La lezione storica di un fallimento
riformista
La vicenda greca rappresenta uno spartiacque nella
sinistra europea. L'accordo tra Tsipras e creditori contro la classe operaia e
la popolazione povera della Grecia ha spiazzato le correnti riformiste e
centriste della sinistra. Le prime (Sinistra Europea) avevano assunto Tsipras a
propria bandiera di rilancio attorno al mito sempreverde di un possibile
compromesso progressivo keynesiano tra capitale e lavoro. Le seconde (la
maggioranza del NPA francese) avevano definito Syriza come “un riformismo di
tipo nuovo” capace di guidare una “alternativa democratica all'austerità” senza
rottura col capitalismo. Dopo il trauma imprevisto, le une e le altre cercano
una spiegazione consolatoria. I dirigenti riformisti che avevano cercato in
Syriza la propria salvezza, spiegano la capitolazione di Syriza come il
prodotto della “insufficienza” della mobilitazione solidale in Europa: è il
modo di assolvere Syriza e cercare di salvare il proprio investimento politico,
sperando che passi in fretta la nottata. In campo centrista e in alcune aree
movimentiste proliferano le razionalizzazioni più disparate. Ultime, quelle (1)
che rimuovono di fatto la capitolazione di Syriza nel nome dell'immaturità
delle masse per la rivoluzione e della necessaria pazienza della storia.
Proprio come alcuni ambienti centristi giustificarono negli anni '30 la
tragedia spagnola, assolvendo il ruolo delle direzioni.
In realtà scaricare sull'immaturità delle masse il
tradimento delle loro direzioni è il peggiore servizio che si possa rendere
alle masse stesse, e proprio sul terreno essenziale della maturazione della
loro coscienza politica. Forse può essere utile a chi cerca scusanti per
continuare a rimuovere dal proprio campo di lavoro la costruzione del partito
rivoluzionario, nel proprio paese e su scala internazionale. Ma per chi cerca
seriamente la via della rivoluzione il nodo della direzione politica è
strategicamente il nodo decisivo.
Per questo è utile ricostruire alcuni tratti della
parabola di Syriza, alla luce della sua natura riformista, ripercorrendo
l'esperienza del governo Tsipras. Fuori da ogni suo abbellimento, e contro ogni
falsa mitologia “giustificativa”.
LA RICERCA DI UNA LEGITTIMAZIONE PREVENTIVA
Syriza (quale “coalizione della sinistra radicale”)
nacque formalmente nel 2004 attorno ad un programma classicamente riformista,
ereditato dalla tradizione del Partito Comunista “dell'interno” e di
Synaspismos. Un programma che contestava le politiche di austerità e
rivendicava una riforma sociale della Grecia dentro il quadro di una riforma
democratica dell'Unione Europea.
È significativo che l'ascesa di Syriza verso il
governo, sospinta dalle lotte di massa, abbia coinciso con lo stemperamento
progressivo di questo stesso programma in direzione di una sua riformulazione
sempre più moderata.
Il congresso fondativo di Syriza come partito nel
2013 abbandonava la parola d'ordine “nessun sacrificio per l'euro, prima la
società” - che aveva rappresentato il cuore della campagna elettorale del 2012
- a favore di un “piano di ricostruzione nazionale” greca rivolto “a tutte le
classi vitali della società”. Un ostentato ecumenismo interclassista che
tuttavia preservava ancora formalmente “la sospensione del pagamento del debito
sino a quando il PIL del paese non sarà ritornato a crescere” e la
rivendicazione della “nazionalizzazione delle banche”.
Tra il congresso del 2013 e la vittoria elettorale
del gennaio del 2015, la maggioranza dirigente del partito si dedicò ad una
ulteriore ripulitura del programma. La rivendicazione della nazionalizzazione
delle banche veniva abrogata. La “sospensione del pagamento del debito” si
trasformava nella richiesta della “negoziazione del debito”. Più in generale
Tsipras apriva una autentica campagna di propria legittimazione preventiva agli
occhi delle classi dominanti, in Grecia e in Europa.
In Grecia Tsipras si rivolse direttamente agli
ambienti della borghesia, sviluppando in forma concentrata la propria apertura
interclassista. La Confindustria greca (SEV) fu invitata a rompere i rapporti
tradizionali coi vecchi partiti dominanti e a scegliere la prospettiva di un
governo Syriza per meglio tutelare i propri interessi e potenzialità. La
proposta rivolta agli industriali era quella di liberarsi dei costi della
corruzione e di scegliere la via della modernizzazione capitalista, a partire
dal rilancio delle esportazioni, in particolare nel settore agroalimentare: «Magari
pagherete qualche imposta in più ma avrete la certezza di una amministrazione
pubblica efficiente ed affidabile. Non ci sarà bisogno di ricorrere al sostegno
dei politici per conquistare i mercati. Li conquisterete anche all'esterno,
grazie alla vostra credibilità e al vostro valore». Questa pubblica lode
alle potenzialità di successo del capitalismo greco sul mercato mondiale,
dentro la grande stagnazione, era ed è, per usare un eufemismo, alquanto
dubbia. Tanto più a fronte della catastrofica depressione dell'economia greca
negli anni della grande crisi (-25% del PIL) e dell'ulteriore arretramento
strutturale in essa del settore industriale, già debolissimo. Ma proprio per
questo l'esaltazione propagandistica da parte di Tsipras delle future sorti del
capitalismo greco acquisiva un significato tutto politico: il gruppo dirigente
di Syriza si candidava a governare a braccetto con la borghesia greca, non
contro di essa.
Non meno significativa, in questo contesto,
l'apertura ostentata di Tsipras alla Chiesa ortodossa, componente tradizionale
del blocco dominante in Grecia. Nell'agosto 2014 il segretario di Syriza si
recava in visita al Monte Athos, repubblica monastica in Macedonia, di
antichissima tradizione (già omaggiata peraltro nel 1995 dai dirigenti del KKE
stalinista). «Quando ti trovi di fronte a questi monasteri non importa se
sei credente o no. Entri comunque in comunicazione con la divinità»,
dichiarava solennemente Tsipras alle telecamere. Non si trattava solamente di
una dichiarazione pubblica di (improbabile) conversione religiosa a fini
elettorali. Si trattava anche e soprattutto di un messaggio politico a ben
precisi interessi: significava dire che il governo Syriza avrebbe rispettato lo
storico privilegio delle esenzioni fiscali per le attività produttive dentro il
Monte Athos. Infatti, quando il famigerato governo Samaras presentò, poche
settimane dopo, la legge di conferma delle esenzioni del clero, sia i deputati
di Syriza che del KKE scelsero l'astensione. Cioè la silenziosa condivisione.
