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lunedì 11 maggio 2015

A proposito della giornata del Primo Maggio a Milano e suoi dintorni.



A proposito dei fatti di Milano occorre in primo luogo fare chiarezza e sgomberare il campo da ogni dubbio: da comunisti, non abbiamo alcun feticismo per la piccola proprietà privata in forma di SUV o per la grossa proprietà privata, rappresentata iconicamente da un Bancomat o dalla Vetrina di una grossa filiale di qualche marchio di lusso. Di più. Non si può nemmeno avere il feticcio del “Centro Storico”, presunto depositario dello “spirito” della città nel senso più borghese che si possa immaginare e figlio di una cultura (quella borghese appunto) che si percepisce ideologicamente come eterna e musealizza tutto ciò che è stato, è e sarà alternativo ad essa. Per questo per analizzare il Primo Maggio non si può non partire dalla cosiddetta marcia dei 20.000 lanzichenecchi armati di straccio e sapone. L'immagine di cittadini per bene, con a capo l'arancionissimo Pisapia e tutta una corte di intellettualismo radical chic e piccolo borghesi, che in silenzio ripuliscono la città, “ferita” dai cosiddetti violenti, dai black bloc, dai teppisti, era già l'immagine di Milano e dell'EXPO prima che il corteo del Primo Maggio avesse luogo. Tutto l'apparato ideologico borghese era in moto da settimane: pubblicità, giornali, radio, televisioni, lo stesso web, le dichiarazioni degli amministratori, dei governanti, degli imprenditori, degli intellettuali, delle star dello spettacolo e dello sport, tutti uniti nel coro di quanto sia meraviglioso l'EXPO e di quanto Milano e l'Italia debbano esserne orgogliose. Tutto il resto vaporizzato: la mafia, la corruzione, i disastri economici, sociali, ambientali, le morti nei cantieri, i contratti fasulli, il lavoro gratis, tutto spazzato via o ribaltato sottosopra al servizio della propaganda. Così il lavoro gratis diventa una “occasione per fare curriculum” o lavorare il 1 Maggio per 4 Euro l'ora diventa un “motivo d'orgoglio” perché “si partecipa alla più grande manifestazione di tutte”. Il motivo di tutto ciò risiede nel fatto che senza una reale direzione politica in grado di unificare le lotte e le vertenze e di farle uscire dalla loro singola dimensione, non è materialmente possibile riuscire nemmeno a mettere in discussione, figuriamoci a sopraffare la macchina ideologica della classe dominante. Per questo non è possibile unirsi al coro degli indignati, magari in buona fede, che lamentano il fatto che pochi violenti o black bloc attirando l'attenzione, avrebbero silenziato le ragioni della maggioranza. Questo semplicemente non corrisponde alla realtà, perché le ragioni dei manifestanti erano già silenziate in ogni ambito e la stessa partecipazione di circa 30.000 persone al corteo, seppur dignitosa, è incredibilmente insufficiente a fronte dell'evento e degli anni di lavoro di preparazione. È invece fondamentale analizzare i fatti che hanno portato allo spezzamento del corteo di Milano per quello che sono: azioni politiche. La multiforme cronaca politica di queste ore sta analizzando i fatti di Milano da moltissimi punti di vista, che, in buona sostanza, mancano il punto nodale della questione. Il termometro con cui misurare l'efficacia di un'azione o di una pratica è un elemento essenziale della discussione, perché ci indica qual'è la direzione verso cui ci stiamo muovendo. A questo proposito è importante sottolineare quelle che sembrano essere tre letture ricorrenti delle azioni politiche avvenute a Milano, molto dissimili tra loro, ma che condividono parzialità e insufficienza di chiarezza. In primo luogo non si può leggere un'azione politica in funzione della propaganda ideologica borghese e al modo in cui questa restituisce indietro, stravolti e trasformati, i significati e anche le apparenze di quell'azione. Non ci si può, in buona sostanza, lamentare che la propaganda ideologica borghese faccia esattamente quello per cui esiste, perché questo è un modo di ragionare completamente subalterno e seguendo il quale non faremmo mai alcun passo in nessuna direzione, perché sottintende che, anche semplicemente per aprire bocca e fiatare, dovremmo chiedere il permesso a padroni e governanti. Inoltre, ma non è un dato secondario, come detto sopra, il Quarto Potere è sempre all'opera per far rientrare tutto entro i contorni dell'eternità capitalista e l'immagine dell'EXPO non sarebbe stata intaccata nemmeno da un corteo pacifico, le cui 30.000 voci, piene di rabbia ma ancora troppo flebili difficilmente avrebbero potuto farsi sentire da qualcuno fuori dal solito microcosmo militante della sinistra più o meno radicale. In secondo luogo non si può giudicare un'azione politica in funzione della sua presunta durezza o radicalità in quanto tale. La parola più ricorrente in questi giorni è senz'altro “conflitto” ma sul suo significato non sembra esserci un accordo univoco. Da un certo punto di vista i fatti di Milano sono stati molto conflittuali: La Zona Rossa è stata attaccata, sono stati colpiti molti feticci del capitalismo finanziario, sotto forma di filiali bancarie e catene di negozi di lusso e chi si è preso il carico di compiere queste azioni ha tenuto impegnato l'apparato della repressione dello stato per diverse ore. Apparato dello stato che però ha scientemente deciso di isolare quel gruppo, evitando di colpire il resto del corteo e sostanzialmente decidendo di gestire la cosa a forza di gas tossici CS. Ciò che è lecito chiedersi