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sabato 30 novembre 2019

STRETTI COME SARDINE, MA NON CIECHI E TANTO MENO MUTI

CONTRO LA DESTRA REAZIONARIA, MA ANCHE CONTRO UN GOVERNO CHE CONSERVA LE MISURE PEGGIORI DELLA DESTRA



Condividiamo il sentimento di fondo che anima tante piazze di giovani. Partecipiamo a queste piazze. Sentiamo anche noi la stessa nausea profonda per le culture xenofobe, misogine, reazionarie dei Salvini e delle Meloni, la loro vocazione autoritaria, il loro uso cinico dei sentimenti religiosi con tanto di esibizione di croci e di madonne, il loro disprezzo per le donne e per i soggetti LGBTQIA+, il loro militarismo tricolore in abito di polizia. Dio, Patria, Famiglia sono ovunque bandiere di regime. Per Salvini forse una cinica recita elettorale. Per Meloni un’autentica tradizione fascista. In entrambi i casi una minaccia seria.

E tuttavia l'opposizione alla destra reazionaria nutre un sentimento, non indica una prospettiva. Né rimuove gli interrogativi. Perché questa cultura miserabile raccoglie attorno a sé tanto consenso? Perché lo raccoglie assai spesso nei luoghi di lavoro, nelle periferie metropolitane, in ampi settori di popolo? Lo raccoglie perché la classe lavoratrice è stata abbandonata a sé stessa proprio da coloro che avrebbero dovuto difenderla nella crisi più grande del dopoguerra. Non solo: i vertici della sinistra politica e sindacale o di quella che nella comunicazione pubblica è rappresentata (abusivamente) come “la sinistra” (il PD), hanno direttamente gestito o avallato l'attacco alla propria base sociale. Precarizzazione dilagante. Privatizzazione di aziende e servizi. Tagli alla spesa sociale.  Abolizione dell'articolo 18. Attacco alla istruzione pubblica. Legge Fornero sulle pensioni. Questa è stata la politica del PD o dei governi da questo sostenuti, con la copertura delle burocrazie sindacali e in più occasioni della stessa sinistra cosiddetta “radicale” (come Rifondazione Comunista nei governi Prodi). Se la sinistra non è più riconoscibile o è identificata con le élites non è forse in ragione di questo tradimento vero e proprio? La destra ha solo raccolto i frutti di questa semina. Il meno peggio ha spianato la strada al peggio. È la lezione degli ultimi 40 anni.

Del resto, basta guardare al presente. Il governo PD-M5S, nato formalmente in contrapposizione a Salvini, non sta forse conservando le peggiori misure di Salvini?
Lo vediamo coi decreti sicurezza rimasti intatti, e al più ritoccati nella forma, proprio per conservarne la sostanza. Lo vediamo con la difesa degli accordi infami con la guardia costiera libica, già di Minniti e poi di Salvini. Lo vediamo con la conferma di tutte le missioni militari in terre lontane e teatri di guerra, circondate più di ieri dall'impenetrabile segreto (come in Libia). Lo vediamo sul piano sociale con la salvaguardia della legge Fornero, del Jobs Act, di tutte le leggi di precarizzazione del lavoro che hanno massacrato negli ultimi vent'anni una intera generazione per ingrassare i profitti. Del resto, il Presidente del Consiglio non a caso è rimasto lo stesso, ha solo rimpiazzato la Lega col PD, col trasformismo più disinvolto.

Poi sì, è vero, i toni di Conte sono diversi da quelli di Salvini e Meloni, ci vuole poco. Ma i toni cerimoniosi e istituzionali servono solo a rifarsi il trucco e confezionare meglio la stessa merce. Col risultato oltretutto di regalare proprio a Salvini nuovo consenso e una possibile rivincita.

E allora certo, tutti insieme nelle piazze, stretti come sardine, contro Salvini e la destra! Ma proprio per questo rivendicando la cancellazione delle misure di Salvini e dunque l'opposizione al governo che le mantiene. Proprio per questo facendo la scelta di campo dalla parte del lavoro contro il capitale, quale che sia il suo governo. Perché questa è la frontiera vera dello scontro.

•         VIA I DECRETI SICUREZZA!
•         VIA LE MISSIONI DI GUERRA!
•         VIA LA LEGGE FORNERO, VIA IL JOBS ACT, VIA LA PRECARIETÀ DEL LAVORO!
•         COMANDINO I LAVORATORI, NON I GRANDI AZIONISTI, LE BANCHE, I CAPITALISTI!
•         SI RIORGANIZZI LA SOCIETÀ SU BASI NUOVE E DA CIMA A FONDO, ROMPENDO UNA VOLTA PER TUTTE COL CAPITALISMO CHE SFRUTTA ED INQUINA! PERCHÉ NÉ L'UOMO NÉ LA NATURA SIANO RIDOTTI A MERCE!

