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sabato 30 gennaio 2021

PFIZER, ASTRAZENECA, MODERNA... LA VACCINAZIONE DI MASSA OSTAGGIO DEL PROFITTO

 

Il mercato e la concorrenza imperialistica non fanno eccezione per la produzione e la distribuzione di vaccini, e quindi per le vaccinazioni. Di fronte alla più grande pandemia degli ultimi cento anni, la vita dell'umanità è ridotta a variabile dipendente del profitto

 


 

La campagna europea per la vaccinazione di massa era partita con grande squillo di trombe. Non era e non è solamente una campagna propagandista tesa a celebrare il volto umanitario dell'Unione Europea di fronte al contagio. Era ed è anche un investimento strategico nella ripresa economica del capitalismo continentale dopo la grande recessione del 2020, un investimento decisivo sul terreno della competizione mondiale con l'imperialismo USA e l'imperialismo cinese.

 

Ma il diavolo fa le pentole dimenticandosi dei coperchi. I colossi capitalistici della farmaceutica, gli uni contro gli altri armati, hanno prima incassato le regalie pubbliche dei rispettivi Stati e ora tagliano la produzione del vaccino. È il caso dell'americana Pfizer, poi dell'anglo-svedese AstraZeneca, infine dell'americana Moderna. L'obiettivo è tanto cinico quanto semplice: sfruttare il proprio peso monopolista per alzare i prezzi pattuiti, vendere i vaccini a clienti più compiacenti (magari perché più ricchi o più ricattabili), privilegiare i propri stati nazionali di riferimento, usare in ogni caso senza pudore la segretezza dei contratti stipulati con UE, a tutela dei propri brevetti e dei relativi affari.

 

I governi imperialisti della UE e la loro Commissione protestano ora per le mancate consegne, e “chiedono” ai colossi farmaceutici di poter “pubblicare” i contratti. Il fatto stesso di dover chiedere ad azionisti privati il permesso di pubblicare contratti che riguardano l'interesse pubblico dell'umanità è già di per sé indicativo della natura della società capitalista. Oltretutto le case farmaceutiche hanno buon gioco nel rivendicare il sacro diritto della concorrenza a tutela dei propri brevetti: è la legge del mercato, bellezza! Quella stessa legge che i governi capitalisti di tutto il mondo invocano ogni giorno per giustificare la compressione dei salari, i licenziamenti di massa, la distruzione dei diritti, il taglio delle spese sociali... Si tratta dell'interesse mondiale dei capitalisti a continuare a scannarsi tra di loro sul mercato mondiale prendendo in ostaggio i propri salariati e arruolandoli nelle proprie guerre.

 

Ora l'esigenza di ripresa dell'economia capitalistica mondiale richiederebbe una gigantesca e rapida produzione di massa dei vaccini su scala planetaria. Ma la concorrenza sul mercato dei diversi Stati o poli imperialisti si riflette sui processi di vaccinazione, i loro tempi e le loro forme. Anche la vaccinazione è diseguale e combinata, come l'anarchia del capitalismo mondiale. Pfizer e Moderna privilegiano il proprio imperialismo USA, impegnato innanzitutto a contrastare la Cina. AstraZeneca tutela in primo luogo l'imperialismo inglese, impegnato nella complessa gestione della Brexit. Gli imperialismi continentali europei arrancano in salita sgomitando tra loro, in inferiorità di mezzi. Si pensi solo che l'Unione Europea ha previsto per il piano di vaccinazione due miliardi e settecento milioni, gli USA ne hanno investito diciotto. La disparità di potenza si occupa a modo suo della salute.

 

E ora? La Commissione Europea si divide sul da farsi, a seconda degli interessi nazionali in gioco. L'Italia minaccia ricorsi legali contro Pfizer e AstraZeneca. I governi nordici, a partire dalla Svezia, rimproverano alla Commissione di essersi mossa in ritardo e difendono i diritti contrattuali dei colossi. Germania e Francia dal canto loro si affidano alle soluzioni di outsourcing delle case farmaceutiche, auspicando liberi accordi tra interessi privati foraggiati da nuovi aiuti pubblici, come quello che vede la francese Sanofi produrre insieme a Pfizer e BioNTech (tedesca) 125 milioni di dosi del farmaco.

