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mercoledì 24 febbraio 2021

L'UCCISIONE DELL'AMBASCIATORE ITALIANO E L'IPOCRISIA DELL'IMPERIALISMO TRICOLORE

 


L'uccisione in Congo dell'ambasciatore italiano e del carabiniere di scorta, per responsabilità ancora ignote, occupa in queste ore l'informazione pubblica. Molti sono i riferimenti alla storia professionale e di vita delle due vittime. Spicca su tutte la nota diffusa da Elisabetta Belloni, segretario generale della Farnesina: «L’Ambasciatore d'Italia nella Repubblica Democratica del Congo, Luca Attanasio, e il Carabiniere Vittorio Iacovacci sono rimasti vittime di una violenza che non riusciamo a capire e ad accettare. Un diplomatico e un carabiniere sono morti insieme, in un Paese lontano dove lavoravano al servizio dell’Italia.» (Corriere della Sera, 23 febbraio).

Domanda: qual è invece la violenza che il ministero degli Esteri riesce ad «accettare e capire» in Congo? I milioni di bambini di sette-otto anni che lavorano per 12 ore al giorno nelle miniere congolesi sotto il controllo delle multinazionali? Oppure le bambine di undici anni ammassate nei bordelli delle bidonville minerarie del Paese? Oppure il più alto tasso di stupri al mondo registrato proprio nella Repubblica “Democratica” del Congo? L'indignazione del Ministero degli Esteri scatta evidentemente a corrente alternata.

 IL CRIMINE IN CONGO

La Stampa (FCA) parla oggi del Congo, in un suo commosso editoriale, come di un «paese sfortunato». Ipocrita! Si tratta di un paese saccheggiato proprio in ragione delle sue fortune. Il cobalto è la materia prima che sorregge l'intera produzione informatica. La rivoluzione annunciata dell'auto elettrica è affidata al cobalto. Il Congo concentra nella propria terra il 60% del cobalto prodotto nel mondo. È un tasso di concentrazione territoriale che non ha punti di paragone con nessuna altra materia prima sull'intero pianeta. Tutto questo spiega perché il Congo è terra di conquista e di spartizione tra tutte le potenze imperialiste. La Cina controlla da sola con proprie società il 50% del cobalto congolese. Il resto è spartito tra colossi USA ed europei. Apple, Daimer, Huawei, Lenovo, Microsoft, Sony, Vodafone, Volkswagen... tutte le grandi multinazionali del mondo intero attingono al pozzo del Congo. O dispongono direttamente di proprie miniere o si riforniscono da miniere artigianali messe su da signorotti locali che sfruttano manodopera schiavile.

Questo per parlare solo del cobalto. Ma il Congo ha anche invidiabili giacimenti di coltan, oro, diamanti, cassiterite, manganese, argento, zinco, uranio, petrolio. L'italianissima ENI, che è la principale azienda straniera in Africa, ha in Congo propri giacimenti.

 Ognuna di queste materie prime trascina una guerra per l'accaparramento senza risparmio di colpi. Le centinaia di milizie private che infestano la Repubblica Democratica del Congo hanno qui la propria radice. Ogni padrone delle miniere si circonda di guardie private che tutelano la sua proprietà. La burocrazia supercorrotta dello Stato lascia fare; l'esercito regolare è connivente.

 

E l'ONU? L'ONU è presente da vent'anni nella Repubblica Democratica del Congo con ben 15000 soldati di 49 Paesi per “proteggere i civili e mantenere la pace”, come recita formalmente la sua missione. Ma la pace presidiata dalle Nazioni Unite è quella dello sfruttamento e delle guerre per il controllo dello sfruttamento. Per di più, lo stesso Corriere della Sera è costretto a dire a malincuore che la fama delle truppe ONU non è immacolata, perché corruzione e stupri compiuti da caschi blu hanno più volte macchiato la bandiera delle Nazioni Unite, anche in Congo. A proposito di influenze ambientali.