Partito Comunista dei Lavoratori

mercoledì 27 novembre 2019

ROMPERE L’ISOLAMENTO E LA SEPARAZIONE ED INIZIARE UN PROFICUO CONFRONTO





L'abisso tra la borghesia e chi possiede la propria forza-lavoro diventa sempre più profondo, con l'aumento della disoccupazione, della precarietà, della povertà, delle disuguaglianze, delle ingiustizie.


I periodi di crisi e stagnazione si allungano, le condizioni di vita e di lavoro degli operai si aggravano. Il malcontento e la collera aumentano fra gli operai e gli altri strati popolari, sebbene essi siano attualmente irretiti dalla demagogia sociale delle forze populiste e reazionarie da un lato, paralizzati e divisi dal riformismo e dall’opportunismo dall'altro; e i lavoratori sono immobilizzati dalle conseguenze della repressione scatenata dal padronato, dal terrore diffuso delle azioni punitive, dei provvedimenti disciplinari fino al licenziamento.
Lo sviluppo del capitalismo e della sua base materiale non minaccia l’esistenza del proletariato come classe, non mina le sue posizioni nella società, come avviene per le classi intermedie. Al contrario, fa aumentare il numero degli operai salariati su scala mondiale, oggi più di un miliardo, con buona pace di chi straparla della «scomparsa della classe operaia». Negli ultimi decenni uno dei punti centrali dell'attacco ideologico della borghesia è stato, infatti, la presunta fine della classe operaia. Si tratta di un'enorme mistificazione.
Nel nostro paese, nonostante massicci processi di ristrutturazione e di delocalizzazione il numero complessivo degli operai è di 8,1 milioni . Secondo i dati dell’Osservatorio Inps del 2017, sui lavoratori del settore privato, la componente operaia rappresenta il 55,6% del totale. La crescita del terziario non ha determinato, numericamente, il «sorpasso» degli impiegati sugli operai. La crescita costante della percentuale dei lavoratori salariati sul totale degli occupati è un fenomeno internazionale: oggi il 52% degli occupati sono lavoratori salariati.
Lo stesso sviluppo del capitalismo, delle forze produttive, rende sempre più importante e incisiva la funzione oggettiva della classe operaia nella vita economico-sociale, che è la principale produttrice della ricchezza materiale della società.
Sappiamo, nelle linee fondamentali, quale deve essere il nostro ruolo in questo contesto: sostenere la lotta di classe degli operai unendosi a loro per alimentarne la coscienza; unificare, organizzare e mobilitare la classe a partire dalle rivendicazioni legate ad obiettivi avanzati; influenzare, orientare sino a dirigere, nella lotta, la classe sfruttata per strappare il potere politico alla borghesia, rappresentando e difendendo sempre gli interessi generali del proletariato e il suo futuro, che si potrà conquistare con l’abolizione della proprietà borghese e la costruzione della nuova società.


giovedì 21 novembre 2019

SOSTEGNO PUBBLICO A UN'AZIENDA CRIMINALE?

Una vera nazionalizzazione è l'unica via





Un clamoroso paradosso sta emergendo su ArcelorMittal. Diverse procure aprono indagini sulle condotte del gruppo. Roba pesante: aggiotaggio, false comunicazioni, appropriazione indebita. I nuovi acquirenti di ex Ilva compravano materie prime a prezzi gonfiati da altre imprese del gruppo, e vendevano a prezzi stracciati a proprie consociate che hanno sede in Olanda e Lussemburgo (dove pagano tasse irrisorie); i parchi minerari sono stati progressivamente svuotati in sei mesi nella prospettiva di una chiusura già programmata; le manutenzioni ordinarie sono state da tempo dismesse, aggravando l'insicurezza del lavoro in fabbrica. In poche parole, gli azionisti di ArcelorMittal hanno volutamente depauperato l'azienda per poi imporne la chiusura. Si sono appropriate dell'Ilva non per continuare a produrre acciaio italiano da vendere all'estero, ma per vendere anche in Italia acciaio prodotto all'estero dopo aver chiuso Taranto.
Una condotta truffaldina e criminale.

Eppure nelle stesse ore in cui tutto questo emerge, il governo Conte moltiplica le offerte sottobanco all'azienda per convincerla a restare. L'offerta del menù è varia: o l'ingresso nel capitale della Cassa Depositi e Prestiti, o la partecipazione diretta del Tesoro, o uno spezzatino aziendale con lo Stato che si fa carico degli esuberi (bad company), o una combinazione di tutte queste misure. Il loro significato è semplice: lo Stato soccorre con risorse pubbliche il profitto privato degli azionisti. Non solo. Se gli azionisti accettano, il governo offre loro il sospirato scudo penale, che l'azienda chiede non a caso sulla stessa sicurezza sul lavoro.