Tsipras si candidava dunque a governare a braccetto della Chiesa ortodossa, non
contro i suoi privilegi.
Parallelamente, sul piano politico, la stessa
rivendicazione di un “governo di sinistra”, assunta al congresso del 2013,
sfumava progressivamente in direzione di una prospettiva di «ampia alleanza
democratica, radicale e progressista, di forze politiche e sociali». In
particolare Tsipras apriva al centro dello schieramento politico: «Non
dobbiamo lasciare al centro, che nel nostro caso è l'area di centrosinistra,
alcuno spazio per la sua ricostruzione. La maniera migliore per cadere nella
trappola del centrosinistra è assumere un atteggiamento di chiusura: non volere
nessuno, non dialogare con nessuno, chiudere le proprie porte... Al contrario
dobbiamo instaurare alleanze in ogni direzione» (Tsipras al CC di Syriza del
giugno 2014). Allearsi in ogni direzione significò innanzitutto incorporare
direttamente all'interno di Syriza settori provenienti dal centro politico
greco. L'”apertura delle porte” fu praticata in particolare in direzione del
personale dirigente centrale e periferico del PASOK in disarmo, desideroso di
ricollocazione. Era un ulteriore segnale di accomodamento verso quegli
interessi dominanti che con tali ambienti avevano intrattenuto lunghe relazioni
di familiarità. E non a caso incontrò forti resistenze all'interno di Syriza.
Ma la ricerca di legittimazione preventiva si estese
al campo internazionale.
Nell'anno che ha preceduto il proprio accesso al
governo, Tsipras ha realizzato su questo terreno una strategia di relazioni a
tutto campo. Molto spregiudicata.
L'imperialismo USA ha rappresentato un primo
interlocutore d'eccezione. Non appena la parabola elettorale ascendente candidò
Syriza ad una prospettiva di governo, la diplomazia USA pensò bene di tastare
il polso al nuovo partito. Non a caso l'incaricato d'affari statunitense
presenziò in prima fila al congresso di Syriza del 2013. Tsipras ripagò
l'attenzione. Nel gennaio del 2013 alla Columbia University, nel novembre del
2013 all'Università di Austin in Texas, il segretario di Syriza scelse la linea
del pubblico elogio dell'amministrazione americana assumendola a modello di
riferimento: «Nel suo discorso di insediamento il Presidente Obama ha posto
al centro della sua politica il sostegno della classe media e dei più
svantaggiati. C'è un orientamento tutto sommato progressista, proprio mentre
dall'altra parte dell'Atlantico dominano posizioni conservatrici...
Passeggiando per strada qui non si riscontra quel senso di depressione che
purtroppo vive attualmente il mio paese». Salutare il salvataggio statale
dei banchieri e dei capitalisti americani come “progressista” non significava
solo scavalcare a destra gli ambienti più insoddisfatti del progressismo
democratico americano, ma anche cercare di cavalcare l'interesse USA ad una
politica più espansiva nella UE (in funzione delle esportazioni americane)
nella prospettiva del proprio negoziato con la UE. Di certo significava fugare
ogni dubbio sullo “spirito di responsabilità” di un eventuale governo Syriza: «C'è
qualcuno qui che teme la sinistra greca?... Gli allarmisti vi diranno che
quando il nostro partito assumerà responsabilità di governo straccerà l'accordo
di credito con l'Unione Europea e il FMI, farà uscire il paese dall'Eurozona,
danneggerà i legami con l'Occidente civile... Questo è allarmismo della peggior
specie. Il mio partito non vuole nulla di tutto ciò...». Come tutti gli
aspiranti di governo della sinistra europea nell'intero arco del dopoguerra,
anche Tsipras versava l'obolo rassicurante della propria fedeltà
all'imperialismo USA e alle sue alleanze internazionali. Non a caso l'obiettivo
dell'uscita della Grecia dalla Nato, ancora formalmente presente nel programma
di Syriza al congresso del 2013, fu prontamente cancellato. L'”Occidente
civile” poteva dormire sonni tranquilli.
Ma è soprattutto nella UE che la strategia della
legittimazione preventiva si dispiegò con grande intensità. Lungo tutto il 2014
il segretario di Syriza ha sviluppato una fitta rete di relazioni politiche e
diplomatiche con gli ambienti dominanti della UE e con gli stessi ambienti
confindustriali e finanziari, finalizzate a rassicurare i suoi interlocutori
circa le intenzioni e i programmi del proprio futuro possibile governo. Tsipras
si è presentato al convegno di Cernobbio dei capitalisti e banchieri italiani.