 UNA STORIA TERRIBILE DI COLONIALISMO

Nulla di nuovo, in realtà. Il Congo è terra di saccheggio per mano dell'imperialismo da un secolo e mezzo. Dal 1885 al 1908 fu addirittura proprietà privata del re del Belgio Leopoldo II, che gestì in prima persona lo schiavismo. Dal 1908 divenne colonia statale belga e lo rimase sino al 1960. Diverse generazioni di congolesi passarono sotto le forche caudine di una repressione sanguinosa, la pagina peggiore del colonialismo belga.

L'indipendenza strappata nel 1960 non mutò la condizione del Congo. Il primo presidente eletto Patrice Lumumba fu rovesciato e assassinato dopo meno di un anno da un colpo di stato diretto dalle gerarchie militari e sostenuto da Belgio ed USA. Iniziò allora il regime di Mobutu, il più longevo e spietato regime dittatoriale nell'Africa nera, che durò sino al 1997. Un regime che seppe a lungo equilibrarsi tra i buoni rapporti col blocco sovietico (in particolare col rumeno Ceausescu) e gli ottimi rapporti con l'imperialismo USA, presentandosi agli uni e agli altri come garante dei rispettivi interessi in Africa. Dopo il crollo dell'URSS, saltati i vecchi equilibri continentali, il Congo divenne teatro delle due cosiddette “guerre mondiali africane”, la prima nel 1996-1997, la seconda tra il 1998 e il 2003. Vi presero parte fino a sei stati limitrofi, vi morirono più di quattro milioni di persone. Il terribile conflitto etnico tra Hutu e Tutsi in Ruanda nel 1994, con responsabilità decisive dell'imperialismo francese, ha fornito carburante alle guerre africane per via diretta o indiretta. Anche il Congo ne ha subito gli effetti.

 LA FUNZIONE DI UN'AMBASCIATA

Il Congo di oggi è il degno erede di questa storia terribile, la storia di un crimine che si chiama capitalismo. Questo è lo sfondo della stessa uccisione dell'ambasciatore italiano e della sua scorta.

Non sappiamo se gli aggressori sono criminali comuni dediti a rapimenti o se si tratta di milizie politicamente targate, e nel caso quale sia il loro marchio (se quello islamico integralista ugandese delle ADF o quello delle Forze democratiche di liberazione o quello dei cosiddetti Mai-Mai). Sappiamo che il personale diplomatico è esposto a rischi fisiologici per la natura stessa del suo ruolo. L'ex ministra Paola Severino, nel commentare l'accaduto, ha citato en passant la triplice funzione della diplomazia in questi paesi: diplomazia politica, diplomazia giuridica, diplomazia economica. Significa un lavoro di relazione con le strutture dello stato ospitante, ma anche con poteri territoriali, capi tribali, leader di zona.

«Attanasio il giorno prima era stato a Bukavu e aveva incontrato i maggiorenti e i leader della zona. [...] Anche a Ritshuru, dove era diretto, avrebbe dovuto vedere i capi locali e inaugurare alcune strutture donate dall'ONU. [...] Ma tra la popolazione qualcuno ce l'aveva con gli italiani. Molta gente qui è convinta che siano stati firmati dei contratti di estrazione petrolifera tra ENI e governo centrale di Kinshasa. E i notabili del posto, rimasti a bocca asciutta, hanno minacciato ritorsioni e vendette». Così scrive il Fatto Quotidiano (23 febbraio). Non sappiamo quali siano le fonti né se questa sia la pista giusta per individuare gli autori dell'accaduto, ma certo sappiamo che la funzione di un'ambasciata (e di un ambasciatore) è un po' più complicata dell'immagine da libro Cuore che ci confeziona la retorica tricolore di queste ore. E che l'imperialismo è anche questione di casa nostra.