In conclusione: il governo Conte offre ad un'azienda criminale non solo risorse pubbliche, ma l'impunità. Non sappiamo se ArcelorMittal accetterà, sappiamo che è un mercimonio immondo. Le burocrazie sindacali, Maurizio Landini in testa, non hanno nulla da dire su questo? Sembra di no. Anzi, sembrano essere il principale supporto del governo Conte e della sua linea, sull'Ilva come sulla finanziaria.

La nazionalizzazione dell'ex Ilva, senza indennizzo, e sotto il controllo dei lavoratori, si conferma una volta di più non solo come l'unica premessa di una necessaria riconversione a tutela del lavoro e della salute, ma anche come l'unica soluzione morale, per gli operai e per la popolazione tarantina.

Partito Comunista dei Lavoratori

mercoledì 13 novembre 2019

BOLIVIA: AHORA SÍ, GUERRA CIVIL

NON PER MORALES, MA PER IL POTERE OPERAIO E CONTADINO

12 Novembre


La Bolivia precipita in queste ore nel caos. Dimessosi nella giornata di ieri, sotto pressione delle forze armate e della polizia nazionale, Evo Morales annuncia il suo rifugio in Messico, che gli concede asilo politico.
Dopo giorni di tensioni, dovute al non riconoscimento del risultato delle elezioni presidenziali da parte dell’opposizione, la Bolivia è a un passo dalla guerra civile. Da una parte l’esercito, la polizia e la destra golpista. Dall’altra la base sociale del MAS (Movimiento Al Socialismo) al grido di “Aahora sí, guerra civil!”
In queste ore drammatiche il posto dei marxisti rivoluzionari è al fianco dei giovani, dei lavoratori e delle masse popolari che si oppongono al colpo di Stato. Ma questo posizionamento di campo, contro i settori della destra razzista, filoimperialista e reazionaria, non deve significare in nessun momento un appoggio politico a Evo Morales.
Come marxisti rivoluzionari siamo sempre stati all’opposizione del governo di Evo Morales, un governo di collaborazione di classe che ha spianato la strada, negli anni, alla ripresa dell’iniziativa dei settori più reazionari della borghesia boliviana. La Bolivia ci insegna, ancora una volta, che non esistono rivoluzioni possibili entro un quadro elettorale e di collaborazione di classe. Solo la classe lavoratrice e le masse popolari, attraverso i loro strumenti di autorganizzazione e basandosi sulla loro forza, possono aprire la strada per una riorganizzazione socialista della società. Solo una rivoluzione socialista, in Bolivia, in Cile e in tutta l’America Latina, può stroncare per sempre la destra e l’imperialismo. La costruzione di un partito rivoluzionario in Bolivia e a livello internazionale è condizione essenziale per guidare questo processo alla vittoria.
Da questa angolazione, e con queste parole d'ordine, parteciperemo a tutte le iniziative di solidarietà contro il golpe in atto in queste ore, al fianco della resistenza del popolo boliviano.  

No al golpe in Bolivia! Nessun appoggio politico al governo! Costruiamo la solidarietà internazionalista!
Per un’iniziativa indipendente del movimento operaio e contadino contro i tentativi golpisti!
Per l’armamento delle masse popolari e la loro autorganizzazione in milizie e consigli!
Dal Cile alla Bolivia, una sola classe, una sola via!

Partito Comunista dei Lavoratori

sabato 9 novembre 2019

IL COMUNISMO, A 30 ANNI DALLA “CADUTA DEL MURO DI BERLINO”, RESTA LA PROSPETTIVA DI LIBERAZIONE DEI LAVORATORI E L'AVVENIRE DELL'UMANITÀ