però è: quale tipo di conflitto e contro chi o cosa? Se l'obbiettivo del conflitto era il capitalismo che si mostrava in vetrina, si può senza timore di smentita affermare che questo è uscito indenne dall'attacco. E non poteva essere altrimenti. Infrangersi, sicuramente con grande spirito volontaristico, contro l'apparato repressivo dello stato, al di là di quello che può sembrare nell'immediato, potrebbe non essere la tattica migliore per mettere in difficoltà il padronato nostrano. In terzo luogo non si può giudicare un'azione politica prendendo come pietra angolare un generico consenso che sappiamo creare intorno ad essa. Anzitutto questo presupporrebbe che l'azione sia buona in sé e per sé e che il limite sarebbe casomai da ricercare nei bassi numeri di consenso che riusciamo a mobilitare prima, durante o dopo la stessa azione. Il semplice consenso non è un metro di valutazione attendibile anche perché si fonda su un principio molto ottimista, ma al contempo anche molto ingenuo: la validità del buon esempio. E' una teorizzazione piuttosto diffusa quella che pretende che le azioni conflittuali abbiano il compito di scuotere le coscienze, ridestare gli animi sopiti, trascinare le individualità fuori dal loro torpore e alzare in questo modo il livello dello scontro. In questo modo si rischia però di cadere in ipotesi di sostituzione e di avventurismo. Da questo versante, il gruppo politico avrebbe il compito di fare l'azione e di creare intorno al proprio attivismo il consenso necessario a sostenere politicamente l'azione. Da comunisti non possiamo che rifiutare questi metodi di valutazione e di lettura delle azioni politiche, perché siamo consapevoli che queste vanno lette e giudicate per il rapporto che intrattengono con la dinamica della lotta di classe e in funzione del contributo che possono dare per far sì che il proletariato faccia passi avanti e strappi posizioni di forza nella sua guerra contro la borghesia.

I riot son tutti giovani e belli

Sono sette anni che la più profonda crisi capitalista degli ultimi 80 anni sconvolge lo scenario mondiale secondo una direttrice di sviluppo diseguale e combinato che causa picchi e brusche frenate in tutto il globo. L'economia mondiale è immersa in una feroce crisi che la costringe ad uno stallo dal quale non può riemergere come in passato con l'aumento della spesa pubblica e che è di fatto caratterizzata, in particolare per quanto concerne il baricentro europeo, da una violenta e costante aggressione al mondo del lavoro, ai suoi salari e ai suoi diritti. In questo scenario di crisi permanente la risposta del proletariato internazionale non è mancata, sebbene in modo particolarmente variegato da continente a continente, da stato a stato. I moti che si sono susseguiti negli ultimi anni hanno raggiunto picchi di radicalità anche molto dura, ma solamente un'analisi inverosimilmente superficiale può accomunarli prendendo come minimo comune denominatore l'aspetto esteriore del riot di piazza. In primo luogo perché questa è esattamente la lettura che ne danno i media borghesi. Certo, sono disposti a riconoscere, ci sono anche valide ragioni per le proteste, ma non si può mai scadere nella violenza, altrimenti si passa dalla parte del torto. Il torto e la ragione per la borghesia stanno essenzialmente in funzione del rispetto che si porta alla sacralità della proprietà privata e della legge eretta a difenderla. Sono dunque in primo luogo gli stessi media borghesi a sezionare gli eventi e a isolare il riot in quanto tale per mettere in primo piano una lettura moralista che divida tra buoni e cattivi. Noi dobbiamo rifiutare questa logica, così come dobbiamo rifiutare la logica speculare per cui tutte le rivolte di piazza sono uguali a se stesse. E dobbiamo farlo partendo da un punto fermo di analisi: il mondo è diviso in classi sociali e la composizione sociale delle masse che si riversano in strada a protestare segna in modo decisivo anche le loro stesse potenzialità. Prendiamo tre casi di rivolte di massa del recente e recentissimo passato per poter vedere come la somiglianza dello scontro di piazza nasconda in realtà differenze molto significative. Tra il 2008 ed il 2012 le piazza greche, in particolare Piazza Syntagma, adiacente al parlamento greco, sono state ripetutamente teatro di violenti scontri tra le forze di polizia e centinaia di migliaia di manifestanti. Le immagini delle banche incendiate, della polizia in fuga, degli arresti, delle molotov, hanno riempito per mesi giornali, televisioni e web. Se è vero che la scintilla dei moti greci è stato l'assassinio di Alexandros Grigoropoulos il 6 Dicembre del 2008, le radici che hanno permesso la trasformazione del riot in una vera e propria rivolta di massa a partire dal Maggio del 2010 sono tutte interne alla crisi economica del capitalismo, che si è riversato come sappiamo con particolare durezza sull'Europa e ha avuto la Grecia come punto focale. Le immagini che hanno colpito l'immaginario di tutta la sinistra internazionale durante i mesi di feroce scontro sono assimilabili a quelle di ogni rivolta a giro per il mondo, ma non è evidentemente questo il livello di analisi a cui ci si deve fermare: nelle piazze, nelle strade e nelle fabbriche della Grecia la classe lavoratrice è ripetutamente scesa con forza, determinazione e organizzazione, sia politicamente che sindacalmente, indicendo ripetuti scioperi generali e scontrandosi con il peso della propria forza organizzata contro le politiche di austerità che la