Si è presentato alla Borsa di Londra, cuore della City. Ha chiesto udienza
presso il gruppo parlamentare liberaldemocratico europeo. Ha interloquito con
l'intero stato maggiore della socialdemocrazia continentale. Ha incontrato
tutti i capi di governo degli Stati creditori della Grecia, nessuno escluso. A
tutti ha offerto rassicurazioni. A tutti ha presentato la propria proposta
centrale di compromesso col capitalismo europeo: la proposta di ulteriore
ristrutturazione del debito pubblico greco combinata con la garanzia del
pagamento del debito ai creditori. La motivazione fu esplicitamente formulata
proprio in Italia durante un'apposita conferenza stampa a Roma: «solo
riducendo il debito, i creditori saranno sicuri che sul debito restante saranno
ripagati». L'argomento non poteva essere più chiaro. Syriza presentava la
propria proposta come soluzione vantaggiosa per il capitale finanziario: se il
capitale finanziario europeo vuole evitare di essere travolto dalla crisi greca
allenti un po' la stretta del cappio. Solo un debitore sopravvissuto sarà in
grado di continuare a pagare i propri strozzini. Parallelamente Tsipras
lanciava la propria proposta di una Conferenza europea sul debito pubblico per
una soluzione continentale della questione del debito. L'idea era quella di
incunearsi nelle contraddizioni interne al capitalismo europeo e internazionale
per favorire un accordo vantaggioso sul debito greco. Lo sguardo era rivolto in
particolare ai governi francese e italiano in funzione di un comune
controbilanciamento dell'egemonia tedesca. Non a caso Tsipras lodò
pubblicamente il governo Hollande quando esso decise di non rispettare nel 2014
il limite del 3% nel rapporto deficit/PIL, così come lodò pubblicamente il
governo Renzi, giudicando “interessanti” i suoi interrogativi sul futuro della
UE. I governi (antioperai) di due paesi imperialisti (e creditori della Grecia)
furono presentati ai lavoratori greci come possibili alleati per una soluzione
“onesta” sul debito. Del resto «se fu condonato il 60% del debito tedesco
nella Conferenza storica di Londra del 1953, perché non si dovrebbe arrivare
nel comune interesse ad una ristrutturazione concordata del debito greco nel
2015?». Tsipras presentò questa idea non solo come soluzione equa della
crisi greca ma come leva di un cambiamento di fondo della Unione Europea. In
altri termini il segretario di Syriza pensava che il “compromesso onorevole”
sul debito greco sarebbe stato obbligato per i creditori, quale condizione
della stessa sopravvivenza dell'eurozona; e che a sua volta quel compromesso
sul debito avrebbe aperto la via alla ridefinizione dei Trattati della UE. La
via greca alla riforma sociale e democratica della UE fu salutata da tutta la
sinistra europea come la via maestra finalmente scoperta del riformismo continentale.
La candidatura di Tsipras a Presidente del Parlamento europeo da parte di
Sinistra Europea nelle elezioni del 2014 coronò la nuova suggestione.
DAL PROGRAMMA DI SALONICCO ALLA PROVA DEL GOVERNO
Intanto, sul versante greco, la preparazione della
scadenza decisiva delle elezioni politiche del gennaio 2015 fu accompagnata
dalla presentazione del nuovo programma elettorale di Syriza. La sua
definizione non si presentava facile. Da un lato esso doveva onorare o non
contraddire le rassicurazioni preventive di Tsipras alla borghesia greca ed
internazionale circa l'accettazione senza riserve del quadro capitalista e
della UE. Dall'altro lato doveva motivare il voto a sinistra come voto di
svolta agli occhi di una popolazione povera annientata dalle politiche
criminali di austerità dei famigerati memorandum imposti dai governi
precedenti. La soluzione escogitata per quadrare il cerchio fu quella di un
programma minimo di riforme sociali e interventi umanitari. Si trattava del
cosiddetto programma di Salonicco, presentato presso la Fiera Internazionale
della città il 13 settembre 2014. Dare corrente elettrica a 300.000 famiglie
sotto la soglia della povertà e fornire loro buoni pasto; dare una casa a
25.000 famiglie attraverso l'utilizzo di immobili vuoti e abbandonati;
ripristinare l'assistenza sanitaria gratuita per tutti; abolire l'odiata tassa
sugli immobili; ristrutturare i debiti interni dovuti al fisco; elevare il
livello minimo dell'esenzione fiscale; aumentare il salario minimo da 430 euro
a 750 euro; ripristinare la contrattazione collettiva nel pubblico impiego. Si
trattava di un programma sufficientemente minimo da non interferire formalmente
con la questione strategica dei rapporti di proprietà, del rispetto del debito
pubblico, della collocazione internazionale della Grecia. Ma anche di un
programma destinato ad apparire agli occhi dei lavoratori e della grande massa
impoverita come promessa di svolta della propria condizione. Tsipras presentò
quel programma come «l'insieme delle misure che siamo certi di poter
realizzare», «l'impegno solenne che prendiamo di fronte al nostro popolo»,
la «linea rossa invalicabile» del nuovo governo. Nella sua visione si
trattava di un programma realmente compatibile col compromesso onorevole col
capitale . Nella visione del popolo si trattava della speranza finalmente
offerta dopo una stagione di drammatiche privazioni.
La realtà spazzò via rapidamente l'illusione di
entrambi.
Le elezioni politiche del 25 gennaio 2015 portarono
Tsipras al governo. L'enorme polarizzazione a sinistra, combinata col crollo
dei vecchi partiti borghesi, misurava la domanda di svolta. Il comizio notturno
di Tsipras in una piazza Syntagma strapiena e festante, salutava il trionfo con
parole impegnative: «Oggi è un giorno storico per il popolo greco. La
tirannia dei memorandum è finita. La Troika è fuori dalla Grecia. Da oggi il
popolo greco è libero di decidere del proprio destino. È una svolta per la
Grecia e per l'Europa». L'intera sinistra europea applaudì incantata la
solennità dell'annuncio, leggendovi l'occasione di un proprio riscatto
continentale.
Ma la retorica della vittoria lasciò subito il posto
a scelte politiche imbarazzanti.
Il 26 gennaio Tsipras annunciava un governo di
coalizione col partito di destra xenofobo e omofobo Greci Indipendenti (ANEL).
Poche settimane dopo proponeva e designava come nuovo Presidente della
Repubblica un dirigente Prokopis Paulopoulos, della destra di Nuova Democrazia
e già ministro degli interni. Si trattava dello stesso ministro degli interni della
repressione di piazza della gioventù greca (2008), la stessa gioventù che aveva
accompagnato Syriza al governo. Queste scelte non erano affatto imposte dai
numeri parlamentari. Neppure l'alleanza di governo con la destra xenofoba.
Sull'onda dello straordinario successo Syriza avrebbe potuto mettere alle
strette il KKE, sfidandolo pubblicamente a un governo comune su un programma di
rottura anticapitalista. Avrebbe persino potuto formare un governo di minoranza
in Parlamento, mettendo il Parlamento e ogni deputato di fronte alle proprie
responsabilità agli occhi dei lavoratori e del popolo. Soprattutto, e in ogni
caso, avrebbe potuto organizzare nella società e nei luoghi di lavoro la grande
forza popolare che l'aveva condotto al potere, facendone la propria potente
base d'appoggio contro la resistenza della borghesia greca e l'apparato dello
Stato. Ma nulla era più lontano dalla logica di Syriza che un governo dei
lavoratori greci al servizio di una rivoluzione sociale.