30 anni fa la crisi del regime della Germania dell'Est e di quello della stessa Unione Sovietica faceva sì che le masse di Berlino Est abbattessero il muro che separava le due parti della capitale tedesca, visto come simbolo di oppressione politica e nazionale. Di lì a due anni l’Unione Sovietica sarebbe a sua volta crollata.
In realtà quello che crollava 30 anni fa non era un vero e compiuto comunismo o socialismo. Era il prodotto di una degenerazione del tentativo di costruire una nuova società liberata da sfruttamento e oppressione, una degenerazione che ha il nome di stalinismo. Per cui nei paesi dell'Est esistevano dei regimi che combinavano importanti e reali conquiste sociali, grazie all'abolizione della proprietà privata del sistema produttivo e finanziario, con un oppressione politica e sociale funzionale al dominio di una casta burocratica. La stessa che è poi stata, nella maggioranza di questi paesi, lo strumento della restaurazione del capitalismo e la componente principale della nuova borghesia sfruttatrice.
Questo sviluppo non è giunto inaspettato per i veri comunisti: già nel lontano 1938, Leone Trotsky, il principale dirigente, insieme a Lenin, della rivoluzione russa del 1917 e il più grande avversario dello stalinismo scriveva “ Il pronostico politico[ per l’URSS] ha un carattere alternativo: o la burocrazia, diventando sempre di più l’organo della borghesia mondiale nello Stato Operaio, distrugge le nuove forme di proprietà e respinge il paese nel capitalismo, oppure la classe operaia schiaccia la burocrazia e si apre la via verso il socialismo.”
E' il corno negativo di questa previsione che si è realizzato.
I cantori del capitalismo proclamarono allora “la fine della storia”, cioè la fine di ogni grande conflitto politico e sociale, la nascita di un “nuovo ordine mondiale” di progresso nel quadro dell'economia di mercato sempre più globalizzata. Abbiamo visto: guerre e crisi sono state la realtà di un nuovo “disordine globale”.
Mentre il cosiddetto fallimento del comunismo veniva utilizzato per colpire in tutti i paesi, in nome del “libero mercato” le conquiste decennali del movimento dei lavoratori, su terreni quali il salario, la flessibilità contrattuale, le pensioni, lo “stato sociale”.
Ed oggi noi stiamo vivendo la più grande crisi capitalistica dal 1929-32. E sono ancora una volta i lavoratori a pagarne il prezzo.
E' inoltre evidente che le conseguenze negative si riproporranno sempre più pesanti.
Quello che in realtà sta dimostrando il suo fallimento è il sistema capitalistico; l'insensatezza di una società basata non sulla soddisfazione dei bisogni umani ma sulla ricerca e difesa del massimo profitto per una piccola minoranza di capitalisti, banchieri e loro rappresentanti politici che condanna la grande maggioranza dell'umanità allo sfruttamento e alla povertà, quando non, nei paesi più arretrati, alla morte per fame o malattie curabili.
Non c’è “riforma” possibile per il capitalismo. Bisogna abbatterlo per costruire un mondo nuovo e possibile: quello del socialismo (proprietà sociale delle industrie, servizi e trasporti) che porti gradualmente al comunismo ( cioè una società in cui viga il principio “da ciascuno secondo le sue capacità a ciascuno secondo i suoi bisogni”).
Questa battaglia storica ha fondamentale importanza per le nostre condizioni di vita e di lavoro. Le conquiste che, anche con l’aiuto della demagogia, sposata da destre e centrosinistra, sul “fallimento del comunismo”, sono state colpite in questi decenni, non erano solo il prodotto di una mobilitazione sul terreno sindacale ed economico, ma anche il sottoprodotto della lotta di classe politica rivoluzionaria su scala mondiale, della paura dei padroni di una rivoluzione operaia che mettesse in causa il loro dominio.
Per vincere anche sul terreno dei nostri interessi immediati e per non restare sempre più vittime della crisi del sistema capitalistico è necessario che i lavoratori riprendere coscienza della necessità della battaglia per una società socialista.
E’ a questo e solo a questo che si dedica, insieme ai suoi partiti fratelli in tutto il mondo, il Partito Comunista dei Lavoratori. 

venerdì 8 novembre 2019

ABOLIRE I DECRETI SICUREZZA!

Il PCL aderisce alla manifestazione del 9 novembre a Roma



Il Partito Comunista dei Lavoratori aderisce alla manifestazione nazionale del 9 novembre a Roma per l'abolizione dei decreti sicurezza.

Come era prevedibile il cosiddetto governo di svolta, guidato dallo stesso Presidente del Consiglio, con la sostituzione della Lega col PD, continua le politiche di Salvini su immigrazione e ordine pubblico. I decreti sicurezza restano intatti nella loro sostanza: intatto il primo decreto sicurezza che cancella la protezione umanitaria e allarga il bacino della cosiddetta clandestinità; intatto il secondo decreto sicurezza che ostacola lo stesso soccorso in mare e costringe i barconi a lunghi soggiorni fuori dai porti. A questo si aggiunge la conferma del famigerato Memorandum coi tagliagole libici varato da Minniti e ben custodito da Salvini, che finanzia la guardia costiera del governo al-Sarraj e i suoi affari con i trafficanti di esseri umani e i loro lager.

Persino gli argomenti a supporto sono gli stessi di prima. “Bloccare le partenze” resta l'imperativo categorico per Di Maio, che ha solo cambiato abito ministeriale alla propria politica reazionaria. Quanto al PD, si copre dietro il ruolo di architrave di sistema, aggiungendo di tanto in tanto qualche ipocrita preoccupazione “umanitaria”. 

La risultante è la continuità col passato, che oltretutto concima giorno dopo giorno il terreno della rivincita di Salvini e Meloni, gli arnesi peggiori della xenofobia tricolore.
La costruzione del fronte unico contro il nuovo governo passa per la rivendicazione dell'abolizione dei decreti di Salvini e di tutte le misure di discriminazione, segregazione, oppressione a danno dei migranti; dentro la prospettiva di un'alternativa sociale che chiami in causa l'ordine capitalista e le sue misure di sfruttamento, di oppressione, di guerra, che sono alla base delle migrazioni. Quelle che le stesse “democrazie” imperialiste vorrebbero respingere e recintare.

