani). Un'altra
componente ancora (Fratoianni) punta ad una stagione ritemprante di opposizione
per ricostruire le condizioni contrattuali di un centrosinistra futuro.
Sinistra Italiana si annuncia come quadro costituente della continuità
riformista: un'autonomia nazionale obbligata dal PD, imposta dal renzismo, in
funzione della prospettiva di ricomposizione di una alleanza di governo col PD,
una volta rimosso l'ostacolo Renzi. Mentre il PRC è segnato da una totale
afasia politica, imprigionato dal fallimento di Tsipras e dai suoi effetti
deflagranti sull'intero quadro del Partito della Sinistra Europea.
Parallelamente, sul versante centrista, Rete dei Comunisti e gruppo dirigente
USB rilanciano il proprio impasto politico-culturale di neosovranismo
nazionalista e di mitologia costituzionalista (“applicare la Costituzione”):
subalterni al tempo stesso sia al grillismo, sia alla tradizione del riformismo
italiano.
La costruzione di una sinistra rivoluzionaria classista attorno alla
prospettiva del governo dei lavoratori si conferma come l'unica soluzione
progressiva della stessa crisi della sinistra italiana. La costruzione del
Partito Comunista dei Lavoratori è la traduzione politica di questa
necessità.
In questo quadro, si pone il prossimo appuntamento delle elezioni politiche,
nel 2017 o nel 2018. Non sappiamo ancora con quale legge elettorale si
svolgerà. Se rimarrà, in un Italicum modificato o in un Mattarellum rivisto, la
moltiplicazione di piccoli collegi, sappiamo anche che sarà particolarmente
difficile una nostra presentazione nazionalmente significativa. La presenza di
una sinistra rivoluzionaria anche sul piano elettorale, nel quadro della crisi
politica, sociale ed istituzionale che l’Italia sta attraversando, può esser un
elemento importante per riattivare una coscienza politica di classe diffusa; la
presenza del PCL in questo appuntamento, uno snodo rilevante per la sua
costruzione ed il suo sviluppo. Per questo, nel quadro dell’impostazione sulla
linea elettorale definita negli scorsi congressi e ribadita in quello attuale,
il PCL tenterà in ogni modo di esser presente a quell’appuntamento, come ad esser
in ogni caso presente nei grandi centri, in occasioni delle elezioni comunali
che dovessero presentarsi nei prossimi anni.
Partito Comunista dei Lavoratori