borghesia locale stava trattando con l'Unione Europea. Questo è il dato centrale della rivolta greca, non il tasso di radicalità che le pratiche concrete effettuate in piazza hanno raggiunto. Come è possibile allora che tale rivolta, col pieno della classe operaia mobilitata, sia stata incapace di aprire un processo rivoluzionario e abbia partorito il topolino del governo Tsipras, incartato fin dalle prime ore nel copione del dramma del riformismo fuori tempo massimo? In primo luogo occorre ribadire che la questione greca, lungi dall'essersi chiusa con l'elezione del governo Tsipras è ancora nel pieno del suo svolgimento. Il punto politico è che non basta che la classe operaia sia presente fisicamente ad una contestazione, non basta cioè, che singoli o gruppi di lavoratori partecipino alle mobilitazioni e non basta nemmeno che la classe operaia partecipi con la propria forza organizzata, sindacale e politica, con scioperi, occupazione delle fabbriche, addirittura riapertura delle fabbriche abbandonate dai padroni: per fare il salto di qualità occorre che la classe operaia abbia una direzione rivoluzionaria. Questo è il punto cruciale non solo della questione greca, ma in generale. Nello specifico del caso greco, la tragedia si consuma nella forbice di una direzione del movimento operaio dilatata tra il riformismo di Syriza e il settarismo del KKE, le due formazioni maggioritarie. Del riformismo di Syriza è autoevidente espressione la quotidiana cronaca politica del governo Tsipras, che è retrocesso rispetto a ogni proposta propagandistica sbandierata in campagna elettorale (riduzione del debito, conferenza europea sul debito, riduzione dell'avanzo primario) una volta trovatosi a trattare al tavolo con gli strozzini. La lezione della Grecia è preziosissima: non esiste alcun reale spazio per una politica riformista dentro la crisi del capitalismo europeo e subordinare anni di mobilitazione ad un progetto di compatibilità è un vero e proprio tradimento. Dall'altro versante il KKE non è stato da meno. Il KKE si è contraddistinto nel corso degli anni per il suo settarismo votato esclusivamente alla difesa del suo apparato e del controllo che poteva esercitare su una parte non insignificante del movimento operaio greco, la vetta di questa scelta politica si è raggiunta nel Settembre del 2011, nel pieno della mobilitazione contro il governo, quando il KKE ha schierato il proprio servizio d'ordine a difesa del parlamento, sostituendosi alla polizia nel fronteggiare la massa di manifestanti che letteralmente assediavano il palazzo del potere. Episodi simili si sono ripetuti nel corso di tutti i mesi di forte scontro, come quando nel Febbraio del 2012, con migliaia di giovani manifestanti, lavoratori, pensionati che ancora una volta assediavano il parlamento greco, ha deciso di schierarsi a più di un kilometro di distanza, osservando col binocolo la mattanza in piazza Syntagma, finendo per travasarsi direttamente dal vaso dei gruppi settari a quello dei controrivoluzionari. Appare chiaro dunque come la dinamica dei riot greci abbia come punti eminentemente caratterizzanti la grande partecipazione del proletariato e del movimento operaio organizzato ed il dramma della sua direzione, settaria o riformista, che non ha saputo né voluto incanalare la straordinaria mobilitazione in un processo rivoluzionario. Da Piazza Syntagma, possiamo procedere per sottrazione ad osservare i riots di piazza Taksim, che hanno stravolto la Turchia per tutto il bimestre Maggio-Giugno del 2013, per poter meglio analizzare le differenze di sostanza che ci possono essere tra eventi solo all'apparenza identici. I riots di Istanbul cominciano quando il governo di Erdogan dà ordine di sgomberare l'accampata che si era creata in Gezi Park per difendere il parco dalla cementificazione. L'incredibile violenza che la polizia turca ha riversato sui manifestanti ha fatto sì che da subito si creasse un vasto movimento di solidarietà e che da subito il numero dei manifestanti si moltiplicasse. Gezi Park è diventata un enorme accampamento e ha resistito numerose volte a tentativi di sgombero da parte delle forze di polizia, mentre in tutta la Turchia la protesta si espandeva e prendeva la forma di un vero e proprio movimento anti-Erdogan e gli scontri più duri iniziavano ad avvenire proprio in altre città, in particolare ad Ankara. Con lo sgombero di Gezi Park e la repressione finale, il movimento ha contato numerosi morti, un numero incommensurabile di feriti e migliaia di arrestati. La natura del movimento di Gezi Park è però sostanzialmente diversa da quello greco, per chi analizza i fatti dal punto di vista della lotta di classe. Il movimento di Gezi Park è nato in prima battuta sull'onda di un movimento ambientalista sorto a difesa del parco contro la cementificazione rampante in corso in Turchia; col suo evolversi in un vero e proprio movimento di massa ha conosciuto uno sviluppo molto eterogeneo e la sua composizione era quella di un movimento ampiamente interclassista, comprendente al suo interno i settori più moderni della piccola borghesia totalmente immersi in uno stile di vita occidentale, gli intellettuali, l’aristocrazia operaia e una larga fetta della generazione più giovane di studenti. Risalta per contrasto rispetto alle mobilitazioni greche l'assenza della classe operaia organizzata, con i propri strumenti e le proprie rivendicazioni. Questo non significa che in piazza non ci fossero singoli operai, ma che come classe, nei numeri e nell'organizzazione, questi