 

Partito Comunista dei Lavoratori

sabato 13 febbraio 2021

HENKEL ANNUNCIA LA CHIUSURA DELLO STABILIMENTO DI LOMAZZO. IL 17 FEBBRAIO INDETTO LO SCIOPERO IN TUTTA ITALIA

 

Fonte: Ansa – Giorgio Malatesta 

 


 

La multinazionale tedesca Henkel ha comunicato ieri la decisione di chiudere lo stabilimento di Lomazzo (Como) entro il mese di giugno. Lo stabilimento, nato nel 1933, è stato il primo sito produttivo in Italia della multinazionale, produce detersivi e dà lavoro a 84 dipendenti ai quali ne vanno aggiunti altri 46 delle cooperative collegate.

I sindacati Filctem Cgil, Femca Cisl, Uiltemp Lombardia hanno indetto una giornata di sciopero per mercoledì 17 di tutte le unità Henkel in Italia e da subito lo stato di agitazione permanente, oltre al blocco di flessibilità e prestazioni straordinarie per tutto il gruppo. "Le motivazioni comunicate dalla direzione, fanno riferimento ad un calo di produzione a livello italiano - scrivono i sindacati - cosa smentita da loro stesse dichiarazioni di solo due mesi fa, che evidenziavano le capacità produttive del sito di Lomazzo, che ha sempre risposto con efficienza e tempestività alle necessità produttive. La sua chiusura avrebbe un enorme impatto sociale ed economico in un territorio che vista la forte presenza di industrie tessili, le più colpite dalla fase pandemica, rischia già di vivere una diffusa condizione di difficoltà. L'azienda opera in un comparto, quello della detergenza, che nell'ambito del gruppo non registra andamenti negativi dei volumi, inoltre in una fase come quella che stiamo vivendo la responsabilità sociale delle imprese, richiamata anche nelle indicazioni del Contratto Nazionale del settore chimico, viene completamente disattesa".

mercoledì 3 febbraio 2021

IL VOLO DEI DRAGHI

 

La crisi della Repubblica

 

L'incarico a Mario Draghi è la misura della profondità della crisi. Nella più grande crisi capitalista del dopoguerra, la borghesia italiana non è riuscita a risolvere per via ordinaria una soluzione della propria crisi politica. I padroni hanno trovato il proprio mandatario

 


 

La Borsa vola, precipita il differenziale di interesse tra Btp e Bund. Il capitale finanziario saluta stamane a modo suo l'annunciata investitura di Mario Draghi quale futuro Presidente del Consiglio. È insieme l'attesa di una sospirata stabilità politica e la smisurata fiducia nella persona. Colui che tutta la stampa borghese presenta come il salvatore della patria con un tocco di pagana idolatria.

 

 

L'INTERESSE SUPERIORE DEL CAPITALE FINANZIARIO

 

Come scriveva Marx, la borghesia presenta sempre come interesse generale il crudo interesse della propria classe. Mario Draghi è un caso emblematico. Quale servitore dello Stato borghese egli ha svolto con disciplina e onore le proprie funzioni per trent'anni. Prima come Direttore generale del Ministero del Tesoro negli anni cruciali dell'ingresso nell'Euro (1991-2001), poi come Governatore della Banca d'Italia (2005-2011), infine come Presidente della BCE durante la grande crisi capitalista del 2008-2012. La sua stella polare, nella diversità dei ruoli, è stata sempre una sola: l'interesse del grande capitale. Negli anni '90 sponsorizzando la distruzione della scala mobile, la precarizzazione del lavoro, l'onda lunga delle privatizzazioni, dentro il quadro delle politiche di concertazione. Negli anni 2000 con la famigerata lettera della BCE (2011) che prescriveva tagli drastici alle spese sociali per pagare il debito pubblico alle banche in cambio dell'ombrello protettivo sui titoli di stato italiani.

“È colui che ha svenduto l'Italia alla finanza tedesca” gridano i sovranisti di ogni colore un tanto al chilo. È vero l'opposto: Draghi ha coinvolto la Bundesbank obtorto collo nella protezione del capitalismo italiano sul mercato finanziario internazionale. Ciò che industriali e banchieri tricolori hanno capito benissimo, a differenza di tanti imbecilli.