L'unico elemento certo è che di fronte alla più grande pandemia degli ultimi cento anni, la vita dell'umanità è ridotta a variabile dipendente del profitto, mentre le spese militari aumentano vertiginosamente a tutte le latitudini del mondo, assieme al volume d'affari delle Borse. Nel mondo dell'intelligenza artificiale e dei miracoli della scienza, la vita umana resta segnata dalla legge della giungla. «Genio tecnico e idiozia sociale», così Trotsky definì il capitalismo alla vigilia della Seconda guerra mondiale. Una caratterizzazione perfetta anche per l'oggi.

 

La vaccinazione di massa, rapida e universalmente disponibile, è un'esigenza primaria dell'umanità.

 

Via il segreto commerciale sui contratti stipulati fra gli Stati e le case farmaceutiche: tutti hanno diritto di conoscere ciò che riguarda la loro vita!

Via i brevetti a tutela dei profitti: le conquiste della scienza medica vanno subito messe al servizio di tutto il genere umano!

Nazionalizzazione senza indennizzo e sotto il controllo dei lavoratori dell'industria farmaceutica, in ogni paese e su scala mondiale, per sviluppare una produzione di massa pianificata dei vaccini e la loro distribuzione sull'intero pianeta in base ai bisogni di tutti e di tutte!

 

Liberare l'umanità del capitalismo è più che mai oggi una esigenza morale e vitale.

La lotta per un governo dei lavoratori e delle lavoratrici, che riorganizzi la società da cima a fondo, si ripropone ovunque, oggi più di ieri, come l'unica vera soluzione alternativa.

Il socialismo è il solo ordine nuovo; la rivoluzione l'unica via per realizzarlo.

 

Partito Comunista dei Lavoratori

sabato 23 gennaio 2021

GIORNO DELLA MEMORIA: MA PERCHÉ TANTE AMNESIE?

 


Nel 2000 una legge dello Stato italiano istituiva “La Giornata Della Memoria” da celebrarsi il 27 gennaio, ricorrenza della liberazione dei prigionieri sopravvissuti nel campo di sterminio di Auschwitz.

In questa ricorrenza i mezzi di comunicazione di massa hanno usato, negli scorsi anni, espressioni del tipo: “27 gennaio 1945: cadono i cancelli di Auschwitz” oppure: “I cancelli di Auschwitz sono stati aperti dagli alleati, cioè dagli inglesi, statunitensi e francesi. E ancora, britannico è il carro armato del tanto osannato  film La vita è bella di Benigni, premio Oscar 1999.

Al contrario la testimonianza di Primo Levi, sopravvissuto di quel campo,  che descrive così l’arrivo dei liberatori:

«… La prima pattuglia russa giunse in vista del campo verso il mezzogiorno del 27 gennaio del 1945. […]. Erano quattro giovani soldati a cavallo, che procedevano guardinghi, coi mitragliatori imbracciati, lungo la strada che limitava il campo. […] Quattro uomini armati, ma non armati contro di noi, quattro messaggeri di pace, dai visi rozzi e puerili sotto i pesanti caschi di pelo. Non salutavano, non sorridevano; apparivano oppressi, oltre che da pietà, da un confuso ritegno, che sigillava le loro bocche, e avvinceva i loro occhi allo scenario funereo. Era la stessa vergogna a noi ben nota […]: la vergogna che i tedeschi non conobbero, quella che il giusto prova davanti alla colpa commessa da altrui, e gli rimorde che esista, che sia stata introdotta irrevocabilmente nel mondo delle cose che esistono…»

Recuperata così la memoria, in seguito si è ammesso che, sì, ad Auschwitz erano arrivati i russi.