non fossero presenti. Le rivendicazioni e le pratiche di lotta più incisive, come ad esempio quella dello sciopero generale prolungato, non erano per ciò sul piatto nei giorni della mobilitazione, se non come rivendicazioni minoritarie portate avanti dai marxisti rivoluzionari del DIP (Devrimsci Isci Partisi). La classe operaia turca, strangolata da sindacati burocratizzati, gialli che più gialli non si può, non si è impegnata dunque nel grande movimento di Gezi Park e questo vuoto, unito all'altra grande assenza organizzata, quella del movimento kurdo, ha impedito ogni salto di qualità del movimento. A differenza della Grecia dunque, dove il punto nodale era quello della direzione del movimento operaio, l'aspetto cruciale e caratterizzante del movimento nato intorno alle proteste di Gezi Park era la sua composizione estremamente eterogenea e in cui il grande assente era la classe operaia organizzata. Procedendo cronologicamente in avanti, arrivando alla cronaca di questi giorni, incontriamo la rivolta di Baltimora. Dal 25 Aprile Baltimora è stata attraversata da una vera e propria guerriglia urbana scatenata, come già è stato per Ferguson un anno fa, dalla morte di un ragazzo 25enne, Freddie Gray, brutalmente massacrato dalle forze di polizia locale dopo essere stato arrestato senza alcuna motivazione apparente. La scintilla che ha scatenato la grande rivolta è dunque da ricercarsi nella reazione contro le quotidiane violenze che la polizia esercita in particolare contro il proletariato nero. Il riferimento al proletariato nero non è e non può essere un dato contingente. Negli Stati Uniti la questione del razzismo non è mai stata superata e di conseguenza la questione etnica si sovrappone molto spesso con la questione di classe, con le masse nere o latine che finiscono per coincidere in larga misura con le masse proletarie e sottoproletarie. Per calare il caso di Baltimora all'interno di questo aspetto, è sufficiente osservare come la popolazione nera sia la grande maggioranza della città (il 65%) e che vive principalmente rinchiusa nei quartieri ghetto, dove il tasso di disoccupazione supera il 20%, mentre nel centro cittadino, ricco e bianco, rimane ampiamente sotto il 10%. Il riot di Baltimora è dunque la reazione del proletariato e del sottoproletariato nero alla violenza della polizia, ma affonda le radici in una questione squisitamente di classe, di esclusione sociale, di povertà. Ma le grandi masse che hanno dato vita alla rivolta sono esplose spontaneamente sull'onda della rabbia. Una rivolta dunque in cui gli ultimi, i reclusi dei ghetti, hanno spezzato l'ordinario rispetto per le regole del gioco borghese in modo feroce e pre-politico e hanno incendiato tutto quello che passava a tiro per gridare il loro dolore. A chiosa del ragionamento sulla rivolta di Baltimora, è importante nell'economia della nostra analisi prendere in considerazione lo sconsiderato uso che i media di ogni nazionalità hanno fatto delle immagini, ferme o in movimento, della Madre Coraggio di Baltimora che ha preso a ceffoni il figlio in diretta mondiale. È stato un vero e proprio bombardamento per giorni e giorni, investendo anche la propaganda nostrana sul Primo Maggio milanese, dato che innumerevoli giornalisti, intellettuali e politicanti invocavano l'intervento di emule milanesi, che prendessero a schiaffi i manifestanti NOEXPO. La violenza visiva è uno strumento molto potente e ne siamo ogni giorno subissati in ogni luogo, televisione, web, social media, persino nelle strade, dove le ONG mandano in giro studenti e disoccupati per qualche spicciolo a cercare di strappare sovvenzioni con il ricatto morale di foto di bambini morenti, malformati o infetti delle peggiori malattia in giro per il mondo. L'uso delle immagini della Madre Coraggio di Baltimora sono un vero e proprio gesto di violenza visiva e ha come doppio scopo la rimozione della storia e della realtà. Nel caso specifico, rimuove la storia del razzismo negli Stati Uniti e la realtà dell'oppressione del proletariato nero, riducendo tutto a una questione di ordine sociale, di “ragazzate” sistemabili con un paio di ceffoni quantomai materni e al contempo patriarcali. E' evidente dunque quanto profondamente diversi possono essere nella sostanza politica eventi tanto simili nella forma che assumono. Cionondimeno le rivolte in Grecia, in Turchia e di Baltimora condividono un aspetto politico ancora non esplicitato, sebbene presente nelle analisi di tutti e tre i fenomeni: si è trattato di grandi movimenti di massa che hanno coinvolto decine di migliaia, centinaia di migliaia di persone unite in condizioni pur diverse, nella resistenza alle forze della repressione dello stato borghese in angoli del mondo tanto vicini o tanto lontani. Ed è questo aspetto comune che segna irrimediabilmente un punto di differenza fondamentale con i fatti del Primo Maggio a Milano. A Milano non c'è stato un movimento di piazza di massa che ha affrontato le forze del disordine, ma una scelta politica ben precisa di gruppi organizzati che hanno deliberatamente deciso di perseguire questo tipo di tattica politica. Alla fine di questo lungo ragionamento possiamo porci due domande chiarificatrici: le barricate fatte con auto incendiate hanno avuto la stessa valenza politica in Piazza Syntagma, in Piazza Taksim, a Baltimora e a Milano? E gli scontri di Milano hanno fatto fare passi avanti sul terreno della lotta di classe al proletariato italiano? La risposta è no ad entrambe i quesiti.