Proprio le prime scelte compiute fotografavano
infatti la prospettiva opposta. L'alleanza con ANEL (già negoziata dietro le
quinte prima del voto e per questo immediatamente proclamata dopo il voto) non
era semplicemente un atto di contraddizione plateale con un programma
semplicemente democratico. Né solo l'annullamento di ogni confine o sembianza
classista del governo, a favore di “un governo della nazione” (ciò che
consentiva ai peggiori populismi reazionari di Europa di inquinare con la
propria propaganda sovranista la vittoria di sinistra del 25 gennaio).
Quell'alleanza era anche e soprattutto un atto di collaborazione con la
borghesia greca. Fare ministro Kammenos, già ministro della marina mercantile,
significava non-belligeranza verso gli armatori, la spina dorsale del
capitalismo greco. Fare Kammenos ministro della difesa significava promettere
collaborazione alle gerarchie militari, di cui ANEL è tradizionalmente
protettore. Perciò stesso significava onorare l'impegno di fedeltà alla Nato.
Questa alleanza avrà un costo sociale nei mesi successivi: 50 milioni spesi per
acquistare aerei Lockheed, 500 milioni spesi per l'ammodernamento
dell'Esercito, in piena crisi sociale e umanitaria.
IL PRIMO ACCORDO CON I CREDITORI. LA CADUTA DELLE
ILLUSIONI
Ma è sul terreno centrale della politica economica e
sociale che le promesse della vittoria evaporarono ben presto, una dopo
l'altra.
Tsipras e Varoufakis si sedettero al tavolo dei
creditori col bagaglio delle promesse elettorali e del “mandato popolare”.
L'idea era quella di un negoziato con i governi creditori per un accordo
politico: ristrutturazione del debito contro garanzia del suo pagamento. La
prima ristrutturazione del debito (2012) aveva avuto come interlocutori le
banche tedesche e francesi, grandi creditrici della Grecia. I famosi “aiuti”
alla Grecia erano finiti nei loro portafogli, in cambio di sacrifici umilianti.
Ma ora i principali creditori della Grecia erano gli Stati (Germania, Francia,
Italia) cui le rispettive banche avevano per tempo ceduto i propri titoli greci
(facendoci un ulteriore affare). Quindi i primi interlocutori del governo
Syriza/ANEL erano i governi dei principali paesi capitalisti del continente. Se
il negoziato è politico con interlocutori politici, lo spazio di accordo non è
forse più ampio? Che interesse politico avrebbero i governi creditori a rompere
con la Grecia e favorire un Grexit, col relativo rischio di una disgregazione
dell'eurozona? Gli USA e la stessa Cina non premono forse a favore di un
accordo? Del resto, i paesi debitori del Sud Europa, non avrebbero forse un
proprio interesse a controbilanciare al tavolo negoziale le rigidità della
Germania e del blocco nordico, a favore delle ragioni della Grecia? Così
ragionava e sperava il gruppo dirigente di Syriza, e tutta Sinistra Europea a
suo rimorchio. I misurati segnali diplomatici verso la Russia di Putin da parte
di Tsipras portavano indirettamente sul tavolo negoziale un argomento
geopolitico a favore dell'intesa europea. Nel frattempo il ministro delle
finanze Varoufakis condivideva l'auspicato negoziato politico con la
spiegazione tecnica di una possibile rifondazione dell'eurozona. La sua
“Modesta proposta per superare la crisi dell'euro” - elaborata assieme a Stuart
Holland e James Galbraith - propone che i debiti sovrani vengano garantiti sino
al 60% del PIL di ciascun paese attraverso una “riserva federale” europea,
impiegando i fondi così ottenuti per finanziare un programma di investimenti.
Parallelamente, il debito greco di 330 miliardi dovrebbe essere ridotto di 100
miliardi circa (dal 175% al 120% del PIL), diluendolo con titoli a lunghissima
scadenza o rimborsabili solo con una quota della “crescita”. Con l'innocenza
cattedratica di puntiglioso economista, Varoufakis presentò questa proposta ai
vertici negoziali, intrattenendo a lungo i suoi colleghi europei con eruditi (e
snervanti) argomenti...
Ma il capitalismo reale si è vendicato brutalmente
del capitalismo immaginario coltivato dai riformisti. I calcoli politici e i
ragionamenti intellettuali non hanno trovato alcuno spazio al tavolo dei
creditori . Al contrario, la realtà ne ha rovesciato gli stessi presupposti. Da
ogni versante.
In primo luogo, la natura politica del negoziato
chiamava in causa interessi contraddittori e compositi. Interessi economici:
perché gli Stati creditori non avevano alcun interesse ad una ristrutturazione
del debito greco a detrimento delle proprie casse, tanto più a fronte di
opinioni pubbliche interclassiste aizzate dalla demagogia reazionaria populista
contro “i greci nullafacenti e spendaccioni”. Interessi politici: perché gli
Stati creditori non avevano alcun interesse a favorire un successo di immagine
di Syriza che potesse trascinare la volata di Podemos in Spagna (segnata da un
volume di debito pubblico enormemente più elevato) e processi di polarizzazione
politica a sinistra in altri paesi. Certo esistevano ed esistono contraddizioni
indubbie, politiche ed economiche, tra i capitalismi creditori della Grecia. Ma
l'ingenua illusione che la composizione di quelle contraddizioni potesse
tradursi in un favore alla Grecia era priva di fondamento. La Germania, dominus
europeo e principale creditore, ha tenuto la barra dell'intransigenza
negoziale, sino a legittimare alla fine la possibilità di una Grexit. Ciò che
per la prima volta ha spalancato la porta di una possibile disgregazione della
UE. La Francia, cofondatrice della UE, si è spesa in senso opposto, appoggiata
dall'Italia, sia a difesa dell'Unione, sia a difesa del proprio spazio
negoziale nell'Unione sul terreno delle proprie politiche di bilancio. Ma il
compromesso finale tra Germania, Francia, Italia - i tre grandi paesi creditori
- ha presentato il conto proprio alla Grecia. L'Unione Europea degli Stati
imperialisti strozzini è stata (al momento) “salvata” grazie ad un cappio più
stretto al collo del paese debitore. Già saccheggiato e affamato. La Merkel ha portato
al Bundestag il trofeo politico dello strangolamento del governo greco, col
plauso della SPD, a tutela del “rigore”. Hollande e Renzi hanno vantato a
proprio merito la permanenza della Grecia nella UE grazie alla continuità
garantita della stretta usuraia contro la Grecia. Il ballo dell'ipocrisia dei
vincitori ha chiarito una volta di più la vera natura dell'Unione Europea.