Partito Comunista dei Lavoratori

giovedì 7 novembre 2019

L'OTTOBRE E L'INTERNAZIONALE COMUNISTA



Ricordiamo la rivoluzione russa con uno dei principali risultati dell'Ottobre: la nascita della Terza Internazionale, l'Internazionale comunista di Lenin e Trotsky. Lo facciamo attraverso l'appello che nel congresso di fondazione (marzo 1919) ne sancì l'atto di nascita, cioè il Manifesto al proletariato di tutto il mondo, scritto da Trotsky, che costituì una delle risoluzioni finali del congresso. L'esperienza russa, riferimento esplicito nel Manifesto, è inserita magistralmente all'interno di una sintetica ma profonda analisi del quadro mondiale, che da esso traeva forza e che a esso rimandava nelle sue prospettive strategiche saldamente internazionaliste e rivoluzionarie.



Sono passati settantadue anni dacché il partito comunista annunciò al mondo il proprio programma sotto forma di un Manifesto scritto dai massimi maestri della rivoluzione proletaria, Karl Marx e Friedrich Engels. Anche a quel tempo il comunismo, che era appena entrato nell'arena della lotta, fu aggredito con irrisione, menzogne, odio, e persecuzione dalle classi possidenti, che giustamente sentivano in esso il proprio nemico mortale. Nel corso di quei settant'anni il comunismo si sviluppò per vie intricate, periodi di precipitose avanzate alternatisi con periodi di declino; ha conosciuto dei successi, ma anche delle dure sconfitte. Tuttavia il movimento procedette essenzialmente sulla via indicata in anticipo dal Manifesto del partito comunista. L'epoca della lotta finale, decisiva, giunse più tardi di qual che gli apostoli della rivoluzione sociale avevano creduto e sperato. Ma ora è giunta. Noi comunisti, rappresentanti del proletariato rivoluzionario di vari paesi d'Europa, America, e Asia, che ci siamo riuniti nella Mosca sovietica, ci sentiamo e ci riteniamo gli eredi e gli esecutori della causa il cui programma fu annunciato 72 anni fa. È nostro compito generalizzare l'esperienza rivoluzionaria della classe operaia, ripulire il movimento dagli inquinamenti disgregatori dell'opportunismo e del socialpatriottismo, mobilitare le forze di tutti i partiti autenticamente rivoluzionari del proletariato mondiale e così facendo facilitare e accelerare la vittoria della rivoluzione comunista in tutto il mondo.

Oggi, mentre l'Europa è coperta di macerie e rovine fumanti, i più infami incendiari sono occupati a scovare i criminali responsabili della guerra. Dietro di loro stanno i loro cattedratici, membri del parlamento, giornalisti, socialpatrioti, e altri ruffiani politici della borghesia.

Per molti anni il socialismo predisse l'inevitabilità della guerra imperialista, vedendone le cause nella cupidigia insaziabile delle classi possidenti dei due maggiori schieramenti, e, in generale, di tutti i paesi capitalisti. Al congresso di Basilea, due anni prima dello scoppio della guerra, dirigenti socialisti responsabili di tutti i paesi bollarono l'imperialismo come autore dell'imminente conflitto, e minacciarono alla borghesia la rivoluzione socialista come vendetta proletaria per i crimini del militarismo. Oggi, dopo l'esperienza degli ultimi cinque anni, dopo che la storia ha messo a nudo le brame predatorie della Germania, e le azioni non meno criminali dell'Intesa, i socialisti di stato dei paesi dell'Intesa continuano insieme con i propri governi ad accusare il deposto Kaiser tedesco. Per giunta, i socialpatrioti tedeschi che nell'agosto 1914 proclamarono che il libro bianco diplomatico degli Hohenzollern era il più sacro vangelo delle genti, ora, come vili leccapiedi, seguono le orme dei socialisti dell'Intesa e denunciano la monarchia tedesca caduta, che un tempo hanno servito in modo abbietto, come il principale criminale. Sperano così di far dimenticare la loro propria colpa e al tempo stesso di meritare la benevolenza dei vincitori. Ma la luce gettata da avvenimenti rivelatori e da rivelazioni diplomatiche smaschera, fianco a fianco, le vacillanti dinastie Romanov, Hohenzollern e Asburgo, le cricche capitaliste dei loro paesi, le classi dominanti di Francia, Inghilterra e Stati Uniti in tutta la loro sconfinata infamia.