Forme di lotta, queste sconosciute.

Da diversi anni, dopo ogni grande manifestazione, tutto il panorama politico della sinistra radicale, antagonista e rivoluzionaria si trova come di fronte al 31 Dicembre, a fare il rendiconto di ciò che è stato e i buoni propositi per l'anno nuovo. Tra chi si interroga su ciò che non ha funzionato, a chi rivendica con orgoglio il proprio operato, fino a chi predica la costante necessità di rimboccarsi le maniche e fare lavoro quotidiano, quasi ad esorcizzare la forza immaginifica che i grandi appuntamenti politici (che lo siano davvero o meno) hanno su gran parte del corpo militante. È importante sgomberare il campo da un'allucinazione che spesso prende vita nelle settimane precedenti e successive a queste scadenze politiche, ovvero che “il corteo” sia il luogo per eccellenza deputato alla lotta e alla pratica delle diverse forme in cui questa si attua. Questo ragionamento diventa molto pernicioso se associato ad un progressivo smarcamento dal marxismo rivoluzionario e da un'analisi classista della realtà. Apre le porte infatti ad ipotesi di sostituzione, in cui gruppi organizzati, invece che impegnarsi nella lotta per una direzione rivoluzionaria del movimento operaio, non solo liquidano la centralità stessa del mondo del lavoro, ma si pongono come una vera e propria “agenzia distaccata della rivoluzione”, che si prende sulle spalle il carico del confronto anche fisico con le forze della repressione, nella speranza di accendere una qualche miccia latente e scatenare un movimento di massa. Il punto politico è che non si fa la rivoluzione aggrappandosi al principio di speranza. Sperare che durante una manifestazione l'atto volontaristico di un gruppo di centinaia, ma fosse anche di migliaia di militanti, sia la via migliore per aprire una fase rivoluzionaria è una strategia politica quantomeno discutibile. In generale, sperare che il contesto del “corteo” sia fecondo da questo punto di vista è una vera e propria ingenuità. Siamo davanti ad un corto circuito politico in cui di fronte alla crisi storica del capitalismo, il proletariato si trova completamente impantanato nella più profonda crisi storica della sua direzione. Il vuoto di direzione del movimento operaio ha ricadute profonde non solo sulla sua capacità di mobilitazione, ma anche sulle strade politiche che interi gruppi della sinistra decidono di intraprendere. Centrismo, antagonismo, riformismo, sono tutti accomunati, da un versante o dall'altro, dalla liquidazione dei punti centrali del marxismo rivoluzionario, primo fra tutti la questione della centralità operaia nei processi rivoluzionari. Questa rimozione porta con sé diverse conseguenze: dal versante del riformismo si è tradotto nella sostituzione di ogni impostazione classista, con impostazioni di tipo democratico-progressiste, incentrate su ogni tipo di minoranza sociale, esclusa la classe operaia (che nella società è maggioranza de facto, ma che nel capitalismo è in condizione di minorità politica); dal versante dell'antagonismo si traduce nella teorizzazione che il cuore del processo di accumulazione del capitale non si trovi più nei processi di produzione ma che si sarebbe spostato in forme di dominio sociale legate principalmente alla finanza parassitaria, al sistema di controllo e ricatto per mezzo del debito pubblico e della politica monetaria alle quali si opporrebbe non più la classe operaia, ma una moltitudine fatta di spazi liberati, beni comuni, di individualità precarie o metropolitane; dal versante del centrismo, si traduce nella rimozione della questione della presa del potere e del governo dei lavoratori, di fatto trasformandosi in una sorta di buona coscienza testimoniale o tutt'al più “critica”. Una delle conseguenze cruciali di queste impostazioni è che si cessa di identificare il luogo di lavoro come il cuore della lotta di classe, rimuovendo la generazione di plusvalore per mezzo del lavoro salariato e con questo si dimentica che il danno al capitale lo si può massimizzare proprio colpendolo nei processi produttivi. Con questo, si finisce per lasciare in soffitta anche tutto l'insieme delle forme di lotta tradizionali del movimento operaio perché considerate desuete, sconfitte, novecentesche. Invece di combattere la burocrazia sindacale che strangola la classe operaia e impedisce una mobilitazione reale attraverso uno sciopero prolungato, si squalifica lo sciopero in quanto tale. Invece di proporre l'occupazione delle aziende e la difesa dei macchinari (pratica attuata anche dai partigiani durante la Resistenza), si propongono occupazioni estetizzanti di presunti simboli del capitale. Si sostituisce la parola d'ordine della vertenza generale del mondo del lavoro, dallo straordinario potenziale unificante, costruita intorno ad una piattaforma politica di rivendicazioni di svolta, con il presenzialismo ad ogni singola vertenza fisicamente raggiungibile; uno