Ma perché tante amnesie? Perché, proprio nel giorno della memoria, fare torto a quei giovani soldati?

Perché altrimenti si sarebbe dovuto riconoscere nel loro sgomento, nel loro incolpevole senso di vergogna, il simbolo che Auschwitz assumeva davanti al loro sguardo attonito: il crinale, l’invalicabile confine tra due opposte concezioni del mondo che venivano a contatto. Da una parte la concezione del mondo  basata sull’ideologia fascista dell’odio e del razzismo, sulla perversa ideologia revanscista della conquista delle terre altrui, attraverso l’eliminazione o la riduzione in schiavitù delle popolazioni considerate inferiori, in nome di un osceno culto della superiorità di una razza eletta. Dall’altra la concezione del mondo basata sugli ideali del comunismo, sulla fratellanza tra gli uomini, sull’abolizione dello sfruttamento dell’uomo sull’uomo, sulla sostituzione della schiavitù del lavoro salariato con la libera associazione dei produttori.

Di quei giovani soldati dell’Armata rossa, lanciati nell’offensiva vittoriosa attraverso l’Europa dell’est, che li avrebbe portati fino a Berlino ad issare la rossa bandiera  non si vuole parlare, perché altrimenti bisognerebbe ricordare il prezzo di quella vittoria: oltre 20 milioni di morti,  circa la metà dei quali civili e prigionieri di guerra uccisi e torturati dai nazisti nei territori sovietici occupati e più di 40 milioni di feriti e mutilati. I nazisti distrussero 1710 città e cittadine, oltre 70.000 paesi e villaggi, 32 mila imprese industriali,  98 mila kolchoz, 1876 sovchoz. Fecero saltare 65 mila chilometri di linee ferroviarie, danneggiarono o portarono via 16 mila locomotive e 428 mila vagoni.

Di questo non si vuole parlare, altrimenti si darebbe la misura dell’ammirazione nei confronti dell’epica resistenza delle città assediate e della controffensiva dell’Armata Rossa che prese le mosse dalla liberazione di Stalingrado (2 febbraio 1943), ammirazione espressa anche dai nemici storici della società socialista: dallo stesso Churchill (che a suo tempo aveva esortato a “soffocare il comunismo ancora nella culla”),  dal re Giorgio di Gran Bretagna che donò a Stalingrado una  “Spada d’Onore” e dal presidente degli Stati Uniti, Roosevelt, che consegnò un “diploma d’onore” agli eroici difensori della città, divenuta simbolo della riscossa contro il nazismo.

Di questo non si vuole parlare  perché bisognerebbe soprattutto ricordare che la sconfitta dei nazisti a Stalingrado incoraggiò la resistenza dei partigiani nei territori europei occupati e ridiede speranza ai popoli oppressi dal nazismo.

Di tutto questo non si vuole parlare. Perché altrimenti bisognerebbe ricordare che le attuali correnti  revisioniste e reazionarie che vanno dalla critica alla “retorica” della Resistenza alla sua denigrazione, dalla comprensione per i “ragazzi di Salò” alla condanna per l’esposizione del cadavere di Mussolini e dei suoi gerarchi a piazzale Loreto, non sono nuove, che la denigrazione e la criminalizzazione della Resistenza sono cominciate molto tempo addietro,   dallo scioglimento delle formazioni partigiane, dall’esautorazione del CLN, dalla restaurazione del potere dei monopoli capitalisti e delle forze politiche che li rappresentano.

Per tutto questo, se è giusto ribadire la parola d’ordine: “Ora e sempre Resistenza”, se da un lato dobbiamo stroncare i rigurgiti nazi-fascisti, occorre essere coscienti che il nazismo e il fascismo non sono che la forma più estrema dell’ordinamento degli Stati capitalisti; occorre essere coscienti che resistenza oggi significa lotta antimperialista.