 

Ora il mandato che Mattarella gli affida è più impegnativo dei precedenti. La crisi in corso è più profonda che dieci anni fa, la pandemia ne moltiplica durata ed effetti, il declassamento di ampi settori di piccola borghesia restringe la base sociale d'appoggio dei governi in carica, e non solo in Italia. Ma soprattutto è diverso lo scenario politico che fa da sfondo. Nei primi anni '90 la caduta della "prima repubblica", tra il crollo dell'URSS e Tangentopoli, spinse una ristrutturazione complessiva del sistema politico-istituzionale attorno all'alternanza di due poli di governo, centrosinistra e centrodestra. Un equilibrio che per più di vent'anni ha incardinato le stesse politiche borghesi. Ma proprio questo equilibrio politico è franato dieci anni fa, sotto la pressione della grande crisi capitalista. Il governo di salute pubblica di Mario Monti fu il notaio di questo decesso, e al tempo stesso il volano del ciclo populista, quando milioni di salariati allo sbando cercarono nel grillismo, poi nel renzismo, e infine nel salvinismo la soluzione (reazionaria) della propria crisi, in risposta all'abbandono e al tradimento della sinistra. Ma un equilibrio nuovo non è stato trovato. La vicenda rocambolesca della presente legislatura, con due governi di diverso segno ma con lo stesso Presidente del Consiglio ed entrambi franati, ne è una testimonianza impietosa.

È un fatto: nella più grande crisi capitalista del dopoguerra, la borghesia italiana non ha trovato per via ordinaria una soluzione della propria crisi politica. Una crisi che minaccia l'intera Unione Europea, perché investe la seconda potenza industriale del continente.

 

 

LE INCOGNITE DI UNO SCENARIO POLITICO INSTABILE

 

L'incarico a Mario Draghi è la misura della profondità della crisi. È un tentativo di commissariamento della politica borghese nell'interesse superiore della borghesia italiana e della UE. Sotto questo profilo assomiglia alla soluzione Monti del 2011. Verificata l'impraticabilità di una ricomposizione della maggioranza parlamentare uscente, la presidenza della Repubblica ricorre ad una soluzione straordinaria di emergenza nazionale, all'insegna della “salvezza del Paese”.

Vedremo nelle prossime ore se il Presidente incaricato troverà una maggioranza parlamentare sufficientemente ampia su cui appoggiarsi. Il quadro politico è assai più frantumato che ai tempi di Monti: la principale forza parlamentare, il M5S, è attraversata da movimenti tellurici potenzialmente deflagranti, il PD è percorso da convulsioni irrisolte, la stessa alleanza di centrodestra registra crepe profonde. Ma la forza di Draghi sta nel fatto di essere davvero l'ultima diga di sistema, oltre che l'ultima barriera rimasta contro elezioni anticipate che falcerebbero tutte le forze politiche con l'unica eccezione di Fratelli d'Italia. Che infatti è l'unico partito che le chiede davvero.

 

Di certo Draghi ha dalla sua la militanza delle organizzazioni padronali, a partire dalla Confindustria di Carlo Bonomi. La polemica di Draghi contro il “debito cattivo” a favore del “debito buono” sulle colonne del Financial Times è musica per le orecchie del capitale. Significa che i soldi a debito per assistere un operaio licenziato sono sprecati, mentre diventano produttivi se intascati dal padrone che lo licenzia. La povertà è una colpa, il profitto una virtù. I vertici di Confindustria hanno trovato il proprio mandatario.

 

Di certo affidare a Draghi la gestione dei duecentonove miliardi di fondi europei significa metterli in mani sicure: una nuova messe di miliardi freschi nelle tasche dei padroni in larga misura scaricati sul debito pubblico, quindi sulla schiena di quella Next generation nel cui nome sono versati.