sforzo senz'altro lodevole ma che non contiene la proposta politica sufficiente per far superare alla vertenza la sua dimensione isolata. La perdita dell'orizzonte che è stato qui sopra definito induce a scegliere il terreno del “corteo” come momento di proiezione privilegiato e a sostituire con la strada e la piazza il luogo di lavoro come terreno in cui concentrare gli sforzi tesi a creare conflitto. Di fronte a tutto questo occorre rilanciare invece con forza proprio la centralità delle forme di lotta che hanno il proprio baricentro nella classe operaia. L'occupazione delle aziende che licenziano, lo sciopero prolungato, la costruzione di una cassa di resistenza, l'unificazione di tutte le vertenze in un unica grande vertenza generale del mondo del lavoro che faccia propri questi metodi di lotta e si dia una rappresentanza autonoma sulla base di un'assemblea di delegati eletti dai lavoratori stessi nelle loro assemblee sono gli strumenti essenziali perché si possano strappare dei risultati nella lotta contro il nemico di classe. Sulla base di queste metodologie di lotta e con l'obbiettivo sempre chiaro del fine ultimo, quello della rivoluzione socialista, ogni tipo di radicalità concreta è valida e a disposizione. Con la consapevolezza che una piazza piena di scioperanti, che si sostengono per mezzo di una cassa di resistenza per proseguire la battaglia contro il governo nemico ha una sostanza politica diversa da una piazza di generici manifestanti, fossero anche tutti militanti politici di provata esperienza, o che un'auto bruciata per fare una barricata che difenda un picchetto operaio da uno sgombero ha una sostanza politica nettamente differente da un'auto bruciata per fare una barricata durante una prova muscolare di un servizio d'ordine contro le forze della repressione dello stato borghese durante un corteo.

Centralità operaia non come feticcio, ma come strumento al servizio del fine

La lezione politica che dobbiamo trarre dalla questione delle forme di lotta è strettamente legata alla questione del fine. Da comunisti insistiamo non solo sulla necessità di determinate forme di lotta che vedano la classe lavoratrice protagonista, ma anche sulla questione centrale che solo una grande vertenza generale del mondo del lavoro ha il potenziale di unificare intorno a sé tutte le altre rivendicazioni tanto sacrosante quanto parziali, come la rivendicazione del diritto alla casa, come la lotta per un'istruzione libera dal giogo del capitale, come la rivendicazione di diritti e libertà per tutte le minoranze oppresse. Questo è tanto più vero oggi rispetto a centocinquant'anni fa, è tanto più vero oggi rispetto a quarant'anni fa. Il proletariato mondiale non è mai stato tanto vasto e solo cecità e superficialità possono scambiare delocalizzazioni e politiche di ristrutturazione del funzionamento interno delle fabbriche e delle aziende con l'estinzione, il superamento o perfino la marginalizzazione della classe operaia. La rimozione della centralità della classe operaia nei processi rivoluzionari porta a un tempo due nefaste conseguenze: da un lato, come abbiamo visto, porta ad adottare forme di lotta inefficaci e a considerare superato tutto l'armamentario di cui il modo di produzione capitalista stesso, per il modo in cui è venuto storicamente a determinarsi, ci fornisce, involontariamente ma inevitabilmente, per armarci contro di lui. D'altro canto questa rimozione comporta anche la rimozione del fine. Paradossalmente, tutti i recentisti che accusano il marxismo rivoluzionario di essere vetero-nostalgico, sembrano ignorare che le fondamenta del loro impianto ideologico sono vecchie più di cent'anni e risiedono nell'atto di liquidazione del marxismo stesso tentato dall'ala revisionista della Seconda Internazionale facente capo a Bernstein nel nome del motto "il fine è nulla il movimento è tutto". Come abbiamo visto, centrismo, riformismo e antagonismo condividono la liquidazione, parziale o integrale, delle principali forme di lotta del mondo del lavoro e possono condividere questo aspetto proprio in virtù del fatto che condividono la rimozione del fine. Ci si può generosamente definire rivoluzionari o comunisti, ma il comunismo e la rivoluzione non sono argomento che prendiamo sul serio se non si pone al centro del nostro programma politico quello del superamento del capitalismo per la costruzione del socialismo. Per questo le forme di lotta tradizionali del movimento operaio, che da sole e per se stesse sono patrimonio anche del sindacalismo come del riformismo, hanno bisogno del sostegno di un progetto comunista per assumere una direttrice rivoluzionaria. Per questo la parola d'ordine del governo dei lavoratori, del potere operaio, non è un semplice richiamo estetico o un vezzo, ma è il necessario coronamento di ogni forma di lotta operaia perché questa assuma una valenza qualitativamente superiore di indirizzo politico comunista.