Incompatibile con ogni riforma sociale.
Più in generale, l'intera impostazione di Syriza si
era basata su un presupposto falso: quello di un “equo negoziato” tra debitore
e creditore. La logica del negoziato con i creditori espone per definizione il
paese debitore al prezzo delle inevitabili contropartite. Tanto più in presenza
di rapporti di forza obiettivamente impari. Ogni ristrutturazione del debito
(la sua riduzione, o l'allungamento dei tempi di pagamento, o l'abbassamento
degli interessi) va “pagata” con garanzie ai creditori. E i creditori chiedono
come pegno ulteriori sacrifici del debitore. Maggiori sono le richieste di ristrutturazione,
maggiori sono i sacrifici richiesti al debitore. Questa è la logica usuraia del
capitalismo reale. Non ne esiste un'altra . Questa verità è stata rivelata nel
caso greco una volta di più dal ruolo svolto dal FMI al tavolo negoziale. Il FMI
ha ripetutamente insistito per una ristrutturazione del debito greco, anche in
contrasto col ministro Schäuble, in ragione della sua obiettiva
“insostenibilità”. Molte voci progressiste in Europa, e in Grecia lo stesso
Tsipras, hanno più volte lodato questa disponibilità del FMI contrapponendo la
sua “lungimiranza” alla rigidità “ottusa” dei creditori europei. Con ciò
trascuravano uno spiacevole dettaglio: lo stesso FMI che proponeva la
ristrutturazione del debito greco insisteva per combinarla con contropartite
più rigorose da imporre alla Grecia. Lo scopo del FMI non era la beneficenza
alla Grecia ma la certezza del pagamento del suo debito ai propri azionisti
finanziari. Lo scopo più prosaico della Lagarde era quello di essere
riconfermata alla presidenza del FMI dai suoi azionisti appositamente tutelati.
Non a caso fu proprio il FMI, a fine giugno 2015, a far saltare un primo
accordo ufficiosamente siglato tra Grecia e creditori europei, attraverso il
rilancio di ulteriori condizioni ultimative al governo ellenico. Aprendo la via
ad una conclusione negoziale ancor più vessatoria per il popolo greco. E senza
neppure... ristrutturazione del debito.
La verità è che l'intero negoziato tra il primo
governo Tsipras e i creditori si è svolto sul terreno imposto dai creditori,
non certo sul programma di Syriza. È un aspetto cruciale. Coloro che anche a
sinistra hanno storto il naso di fronte all'esito del negoziato, magari
imputando a Tsipras un eccesso finale di arrendevolezza, non colgono che il
piano stesso del negoziato era inclinato verso quell'esito. Il famoso programma
di Salonicco, quello “realistico”, quello delle misure “certe e urgenti” a
favore del popolo, quello delle “linea rossa invalicabile” promessa a piazza
Syntagma, è stata infatti la prima vittima sacrificale del negoziato con i
creditori. Non l'esito finale, ma la premessa iniziale del negoziato. Il 20
febbraio, a meno di un mese dalla grande vittoria del 25 gennaio, il primo
accordo tra governo greco e creditori spazzava via in un solo colpo l'intero
programma delle riforme sociali promesse. L'accordo, che estendeva di sei mesi
l'assistenza finanziaria della Grecia da parte dei creditori, sanciva nero su
bianco la prima capitolazione di Tsipras. Il ministro Varoufakis così
formalizzava per parte greca i termini dell'accordo in una lettera a
Dijsselbloem: «Lo scopo della richiesta di proroga di sei mesi della durata
dell'accordo ha come obiettivo: a) accettare i termini finanziari e
amministrativi la cui attuazione, in collaborazione con le istituzioni,
stabilizzerà la posizione fiscale delle Grecia, permetterà di raggiungere
adeguati avanzi di bilancio primario, la stabilità del debito... b) garantire,
in collaborazione con i nostri partner europei e internazionali, che le nuove
misure siano integralmente coperte, mentre ci asterremo da azioni unilaterali
che potrebbero pregiudicare gli obiettivi di bilancio... c) consentire alla BCE
di reintrodurre l'esenzione in conformità ai suoi regolamenti... e) iniziare a
lavorare con i team tecnici circa un nuovo contratto per la ripresa e la
crescita tra Grecia, Europa, FMI... f) concordare circa la vigilanza di UE, BCE
e - con lo stesso spirito - del FMI per la durata dell'estensione
dell'accordo... g) discutere il modo di attuare la decisione dell'Eurogruppo
del novembre del 2012...». Il dato è inequivocabile: il 20 febbraio lo
stesso governo greco che aveva giurato “mai più la Troika” firmava la propria
subordinazione alla Troika . La rinuncia preventiva ad “azioni unilaterali” non
concordate annullava ogni spazio di manovra indipendente. L'obiettivo degli
“adeguati avanzi di bilancio primario” rispettava la continuità della logica
recessiva. Il richiamo alle “decisioni dell'Eurogruppo del 2012” riprendeva
persino formalmente la continuità del vecchio memorandum. Quello contro cui
Tsipras aveva vinto le elezioni. Non a caso il quotidiano di Confindustria in
Italia titolava “Per Syriza brusco risveglio dal sogno: il confronto tra le
promesse elettorali e l'accordo approvato è impietoso” (25 febbraio). Era la verità.
Scompariva l'aumento del salario minimo, lo stop alle privatizzazioni, il
ripristino della tredicesima sulle pensioni, l'aumento della soglia di
esenzione fiscale... Scompariva a maggior ragione ogni vagheggiamento di
Conferenze europee sul debito. Ricompariva invece in tutta la sua portata la
logica intatta dell'austerità. L'esatto contrario di quanto gli esimi
economisti Varoufakis e Galbraith avevano teorizzato. Dato questo piede di
partenza, era possibile pensare dopo sei mesi un altro sbocco?