La diplomazia inglese non uscì allo scoperto fin proprio al momento in cui scoppiò la guerra. Il governo dei finanzieri ebbe cura di non rilasciare alcuna dichiarazione esplicita della propria intenzione di entrare in guerra al fianco dell'Intesa per non spaventare il governo di Berlino. A Londra volevano la guerra. Ecco perché si comportarono in modo che Berlino e Vienna contassero sulla neutralità dell'Inghilterra, mentre Parigi e Pietrogrado confidavano fermamente sull'intervento dell'Inghilterra.

Maturata per decenni da tutto il corso degli avvenimenti, la guerra fu scatenata grazie alla provocazione diretta e deliberata della Gran Bretagna. Il governo inglese calcolò di offrire alla Russia e alla Francia quel tanto di appoggio da farle procedere finché, trovandosi queste ai limiti della resistenza, anche il nemico mortale dell'Inghilterra, la Germania, fosse paralizzato. Ma la potenza della macchina militare tedesca si rivelò troppo formidabile e non lasciò all'Inghilterra altra scelta che l'immediato intervento in guerra. Il ruolo di tertius gaudens cui la Gran Bretagna, seguendo un'antica tradizione, aspirava, toccò agli Stati Uniti. Il governo di Washington si rassegnò con la massima facilità al blocco inglese, che limitava unilateralmente la speculazione della Borsa valori americana sul sangue europeo, dato che i paesi dell'intesa compensarono la borghesia americana con pingui profitti per le violazioni della "legge internazionale". Ma la schiacciante superiorità militare della Germania costrinse il governo di Washington ad abbandonare la propria fittizia neutralità. Rispetto all'insieme dell'Europa, gli Stati Uniti assunsero il ruolo che aveva assunto l'Inghilterra rispetto al continente in guerre precedenti e che cercò di assumere nell'ultima guerra, vale, a dire: indebolire un campo aiutando l'altro, intervenire nelle operazioni militari solo quel tanto che basti ad assicurarsi tutti i vantaggi della situazione. Rispetto al livello delle speculazioni americane, la puntata di Wilson non era molto alta, ma fu la puntata definitiva, e gli assicurò il premio.

La guerra ha reso consapevole l'umanità delle contraddizioni del sistema capitalistico che si configurano in sofferenze primordiali, fame e freddo, epidemie, crudeltà morali. Questo ha risolto una volta per tutte la controversia accademica all'interno del movimento socialista a proposito della teoria dell'impoverimento e dell'indebolimento progressivo del capitalismo da parte del socialismo. Per decenni studiosi di statistica e pedanti fautori del superamento delle contraddizioni hanno cercato di scovare in ogni angolo del globo fatti veri o presunti che attestino il maggior benessere di vari grippi e categorie della classe operaia. Si suppose che la teoria dell'impoverimento fosse stata sepolta sotto alle irrisioni sprezzanti con cui la bersagliavano gli eunuchi della professoralità borghese e i mandarini dell'opportunismo socialista. Oggigiorno quest'impoverimento, non più solamente di genere sociale, ma anche fisiologico e biologico, ci si pone di fronte in tutta la sua spaventosa realtà.

La catastrofe della guerra imperialista ha spazzato via ogni conquista delle lotte sindacali e parlamentari. Perché questa guerra fu un prodotto delle tendenze insite nel capitalismo tanto quanto lo furono quegli accordi economici e quei compromessi parlamentari che la guerra seppellì nel sangue e nel fango.

Lo stesso capitale finanziario, che fece precipitare l'umanità nell'abisso della guerra, nel corso della guerra subì mutamenti catastrofici. Il rapporto tra carta moneta e base materiale della produzione è completamente spezzato. Perdendo costantemente importanza come tramite e regolatore della circolazione capitalistica dei beni, la carta moneta è divenuta strumento di requisizione, di ladrocinio, di violenza militare-economica in generale. L'assoluto svilimento della carta moneta rispecchia la mortale crisi generale dello scambio capitalistico dei beni. Nei decenni precedenti la guerra, la libera concorrenza, in quanto regolatrice della produzione e della distribuzione, era già stata sostituita nei campi più importanti della vita economica dal sistema dei trust e dei monopoli; ma durante la guerra il corso degli eventi strappò questo ruolo dalle mani di tali associazioni economiche e lo trasferì direttamente al potere statale militare. La distribuzione delle materie prime, l'utilizzazione del petrolio di Baku o romeno, del carbone del Donetz e del frumento ucraino, la sorte delle locomotive, dei vagoni e delle automobili tedesche, l'approvvigionamento di pane e cibo per l'Europa affamata – tutte queste questioni fondamentali della vita economica del mondo non vengono decise dalla libera concorrenza, né dalle associazioni di trust e consorzi nazionali e internazionali, ma dall'esercizio diretto del potere militare negli interessi della propria prolungala conservazione. Se la assoluta soggezione del potere statale al potere del capitale finanziario condusse l'umanità alla carneficina imperialista, in seguito attraverso questo macello di massa il capitale finanziario ha completamente militarizzato non soltanto lo stato ma anche se stesso, e non è più in grado di adempiere alle proprie funzioni economiche primarie altrimenti che per mezzo del sangue e del ferro.