Nel nostro paese e in Europa significa lottare contro le forme dell’oppressione e dello sfruttamento capitalista, per il diritto al lavoro, alla casa, all’istruzione, alla salute, per la difesa delle libertà fondamentali.

Significa lottare contro tutte le guerre imperialiste, significa schierarsi con determinazione a fianco  di tutti i popoli che lottano per la loro indipendenza e la loro liberazione.

Vincenzo Sardiello – aderente al PCL Pavia

mercoledì 20 gennaio 2021

È USCITO IL NUOVO NUMERO DI UNITÀ DI CLASSE

In questo numero:  

Crisi borghese, soluzione operaia. Editoriale - Marco Ferrando 

La crisi e la necessaria unità del mondo del lavoro - Federico Bacchiocchi 

Scuola: quale rientro senza vaccini e sicurezza? - Vincenzo Cimmino 

La salute ai tempi del Covid. Il caso Toscana - Lavoratori e lavoratrici della sanità - a cura del PCL Arezzo 

Patrick Zaki. Il fiore di una primavera che non deve tornare - Salvo Lo Galbo 

1921 - 2021. La fondazione del PCd’I, sezione italiana della Terza Internazionale - Antonino Marceca 

giovedì 14 gennaio 2021

LA CRISI DEL SECONDO GOVERNO CONTE

 

I GIOCHI POLITICO-ISTITUZIONALI NEL CAMPO DELLA BORGHESIA ITALIANA

 

 
 

La crisi in corso del secondo governo Conte richiama due ordini di considerazioni. Il primo contingente, il secondo di carattere più generale.

 

Perché Renzi  ha aperto la crisi del governo che lui stesso aveva fatto nascere?

Consentendo la nascita del secondo governo Conte nel settembre 2018 Renzi aveva fatto un suo calcolo politico. Non solo quello di intestarsi l’emarginazione (e umiliazione) di Salvini. Ma anche quello di capitalizzare a proprio vantaggio una “inevitabile” crisi del PD stretto nell’abbraccio coi Cinque Stelle. La scissione del PD e la nascita di Italia Viva – ad appena un mese dalla nascita del governo – avrebbero dovuto calamitare questa decomposizione del PD. Il punto è che l’operazione è clamorosamente fallita, come mostrano le ultime elezioni regionali. Dove neppure in Toscana Italia Viva riesce a schiodarsi dal 4%. I sondaggi successivi sono peraltro ben più impietosi, con IV sotto la soglia del 3% con tanto di sorpasso della formazione di Calenda (Azione).

 

 

LA PARTITA DI POKER DI UN PARVENU

 

Mettiamoci allora nei panni di Renzi. Un parvenu che ha fatto la folgorante scalata del PD, che da suo segretario ha toccato la vetta del 41%, che dall’alto di quella vetta ha provato l’ebbrezza di un progetto istituzionale bonapartista ritagliato a propria immagine e somiglianza, si trova nella polvere pochi anni dopo sotto la soglia del 2%, dopo esser passato di sconfitta in sconfitta. Mentre il PD che avrebbe dovuto distruggere (“gli faremo fare la fine che Macron ha riservato al Partito Socialista francese” aveva detto Renzi) non solo ha retto la prova della scissione ma ha tenutole proprie percentuali. Un disastro, insomma, su tutta la linea.

 

Matteo Renzi è oggi nella condizione di chi non ha più nulla da perdere perché sostanzialmente ha già perso tutto. Ciò che gli resta è solo un drappello di parlamentari trasformisti, rotti a ogni uso, senza futuro, se non quello di sbarcare il lunario della legislatura. Il leader usa allora al tavolo da poker della politica borghese l’ultima carta che gli rimane. L’ultima occasione della vita per provare a riabilitare le proprie fortune, a porsi al centro dell'’attenzione pubblica, a scuotere l’albero politico istituzionale per vedere se qualche frutto cadrà mai nel suo cesto.