LE LEGGI DEL CAPITALE
In realtà, durante l'intero arco dei sei mesi
successivi, il piano inclinato già imboccato fu ulteriormente piegato dalla
logica ferrea delle leggi materiali del capitale. L'estenuante braccio di ferro
tra Grecia e creditori circa l'applicazione dell'accordo del 20 febbraio non è
solo quello formale che si è svolto nelle stanze di Bruxelles o di Strasburgo,
tra creditori strozzini che massimizzavano le proprie richieste e un governo
greco che cercava di minimizzare le implicazioni pratiche di ciò che aveva
firmato per salvaguardare la propria base di consenso (e l'unità di Syriza). È
avvenuto ben altro. I creditori e la borghesia greca hanno usato a proprio
vantaggio tutte le leve di pressione del capitalismo reale, che il governo Syriza
aveva lasciato intatte nelle loro mani. I capitalisti greci, a partire dagli
armatori e dai grandi costruttori, hanno praticato la fuga dalle banche al
ritmo di 300 milioni al giorno. Si trattava degli stessi armatori cui
l'articolo 96 della Costituzione greca garantisce l'esenzione fiscale sui
profitti realizzati all'estero. Nel solo mese successivo alla vittoria
elettorale di Syriza i depositi delle banche sono scesi di oltre il 10%, da 164
a 147 miliardi. Mentre nello stesso periodo le prime quattro banche greche
(National Bank of Greece, Piraeus, Alpha e Eurobank) hanno lasciato sul terreno
il 40% della loro capitalizzazione (11 miliardi). Non era che l'inizio. La
crisi bancaria portava alle stelle il tasso d'interesse sui titoli di stato
della Grecia aggravando il dissesto finanziario del paese. La nuova caduta
recessiva dell'economia operava nella stessa direzione. Le banche greche
finivano sempre più sotto dipendenza della BCE e della sua assistenza
straordinaria (ELA). Ma la concessione dell'assistenza era a sua volta
vincolata alla tenuta patrimoniale delle banche assistite, chiamate a mostrare
la propria solvibilità, nel momento stesso in cui le loro azioni crollavano in
borsa per effetto della crisi. Il governo operava il sequestro delle disponibilità
finanziarie degli enti locali per tamponare il dissesto. Ma senza esito. Mentre
la continuità rispettosa del pagamento del debito ai creditori strozzini, ad
ogni scadenza comandata, contribuiva a svuotare le casse dello Stato. C'era un
solo modo di rompere l'assedio: adottare misure anticapitaliste. Tanto
drastiche quanto drastica era la situazione: nazionalizzare le banche per
bloccare la fuga dei capitalisti e garantire i risparmi popolari; espropriare
gli armatori e le loro fortune; cancellare il debito pubblico verso la Troika;
riversare sugli strozzini e sulla borghesia greca i costi della crisi. Una
politica rivoluzionaria avrebbe potuto organizzare e mobilitare le grandi
energie del popolo greco e favorire la mobilitazione in Europa. “Fare come la
Grecia” avrebbe potuto diventare la bandiera di riferimento di milioni di
sfruttati contro i propri capitalisti e i propri banchieri in tutto il vecchio
continente, rompendo immaginari populisti e nazionalisti, e ricostruendo una
frontiera internazionale classista. Ma l'impostazione generale di Syriza si
fondava sulla esclusione pregiudiziale di questa politica anticapitalista. La
bussola restava, contro ogni evidenza, il “compromesso onorevole” col
capitalismo greco e col capitalismo europeo. Nel momento stesso in cui il
capitalismo aggrediva il popolo greco e destabilizzava lo stesso governo della
Grecia.
LA CAPITOLAZIONE DI TSIPRAS
Nei mesi di giugno e luglio 2015 la morsa dei
creditori si è stretta al collo di un paese assediato. Ma non arreso. Il referendum
del 6 luglio resta una pagina importante di resistenza popolare al ricatto
capitalista. Per Tsipras il ricorso referendario fu un atto contrattuale di
replica al siluramento all'ultimo secondo di un accordo già virtualmente
concluso a fine giugno con i creditori. E serviva a coprirsi a sinistra per
liberare la via al recupero sostanziale e conclusivo dell'accordo raggiunto. Ma
per i lavoratori, per i giovani, per la popolazione povera di Grecia, l'”Oxi”
ai creditori era innanzitutto la riconferma di una volontà di svolta, di
rifiuto della rapina e del ricatto. Il valore del 62% di No ai creditori,
plebiscitario nelle città e tra i giovani, era tanto più rilevante a fronte di
quanto accaduto nella settimana del referendum: il rifiuto della BCE di estendere
l'assistenza alle banche greche; la chiusura delle banche; le restrizioni
indotte alla riscossione di prelievi e pensioni; una campagna ossessiva di
tutta la stampa borghese in Grecia e in Europa a sostegno del Sì e di
demonizzazione del No tesa a produrre il panico e la resa. Il No era dunque un
atto di ribellione di massa a tutto questo. Era di fatto una nuova e ultima
prova di appello a Syriza e a Tsipras. La piazza Syntagma del 13 luglio, la
piazza più affollata della storia greca del dopoguerra, misurava la reale
possibilità di trasformare l'entusiasmo orgoglioso di un popolo in forza
organizzata e leva di rottura anticapitalista. La scelta di Tsipras fu opposta:
la capitolazione ai creditori. Il licenziamento di Varoufakis, la convocazione
di una nuova maggioranza parlamentare di emergenza con i vecchi screditati
partiti del memorandum, la lacerazione verticale dello stesso partito di
Syriza, il varo di un nuovo governo amputato dei ministri più scomodi, offerto
come garanzia ai creditori.
Di certo i creditori non hanno premiato tanta
disponibilità. Al contrario. Tsipras aveva promesso “un accordo migliore” di
quello respinto dal referendum. Invece al tavolo cui ha scelto di sedere ha
dovuto pagare un prezzo assai più salato. E soprattutto l'ha pagato la
popolazione povera di Grecia. Oggetto non solo di una nuova aggressione
sociale, ma di una punizione politica: la punizione della ribellione del No,
quale ammonimento preventivo ai lavoratori e ai popoli degli altri paesi.