Gli opportunisti, che prima della guerra fecero appello agli operai perché esercitassero la moderazione nell'interesse della transizione graduale al socialismo, e che durante la guerra richiesero la docilità di classe in nome della pace civile e della difesa nazionale, ora chiedono di nuovo l'abnegazione del proletariato per sormontare le terrificanti conseguenze della guerra. Se le masse operaie dovessero dar retta a questa paternale, lo sviluppo capitalista celebrerebbe la propria restaurazione in forme nuove, più intense e più mostruose, sopra le ossa di molte generazioni, con la prospettiva di una nuova e inevitabile guerra mondiale. Fortunatamente per l'umanità ciò non è più possibile.

Il controllo statale della vita economica, cui il liberalismo capitalista si opponeva tanto strenuamente, è diventato una realtà. Non c'è nessuna possibilità di un ritorno alla libera concorrenza, e neppure alla dominazione di trust, gruppi monopolistici, ed altri mostri economici. C'è soltanto un unico problema: d'ora innanzi chi si incaricherà della produzione nazionalizzata – lo stato imperialista o lo stato del proletariato vittorioso?

In altre parole: tutta l'umanità che lavora duramente diventerà schiava di una cricca mondiale vittoriosa che, sotto il nome di Società delle Nazioni e aiutata da un esercito "internazionale" e da una marina "internazionale", qui deprederà e reprimerà e lì getterà le briciole, ovunque incatenando il proletariato con il solo scopo di mantenere il proprio dominio; oppure la classe operaia d'Europa e dei paesi avanzati di altre parti del mondo prenderà in mano essa stessa l'economia disgregata e distrutta per assicurarne la ricostruzione su basi socialiste?

È possibile abbreviare l'attuale epoca di crisi soltanto per mezzo della dittatura del proletariato, che non guarda al passato, che non tiene in considerazione né privilegi ereditari né diritti di proprietà, ma che prende come punto di partenza la necessità di salvare le masse affamate e mobilita a tal fine tutte le forze e le risorse, introduce l'obbligo universale del lavoro, stabilisce il regime della disciplina operaia, non soltanto al fine di risanare nel corso di qualche anno le ferite aperte dalla guerra ma anche al fine di sollevare l'umanità ad altezze nuove e inimmaginate.

Lo stato nazionale, che impartì un possente impulso allo sviluppo capitalistico, é diventato troppo angusto per l'ulteriore sviluppo delle forze produttive. Questo rende ancor più insostenibile la posizione dei piccoli stati circondati dalle maggiori potenze d' Europa e d'altri continenti. Questi piccoli stati, che sorsero a seconda delle volte come frammenti ricavati da altri più grandi, come spiccioli in pagamento di svariati servizi resi o come cuscinetti strategici, hanno dinastie loro proprie, cricche dominanti proprie, pretese imperialistiche proprie, propri intrighi diplomatici. La loro illusoria indipendenza poggiava, prima della guerra, sulle stesse basi su cui poggiava l'equilibrio di potere europeo - l'antagonismo ininterrotto tra i due campi imperialisti. La guerra ha disgregato quest'equilibrio. Dando un'enorme preponderanza alla Germania nelle prime fasi, la guerra costrinse i piccoli stati a cercare salvezza nella magnanimità del militarismo tedesco. Quando la Germania fu sconfitta, la borghesia dei piccoli stati, insieme ai loro "socialisti" patriottici, si accostò agli imperialismi alleati vittoriosi e incominciò a cercare garanzie per il mantenimento della propria esistenza indipendente nelle clausole ipocrite del programma wilsoniano. Nello stesso tempo il numero dei piccoli stati aumentò; dalla monarchia austroungarica, da parti dell'antico impero zarista, sono state ricavate nuove entità statali, che non appena nate balzarono l'una alla gola dell'altra per la questione delle frontiere di stato. Intanto gli imperialisti alleati stanno componendo alleanze di piccole potenze, sia vecchie sia nuove, ad essi legate con la garanzia della loro mutua inimicizia e comune impotenza.

Mentre opprimono e coartano i popoli piccoli e deboli, con ampi ceti intermedi tanto nelle campagne quanto nelle città sono ostacolati dal capitalismo, e sono in ritardo nel proprio sviluppo storico. Al contadino del Baden e della Baviera che non è ancora capace di vedere al di là del campanile della chiesa dei paese, al piccolo produttore di vino francese che viene rovinato dai capitalisti che operano su vasta scala e che adulterano il vino, e al piccolo coltivatore americano derubato e truffato dai banchieri e dai membri del Congresso - a tutti questi ceti sociali, spinti dal capitalismo fuori della corrente principale dello sviluppo, apparentemente si fa appello, in regime di democrazia politica, per dirigere lo stato. Ma in realtà, in tutte le questioni importanti che determinano i destini dei popoli, l'oligarchia finanziaria decide alle spalle della democrazia parlamentare. Ciò fu soprattutto vero per quel che riguardava la guerra; è vero ora per quel che riguarda la pace.