Reddito o lavoro, in altri termini, neoriformismo o rivendicazioni transitorie?

La crisi di direzione del movimento operaio oltre ad essere legata alla crisi della sua capacità di mobilitazione e di reazione all'aggressione padronale e alla sistematica rimozione della centralità operaia nelle elaborazioni teoriche, nei progetti politici e nelle pratiche concrete di lotta, è anche la crisi della sua capacità di esercitare egemonia all'interno di tutte le classi subalterne. Legato a tutto ciò sta il fatto che le rivendicazioni più dirompenti che il movimento operaio ha messo storicamente in campo, sono state di fatto rimpiazzate ai primi posti delle parole d'ordine di gran parte delle sinistre politiche e sono state sostituite in gran parte dell'immaginario collettivo da rivendicazioni interclassiste e di assoluta retroguardia. La punta dell'iceberg di questo processo è senza dubbio rappresentata dalla questione del reddito. Da un punto di vista strettamente teorico, i sostenitori delle teorie del reddito partono dalla liquidazione della teoria marxista del valore. Stando a queste teorie, ci troveremmo in una sorta di “biocapitalismo” caratterizzato in prima battuta dal fatto che i processi di produzione sarebbero stati soppiantanti nel processo di valorizzazione dai mercati finanziari, dal controllo esercitato sulla moneta e per mezzo del ricatto del debito pubblico. In realtà ogni seria analisi marxista mostra come i termini del discorso siano esattamente capovolti. La gigantesca finanziarizzazione che abbiamo visto esplodere a partire dalla seconda metà degli anni '90 non è la causa della crisi del capitalismo in corso, ma è stato semmai il tentativo del capitalismo stesso di mettere in atto una strategia di delay, di ritardo, dell'esplosione della crisi stessa. Infatti le sue radici affondano nella gigantesca crisi di sovrapproduzione da cui siamo investiti a partire dagli anni '80 e sono spiegabili solo analizzando i rapporti di produzione attraverso la lente del marxismo. E' la caduta tendenziale del saggio medio di profitto che spiega la realtà dei rapporti di produzione. La finanziarizzazione, lungi dall'essere una nuova fase radicalmente diversa del capitalismo e soprattutto lungi dall'aver soppiantato i suoi meccanismi fondamentali, si qualifica come un enorme sforzo anticiclico del capitalismo internazionale. L'abbandono della teoria marxista del valore e il rigetto della centralità del lavoro conducono dunque alla teoria per cui il nuovo capitalismo finanziario, genererebbe, fuori dalle maglie della produzione materiale, una enorme eccedenza di ricchezza e che questa sarebbe colpevolmente incamerata da una esigua minoranza della popolazione mondiale (il famoso 1%). Il peccato originale del nuovo capitalismo sarebbe dunque la redistribuzione della ricchezza prodotta dalla finanza, come ben riassunto in numerosi slogan tipo: “i soldi ci sono, prendiamoceli”. Da marxisti, sappiamo che tutta la ricchezza si produce per mezzo del lavoro e che il nodo centrale sta nell'appropriazione indebita che il padrone opera di tutta la parte del lavoro che non paga al lavoratore, ovvero tutta la parte che eccede la quantità sufficiente a permettere la materiale riproduzione del lavoratore stesso, cioè la sua sopravvivenza. Contrariamente a quanto sembrano pensare alcuni teorici del reddito e della estinzione della classe operaia, non viviamo in una realtà distopica integralmente finanziarizzata e terziarizzata in cui tutta la ricchezza si produce separatamente dal lavoro materiale perché questo si sarebbe estinto. Al contrario, miliardi di esseri umani ancora lavorano in condizioni “ottocentesche” e producono materialmente ricchezza rinchiusi nelle fabbriche. Il proletariato mondiale non è mai stato tanto numeroso. Ad uno sguardo più approfondito, la teoria del reddito, oltre a partire da presupposti errati, porta con sé anche alcune insanabili contraddizioni interne. Occorre anzitutto fare chiarezza su un punto: il reddito di cittadinanza, in varie forme è già presente in quasi tutti gli stati dell'Unione Europea. È chiaro che queste applicazioni sono molto diverse dalle teorizzazioni più progressiste che vengono da ambienti antagonisti, neo-operaisti o radical-borghesi. Nelle sue forme concretamente esistenti, il reddito di cittadinanza è una sorta di sussidio di disoccupazione che rappresenta però un enorme passo indietro rispetto alle altre già arretrate forme di ammortizzatori sociali. Anzitutto esso è funzionale all'alto tasso di disoccupazione cronica che il capitalismo richiede in questa fase e serve anzitutto a stimolare la domanda interna per favorire i consumi. In secondo luogo, dal versante dei lavoratori, sarebbe una tattica politica suicida quella di avanzare la rivendicazione del reddito di fronte alla minaccia di licenziamenti (come ha fatto ad esempio Beppe Grillo di fronte ai lavoratori delle acciaierie di Piombino) perché in cambio del sussidio, saremmo posti di fronte al ricatto di accettare una delle prime offerte (di solito la proposta è che siano tre) di lavoro che arrivano, quali che siano, pena la perdita dell'erogazione del reddito. Con la grande possibilità, visti i tempi che corrono, che