Se l'accordo del 20 febbraio 2015 aveva sancito il
ripristino della subordinazione alla Troika, l'accordo di sei mesi dopo (13
luglio) recava il prezzo sociale di quella subordinazione. Un prezzo terribile
e umiliante. Innalzamento dell'età pensionabile; taglio dell'85% dei sussidi alle
pensioni minime; aumento dell'IVA su beni alimentari e di prima necessità;
allargamento delle privatizzazioni; nuova demolizione della contrattazione
collettiva; nuovo incremento dell'avanzo primario nelle politiche di bilancio;
infine il pignoramento dei beni pubblici della Grecia quale garanzia di ultima
istanza alla Troika, e sotto la vigilanza della Troika. Il tutto in cambio
della promessa di 85 miliardi di “aiuti” che serviranno unicamente a due scopi:
consentire alla Grecia di continuare a pagare agli strozzini un debito pubblico
ulteriormente accresciuto, dentro una rincorsa senza fine; ricapitalizzare le
banche greche, ossia riempire i buchi provocati nei loro patrimoni e bilanci
dalla fuga dei capitalisti greci (naturalmente coi soldi presi dalle tasche dei
lavoratori europei). Un accordo, dunque, contro i lavoratori greci e contro i
lavoratori europei.
Ma anche un accordo politicamente disastroso su
scala continentale.
Le borghesie di tutta Europa presentano la
capitolazione di Tsipras come la prova provata dell'impossibilità di ogni
resistenza alle leggi superiori del mercato: “se persino Tsipras si è arreso”,
la resa non ha alternative. Parallelamente, l'accordo tra Tsipras e creditori è
cibo prezioso per la demagogia reazionaria del populismo nazionalista:
l'immagine della “Germania che umilia la Grecia”, e della “sinistra greca che
regala la Grecia alla Germania” indebolisce ogni demarcazione classista a
vantaggio della demarcazione sovranista. A beneficio di Alba Dorata, di Le Pen,
della Lega e del M5S, tutti saliti in groppa, in forme diverse, alla
capitolazione del governo greco: l'“alternativa vera siamo noi. L'unica
alternativa è la Nazione e la Sua Moneta”.
IL BILANCIO STORICO DI UN FALLIMENTO RIFORMISTA
La vicenda greca è tutt'altro che chiusa. La natura
stessa di un accordo economicamente insostenibile, assieme alle accresciute
contraddizioni nella UE che l'intera vicenda ha trascinato con sé, aprono
prospettive di instabilità. Nella stessa Grecia lo scenario politico è in
movimento, a partire dalla vicenda interna di Syriza, con la possibilità di
nuove crisi politiche e cambi di scenario. L'immagine pubblica di Tsipras
sembra reggere, nonostante il trauma dell'accordo, in assenza di alternative
credibili. Ma alla sua sinistra possono svilupparsi nuove ricomposizioni. E le
stesse masse oggi provate da una estenuante prova di forza e dagli effetti
della delusione, potranno prendere nuovamente parola, riaprendo dal basso nuove
prospettive.
E tuttavia un ciclo si è chiuso. I primi sei mesi
del governo Syriza configurano un'esperienza compiuta, di inestimabile valore
politico. Nell'Europa capitalista non è disponibile uno spazio storico
riformista. L'alternativa reale è tra rivoluzione sociale o regressione
storica. Il rifiuto di una prospettiva rivoluzionaria trascina la capitolazione
alle controriforme: questa è la lezione di fondo dell'esperienza del primo
governo Tsipras. La parabola di Syriza dal 2012 al 2015 (moderazione
progressiva del programma riformista originario e ricerca di legittimazione
interna e internazionale presso le classi dominanti; accesso al governo sulla
base di un programma riformista minimo; primo accordo coi creditori e
conseguente accantonamento del programma riformista; secondo accordo coi
creditori sulla base di un programma di drastiche controriforme sociali) è la
metafora concentrata nel tempo di questa verità.
Colpisce, a bilancio, l'insostenibile leggerezza del
programma riformista di Syriza e dei suoi riferimenti culturali e storici. Il
libro “La sfida di Atene” di Dimitri Deliolanes riporta le lodi di Tsipras
all'esperienza del primo governo della sinistra greca a guida PASOK, nel 1981,
attorno alla figura di Andreas Papandreu. Tsipras sembra assumere
quell'esperienza come riferimento esemplare per Syriza, in contrapposizione al
successivo tradimento del PASOK riformista da parte del liberista Simitis.
Ricorda la redistribuzione della ricchezza, l'estensione della previdenza
pubblica, l'ampliamento del sistema sanitario, l'allargamento delle libertà
democratiche. Avrebbe potuto ricordare anche alcune nazionalizzazioni
emblematiche come quella della Piraiki Patraiki, la più grande industria
tessile del Balcani. Ma il piccolo particolare è che quell'esperienza di
riformismo borghese maturò in un contesto storico assai diverso dall'attuale.
Era un contesto ancora segnato dalla presenza internazionale dell'Unione
Sovietica. E la prima preoccupazione dell'imperialismo americano e della
borghesia greca era evitare che la caduta del regime fascista dei colonnelli
greci (1967/1973), e poi del governo parlamentare della destra di Karamanlis,
potesse aprire la via di una dinamica rivoluzionaria anticapitalista. Il ruolo
del PASOK fu esattamente quello di incanalare in un alveo istituzionale
controllato la pressione di massa della classe operaia greca. Le riforme
sociali erano figlie di questa operazione. Inoltre, il contesto economico
capitalistico era molto diverso. Nonostante l'arresto del boom postbellico alla
metà degli anni '70, l'economia europea ancora beneficiava dell'effetto
inerziale della stagione precedente con relativi margini di grasso. Quelli che
avevano alimentato la crescita della Spagna capitalista del postfranchismo
sotto la direzione di Gonzales. Quelli che ancora beneficiavano la Grecia -
entrata nel 1980 nella Comunità Europea - con fondi cospicui riservati al
welfare e all'agricoltura. È possibile fondare su questo richiamo storico
l'attualità di un programma riformista oggi?
Ma l'argomento che meglio esemplifica l'illusione
riformista di Syriza sta nell'assunzione della Conferenza europea di Londra del
1953, col relativo taglio del debito tedesco, quale paradigma di riferimento
per una analoga conferenza europea sul debito greco e continentale.
È vero: la Germania ha conosciuto nel secolo scorso ripetute ristrutturazioni del proprio debito. Ma solo in virtù dell'esistenza dell'Unione Sovietica.