 

Qual è esattamente l’obiettivo che Renzi si pone provocando la crisi? Ve ne sono molti e tra loro intrecciati. Sgombrare il campo dalla figura di un premier percepito come abusivo perché (indubbiamente) più fortunato di lui; provare a sparigliare in casa PD e M5S mettendo entrambi sotto pressione; puntare a costruire una relazione privilegiata con i nuovi vertici di Confindustria attraverso il rilancio su MES, investimenti infrastrutturali, nuovi soldi alle imprese; riabilitare la propria immagine agli occhi del mondo della scuola, attraverso la rivendicazione della riapertura, ma anche del settore turistico alberghiero (“allarghiamo i ristori”); rinegoziare un equilibrio di governo in cui accrescere il proprio peso specifico e il proprio controllo sui flussi di spesa. E forse soprattutto negoziare una nuova legge elettorale al posto di quella concordata a suo tempo con PD e M5S: perché un proporzionale con soglia di sbarramento al 5% (ma anche al 4%) sarebbe oggi una sentenza di morte per IV, mentre un maggioritario gli darebbe potere negoziale nei collegi.

 

 

UN CALCOLO RISCHIOSO

 

Ma Renzi non ha paura che la crisi porti alle elezioni anticipate provocando così la sua rovina? No. È convinto che lo spazio di elezioni politiche non vi sia, non solo e non tanto per la pandemia, ma perché Mattarella non porterebbe al voto con la legge elettorale vigente. La quale, combinata col taglio referendario dei parlamentari, darebbe probabilmente al centrodestra una maggioranza assoluta nei due rami del Parlamento, assicurandogli in un colpo solo la guida del governo, la nuova Presidenza della Repubblica (gennaio 2022), la gestione dei 209 miliardi di provenienza UE. Del resto – calcola Renzi – o si vota subito, ed è difficile per la pandemia, oppure da agosto si entra nel semestre bianco e il Parlamento non può più essere sciolto sino all’inizio dell’anno successivo. Ecco perché Renzi spariglia da autentico acrobata. È convinto di avere una rete istituzionale protettiva.

 

È un rischio azzardato? Indubbiamente.

Lo spazio negoziale nella maggioranza uscente poggia su un filo sottilissimo. Renzi non può uscirne vincente se Conte resta al suo posto, ma PD e M5S hanno in Conte il proprio punto di equilibrio. “Morto un Conte se ne fa un altro” si potrebbe dire, come del resto accadde nel settembre del 2019. Ma la terza volta il gioco trasformista è più difficile perché il filo è molto più logoro. E le intemperanze del Presidente del Consiglio, stretto tra la prudenza di Mattarella e le proprie ambizioni di sfida, non aiutano oltretutto la ricomposizione attorno a lui. Vedremo. La possibilità che il gioco sfugga di mano resta tutta.

 

 

LE CONTRADDIZIONI NEL CAMPO DELLA DESTRA

 

Tuttavia, il gioco di Renzi, per quanto azzardato, non è privo di basi d’appoggio.

Il centrodestra chiede formalmente le elezioni anticipate. Di fronte alla crisi della maggioranza è un passo obbligato. Ma in realtà è anch’esso attraversato da mille crepe.

 

Forza Italia vuole da tempo sganciarsi dalla tutela sovranista nel nome del proprio rapporto col PPE. Non può farlo in un quadro di polarizzazione frontale, ma cerca un proprio spazio di manovra e di emancipazione. In ogni caso è contraria ad elezioni che oggi ne falcerebbero la rappresentanza. La stessa Lega è assai cauta. I suoi governatori del Nord, a partire da Zaia, sono contrari a elezioni perché vogliono stabilità (“Le elezioni oggi con la pandemia sarebbero una follia” dichiara il governatore Veneto). La sua base sociale concentrata nella piccola e media impresa vuole certezza immediata dei ristori e delle risorse europee promesse, e guarda con diffidenza ai trambusti politici.