accettando una delle offerte ci si trovi con una nuova condizione lavorativa e contrattuale peggiorata. A queste evidenze si deve aggiungere il dato politicamente rilevante che in tutti gli stati europei in cui è presente il reddito di cittadinanza, questo non è mai stato la conquista di un ciclo di lotte del movimento operaio, ma una scelta indipendente della borghesia presa, come detto, per limitare gli effetti della disoccupazione cronica in termini di domanda interna. Non è un caso infatti che persino il super-reazionario governo Renzi abbia iniziato a pensare a forme di reddito di cittadinanza, anche se per adesso solo nella forma riservata a una ristretta fascia d'età. Dal versante dei gruppi socialmente antagonisti che rivendicano il reddito come principale proposta politica ovviamente le forme in essere del reddito di cittadinanza sono rigettate. Nella versione più radicale, il reddito di cittadinanza non dovrebbe essere vincolato alla ricerca del lavoro e in questo modo assumerebbe un elevato potenziale liberatore perché emanciperebbe l'individuo dal giogo del lavoro stesso per godere della sua vita. Questa teoria ha numerose falle. La più pericolosa da un punto di vista della lotta di classe è che si verrebbe inevitabilmente a creare una divisione potenzialmente insanabile tra chi vive di lavoro e chi vive di reddito, giacché tutta la ricchezza sociale proviene in ultima istanza dal lavoro e dunque i riceventi reddito vivrebbero di fatto sulle spalle della porzione di popolazione lavoratrice. Invece di essere uno strumento di unificazione delle lotte e delle classi subalterne, finirebbe per essere motivo di divisione e frammentazione. Inoltre questa teoria sembra avere una forte impronta occidentalista, dato che solamente i principali stati imperialisti, predatori della maggior parte delle ricchezze del pianeta, potrebbero garantire una forma generalizzata di reddito di cittadinanza a livelli accettabili e questo prospetterebbe inevitabilmente uno scenario di forti tensioni tra il proletariato di diverse nazioni, di diversi continenti, di diverse aree geografiche. È dunque una prospettiva socialmente egoista che lede ogni tipo di solidarietà e di progetto politico internazionalista. Anche da questo punto di vista dunque, il reddito di cittadinanza si rivela un'arma a doppio taglio e una rivendicazione di retroguardia, che non incide minimamente nella la lotta per l'abolizione della proprietà privata. Possiamo dunque concludere sostenendo che il reddito di cittadinanza è, in ultima istanza, una proposta keynesiana e non è in nessun modo una rivendicazione transitoria. È piuttosto una proposta riformista fuori tempo massimo e con l'aggravante di aver rimosso ogni saldatura con una prospettiva classista, che pure i riformismi e le socialdemocrazie storiche mantenevano. Fuori tempo massimo perché la grande stagione del riformismo nella seconda metà del Novecento è stata permessa dal combinato di tre circostanze assolutamente non riproponibile: il grande boom economico del secondo dopoguerra, l'esistenza dell'Unione Sovietica, pur nella sua deformazione stalinista, che ancora rappresentava un motivo di pressione su tutte le borghesie internazionali per il solo fatto di rappresentare indegnamente il portato della Rivoluzione d'Ottobre e la grande ascesa del movimento operaio e del suo ciclo di lotte. La mancanza anche di solo uno di questi fattori avrebbe cambiato drasticamente la traiettoria politica del riformismo novecentesco. Oggi in particolare, il capitalismo in crisi non ha alcun spazio di manovra per fare concessioni alle classi subalterne come è stato in passato e può casomai solo procedere ad aumentare il tasso di sfruttamento della classe lavoratrice. Oggi non è di proposte riformiste vecchie o nuove che abbiamo bisogno ma di un progetto complessivo di rivendicazioni transitorie che sia capace di aprire una breccia nel fronte della lotta di classe e permettere l'avanzata su questo terreno del movimento operaio. La rivendicazione della riduzione dell'orario a parità di salario come strumento cardine per redistribuire il lavoro esistente tra tutti, l'esproprio senza indennizzo e sotto controllo operaio delle aziende che licenziano e delle grandi aziende in generale, l'abolizione unilaterale del debito pubblico verso le banche, la nazionalizzazione delle banche stesse come unica misura possibile per dirottare le risorse verso il lavoro e verso le protezioni sociali, queste sono le principali rivendicazioni transitorie, le sole che hanno la possibilità di strappare successi e di far retrocedere la borghesia dalle sue posizioni di forza. La loro unificazione intorno ad un programma apertamente comunista di rottura con l'ordine esistente, che si batta per un governo dei lavoratori, è condizione necessaria perché queste stesse rivendicazioni acquistino sostanza e coerenza politica. Intorno a questo progetto dunque è possibile declinare a seconda delle fasi e dei contesti anche il tipo di radicalità e di durezza delle concrete forme di lotta, verso le quali non possiamo avere, da rivoluzionari, alcun timore né imbarazzo.

Nicola Sighinolfi - Comitato Centrale

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