La prima ristrutturazione del debito fu dopo la
prima guerra mondiale. I Trattati di Versailles del 1919 umiliarono la Germania
imponendole gravosi pagamenti delle riparazioni di guerra. Ma la paura del
contagio della rivoluzione bolscevica - innanzitutto in Germania - indusse le
potenze vincitrici e creditrici a ripetuti condoni. Prima col piano Dawes del
1924, poi con il piano Young del 1929, si provvide a ristrutturare il debito
delle riparazioni, che si convenne sarebbero state pagate in 59 rate annuali,
di cui l'ultima con scadenza nel 1988. Il pagamento delle riparazioni fu ancora
sospeso nel 1931, a ridosso della grande crisi capitalistica mondiale che si abbatté
sulla stessa Germania, in attesa di un nuovo accordo. L'avvento di Hitler
cambiò naturalmente il quadro.
Un nuovo accordo di ristrutturazione del debito
tedesco subentrò successivamente alla seconda guerra. La Germania era stata
divisa dalle truppe di occupazione, tra la parte occidentale e la parte
orientale sotto controllo russo. La Conferenza di Londra, con la riduzione del
debito tedesco del 60%, intervenne in questo contesto. Salvare la Germania
capitalista non era solo una scelta economica, ma anche e soprattutto una
scelta politica: si trattava di investire nella cortina di ferro antisovietica
in funzione delle esigenze della guerra fredda. Il gigantesco piano Marshall in
Europa, l'investimento nel piano da parte degli USA del 4% del PIL americano,
era figlio di questa operazione strategica. La potente espansione produttiva
dell'Occidente capitalista del dopoguerra forniva una sicura base materiale
alla riduzione del debito tedesco. Ma ancora una volta era la presenza
dell'URSS, quale eredità seppur trasfigurata della rivoluzione d'Ottobre, a
determinare un intervento d'eccezione a favore della Germania. Come è possibile
trasferire questo esempio storico dentro un quadro politico mondiale
drasticamente mutato, e per di più sullo sfondo della più grande crisi del
capitalismo europeo?
Nulla chiarisce meglio l'abbaglio del riformismo di
Tsipras quanto gli esempi storici di cui si nutre. La nostalgia dei trent'anni
gloriosi che non torneranno più.
La sconfitta di Tsipras è la sconfitta della
sinistra europea. Essa si era affidata alla locomotiva greca assumendola a
proprio faro e guida. Ne aveva assunto la cultura e i miti (la Conferenza
europea sul debito), amplificandoli su scala continentale. Attorno ad essa
aveva provato a rilanciare le proprie fortune politiche nel nome di un nuovo
possibile compromesso riformatore tra capitale e lavoro in Europa.
Quell'investimento si è trasformato in un boomerang. Il fatto che larga parte
dei gruppi dirigenti delle sinistre riformiste nei diversi paesi abbiano approvato
o giustificato l'accordo tra Tsipras e creditori, affermando che “al suo posto”
avrebbero fatto altrettanto (da Iglesias di Podemos a Laurent del PCF, da
Garzon di Izquierda Unida a Vendola e Ferrero in Italia), misura sicuramente la
fedeltà al marchio del proprio investimento. Ma rappresenta anche una
confessione in piena regola della sottomissione del riformismo alla società
borghese. Quando il conflitto sociale precipita, quando lo scontro tra capitale
e lavoro annulla ogni margine di mediazione, rinvio, evasione letteraria,
quando insomma s'impone una drammatica scelta di campo, i gruppi dirigenti
riformisti scelgono il capitale contro il lavoro, in cambio, ove possibile, di
incarichi ministeriali. Anche al prezzo di sottoscrivere le misure di austerità,
antioperaie e antipopolari, che i loro programmi formalmente negano e
combattono. Da questo punto di vista la collocazione internazionale della
sinistra europea sulla vicenda greca è la riproduzione allargata delle proprie
esperienze di governo in patria. A partire, più che in ogni altro caso, dalla
sinistra riformista italiana.
L'AUTOEPITAFFIO DI VAROUFAKIS
Yanis Varoufakis, quando era ancora ministro,
scrisse un pamphlet di involontario umorismo, raccontando le contraddizioni
esistenziali della propria esperienza ministeriale: «... Indirizzandoci a
platee eterogenee che vanno dagli attivisti radicali ai gestori dei fondi
speculativi, l'idea è quella di creare alleanze strategiche persino con persone
di destra con le quali condividiamo un semplice interesse:... porre fine al
circolo vizioso tra austerità e crisi... Probabilmente non farò a tempo a
vedere adottato un programma più radicale... Io so di correre il rischio di
alleviare la tristezza dell'abbandonare ogni speranza di sostituire il capitalismo
nel corso della mia esistenza, indulgendo nel sentimento di essere diventato
gradevole agli occhi degli appartenenti ai circoli della buona società...
Costruendo alleanze con forze reazionarie, così come penso dovremmo fare per
stabilizzare l'Europa odierna, si corre il rischio di venire cooptati... Se
dobbiamo stringere patti col diavolo (col Fondo Monetario Internazionale)...
dobbiamo evitare di diventare come i socialisti che non riuscirono a cambiare
il mondo ma riuscirono a migliorare la propria situazione personale... Il
trucco è evitare il massimalismo rivoluzionario che alla fine aiuta i
neoliberisti ad aggirare ogni opposizione... ma allo stesso tempo mantenere la
nostra visione del capitalismo come intrinsecamente malvagio, mentre cerchiamo
di salvarlo, per motivi strategici, da se stesso...».
Nessuna confessione poteva riassumere in termini più
efficaci la disperazione di un ministro riformista: la sua rassegnazione al
capitalismo “malvagio”, da “salvare” e “stabilizzare”, in cambio della pretesa
purezza della propria “visione” e coscienza individuale. Non sappiamo della
coscienza di Varoufakis. Sappiamo invece che la rivendicata salvazione del
capitalismo, contro la rivoluzione, condanna gli sfruttati a un futuro di
miseria. Senza neppure assicurare al ministro esuberante... la cooptazione
consolatoria nel potere. Varoufakis potrà vendicarsi del proprio fallimento con
qualche libro e qualche fortuna editoriale. La classe operaia greca ed europea
ha sicuramente bisogno di un altro programma e di un'altra direzione. Un
programma e una direzione rivoluzionari.
Marco Ferrando
1) http://jesopazzo.org/index.php/blog/128-cosa-ci-insegna-la-grecia
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