 

Un pezzo importante della Lega, che gravita attorno a Giorgetti, e che ha relazioni familiari con Bruxelles, predica da tempo una ricollocazione moderata della Lega, fuori dal campo del lepenismo europeo, capace di riabilitarne l’immagine agli occhi del capitale finanziario e dei suoi circoli dominanti.

Questa parte della Lega sa che se si andasse al voto in uno scontro frontale col centrosinistra, Salvini e Meloni vincerebbero. Ma poi dovrebbero governare. Senza relazioni con le capitali europee, in una crisi economica drammatica, nella necessità di predisporre i piani di rientro da un debito pubblico sempre più fuori controllo (altro che “quota 100”). Il rischio di rompersi l’osso del collo sarebbe altissimo.

 

Un governo istituzionale retto dai principali partiti e col coinvolgimento della Lega (a garanzia dei suoi interessi politici) sarebbe agli occhi di Forza Italia e di questa parte della Lega una soluzione assai preferibile. Sminerebbe il terreno sobbarcandosi equamente la corresponsabilità del governo, favorirebbe una riabilitazione della Lega sul terreno europeo, preparerebbe condizioni favorevoli per una prospettiva di vittoria più duratura nella prossima legislatura. Matteo Salvini, a modo suo, capisce questo messaggio che gli proviene da parte del suo mondo. È prigioniero in parte del proprio personaggio, ma è assai più flessibile di come appare (come peraltro questa legislatura ha dimostrato). A volere le elezioni resta la Meloni con Fratelli d’Italia, l’unica che ne verrebbe realmente beneficiata. Il suo condizionamento degli spazi di manovra di Salvini è indubbio. Ma né Salvini né tanto meno Berlusconi vogliono assecondarne il disegno.

 

 

LA CRISI POLTICA ITALIANA

 

Vedremo le mosse dei diversi attori politici e istituzionali in questo ginepraio di contraddizioni. Ogni scenario è possibile.

Ma s’impone una considerazione di fondo. La borghesia italiana è oggi vincente sul piano sociale, ma fatica a darsi un quadro politico e istituzionale stabile.

 

Manca un baricentro politico in Italia. Sia in termini di una forza borghese di massa maggioritaria capace di fare da pivot del sistema politico. Sia in termini di equilibri politico istituzionali. Il vecchio pendolarismo fra centrosinistra e centrodestra che ha incardinato per oltre 20 anni la vita della Seconda Repubblica, gestendo in alternanza le medesime politiche antioperaie, è da tempo crollato sotto la pressione materiale della grande crisi capitalistica del 2008/2012 e dei suoi effetti sociali dirompenti in particolare in Italia. Ma al posto della vecchia alternanza non è subentrato un equilibrio nuovo. Già le elezioni politiche del 2018, con lo sfondamento del M5S, certificarono un quadro di instabilità. Il corso della legislatura l’ha confermato e aggravato. Due governi con maggioranze opposte, equilibri parlamentari che non corrispondono più alla forza politica dei partiti (crollo del M5S, ascesa e discesa della Lega, avanzata di FdI). Lo spazio di manovra del Presidente del Consiglio, con le sue acrobazie trasformiste, è cresciuto in misura proporzionale alla instabilità politica. Ma oltre una certa soglia rischia di esserne ora travolto.

 

Qual è dunque la base materiale su cui si regge nonostante tutto il dominio politico della borghesia e la continuità delle sue politiche di rapina, nonostante l’instabilità politica dei suoi assetti? La debolezza del movimento operaio, il profondo riflusso dei suoi livelli di mobilitazione, di organizzazione, di coscienza, per responsabilità preminente delle sue direzioni, ed oggi innanzitutto della burocrazia CGIL. Rilanciare la prospettiva di un fronte unico di classe attorno ad una piattaforma indipendente dei lavoratori e delle lavoratrici non ha solo una valenza sindacale, ma politica. È l’unica via per sgomberare il campo dalla politica borghese e da tutte le sue miserie, e aprire dal basso uno scenario nuovo.

 

Partito Comunista dei Lavoratori