Non solo. Trattandosi in larga misura di prestiti sul mercato finanziario continentale, richiederanno precise condizioni, a partire dal controllo del debito pubblico. La riforma degli ammortizzatori sociali e l'abolizione dell'elemosina di "quota 100" sono già sul conto dell'operazione. Chi meglio di Draghi può farsi garante in sede europea ? Lo stesso vale per lo sblocco dei licenziamenti. Confindustria chiede che il rinnovo del blocco riguardi tutt'al più e per breve tempo le aziende già assistite dalla cassa Covid, non le altre. Che è come dire che va data libertà di licenziare alle aziende che vanno bene e fanno profitti, essendo le altre assistite dallo Stato. Già il ministro Gualtieri, non a caso sponsorizzato da Bonomi, aveva predisposto tale soluzione. Chi meglio di Draghi può garantire la sua esecuzione?

 

 

L'ALLINEAMENTO DI LANDINI A DRAGHI

 

Tanto più in questo quadro è illuminante, ma non sorprendente, il comportamento della CGIL e del suo segretario. Maurizio Landini già in queste ore ha sentito il bisogno di allinearsi all'unità nazionale. Quando il capitale chiama, la burocrazia sindacale risponde. Più il capitale è in difficoltà, più la mano soccorritrice si allunga. Negli anni '90 si regalò ai padroni la scala mobile. Negli anni 2000 l'abbattimento delle tasse sui profitti, con l'IRES passata in un solo anno dal 34% al 27,5% (col voto, ahinoi, di Rifondazione Comunista). Nel 2012 si diede il lasciapassare alla riforma Fornero sulle pensioni. Ogni volta colpendo gli operai o abbandonandoli alla scure padronale. Ogni volta offrendo alle destre peggiori un terreno di pascolo tra i salariati. Perché oggi dovrebbe essere diverso? Landini ha già prostrato la CGIL ai piedi di Giuseppe Conte, e ha già offerto a Bonomi un'«intesa di sistema», come lui stesso l'ha definita. Potrebbe forse mostrarsi insensibile all'attuale richiamo patriottico? La burocrazia si sente un'istituzione della Repubblica. A modo suo lo è. Le offre la pace sociale in cambio di un riconoscimento di ruolo. Landini chiede semplicemente a Draghi di riconoscere questa funzione calmieratrice della CGIL. Gliel'ha riconosciuta Bonomi, la riconoscerà anche Draghi. Il quale già nella dichiarazione di investitura ha rivendicato non a caso la collaborazione tra le parti sociali e la loro coesione.

 

 

PER UN FRONTE UNICO DI CLASSE E DI MASSA

 

Di certo, nel caso che un nuovo governo di unità nazionale dovesse insediarsi – ipotesi al momento ancora virtuale – sarà necessario aggiornare il confronto in tutta l'opposizione di classe. La parola d'ordine del fronte unico della classe operaia contro il fronte unico padronale assumerà ancor di più in quel caso una valenza politica centrale. Sul terreno sindacale come sul terreno politico, tutte le organizzazioni di classe andranno chiamate a serrare le file attorno ad una piattaforma di mobilitazione unitaria. Ogni organizzazione andrà messa di fronte alle proprie responsabilità.

La piattaforma del patto d'azione e della assemblea delle lavoratrici e dei lavoratori combattivi acquista tanto più oggi una valenza centrale, e al tempo stesso dovrà misurarsi con un livello di scontro obiettivamente superiore, già peraltro annunciato dallo sblocco dei licenziamenti.

 

Costruire una risposta proporzionale all'attacco significa lavorare oggi più di ieri a un fronte unico di classe e di massa, fuori da ogni logica o tentazione di autorecinzione minoritaria. Unire l'azione dell'avanguardia per unire la massa dei lavoratori e delle lavoratrici è e sarà in ogni caso la bussola politica del nostro partito, dentro la prospettiva più generale di un'alternativa anticapitalista.

 

Partito Comunista dei Lavoratori