Quando l'oligarchia finanziaria ritiene opportuno avere una copertura parlamentare per i propri atti di violenza, lo stato borghese ha a propria disposizione a questo scopo molteplici strumenti ereditati da secoli di dominio di classe e moltiplicati da tutti i miracoli della tecnologia capitalista - menzogne, demagogia, irrisione, calunnia, corruzione, e terrore.

Esigere dal proletariato che, come un mite agnello, ottemperi alle prescrizioni della democrazia borghese nella lotta finale, per la vita o per la morte, con il capitalismo, è come chiedere ad un uomo che lotta per la propria vita contro dei tagliagole di osservare le regole artefatte e restrittive della lotta francese, redatte ma non osservate dai suoi avversari.

In questo regno della distruzione, dove non soltanto i mezzi di produzione e di scambio ma anche le istituzioni della democrazia politica giacciono sotto rovine insanguinate, il proletariato deve creare il suo proprio apparato, destinato in primo luogo a collegare la classe operaia e ad assicurare la possibilità di un intervento rivoluzionario nello sviluppo futuro dell'umanità. Questo apparato è il soviet degli operai. I vecchi partiti, i vecchi sindacati, hanno dimostrato nelle persone dei propri dirigenti di essere incapaci di condurre a buon fine, persino di comprendere, i compiti indicati dalla nuova epoca. Il proletariato ha creato un nuovo tipo di apparato, che abbraccia l'intera classe operaia indipendentemente dall'occupazione specifica e dalla maturità politica, un apparato flessibile capace di rinnovamento e di estensione continui, capace di attirare nella propria orbita ceti sempre più vasti, aprendo le porte ai lavoratori della città e della campagna che siano vicini al proletariato. Questa organizzazione insostituibile dell'autogoverno della classe operaia, della sua lotta, e poi della sua conquista del potere statale, è stata collaudata nell'esperienza di vari paesi e rappresenta la conquista maggiore e l'arma più potente del proletariato del nostro tempo.

In tutti i paesi in cui le masse si sono risvegliate alla coscienza, continueranno a costituirsi i soviet dei delegati degli operai, soldati, e contadini. Rafforzare i soviet, accrescerne l'autorità, erigerli in contrapposizione all'apparato statale della borghesia - questo è oggi il compito più importante dei lavoratori leali e dotati di coscienza di classe di tutti i paesi. Per mezzo dei soviet la classe operaia può salvarsi dalla disgregazione introdotta nel suo seno dalle orribili sofferenze della guerra e della fame, dalla violenza delle classi possidenti e dal tradimento dei suoi vecchi dirigenti. Per mezzo dei soviet la classe operaia sarà in grado di arrivare con maggiore sicurezza e facilità al potere in tutti quei paesi in cui i soviet sono in grado di raccogliere la maggioranza dei lavoratori. Per mezzo dei soviet la classe operaia, una volta conquistato il potere, dirigerà tutte le sfere della vita economica e culturale, com'è attualmente il caso della Russia.

Il crollo dello stato imperialista, da quello zarista a quello più democratico, va di pari passo col crollo del sistema militare imperialista. Gli eserciti innumerevoli mobilitati dall'imperialismo potevano reggersi soltanto finché il proletariato fosse rimasto obbedientemente sotto il giogo della borghesia. Lo sfacelo dell'unità nazionale significa anche uno sfacelo inevitabile dell'esercito. Questo è quanto accadde prima in Russia, poi in Austria-Ungheria e in Gerso di tutti gli strumenti a propria disposizione per paralizzare l'energia del proletariato, prolungare la crisi, e rendere così anche maggiori le calamità dell'Europa. La lotta contro il centro socialista è la premessa indispensabile per la lotta vittoriosa contro l'imperialismo.

Nel respingere la pavidità, le menzogne e la corruzione degli antiquati partiti socialisti-ufficiali, noi comunisti, uniti nella terza Internazionale, riteniamo di continuare in successione diretta gli sforzi eroici e il martirio di una lunga serie di generazioni rivoluzionarie da Babeuf a Karl Liebknecht a Rosa Luxemburg.

Se la prima Internazionale previde il futuro corso degli eventi e indicò le vie che esso avrebbe seguito, se la seconda Internazionale raccolse e organizzò milioni di proletari, la terza Internazionale, dal canto suo, è l'Internazionale della aperta lotta di massa, l'Internazionale della realizzazione rivoluzionaria, l'Internazionale dell'azione.

L'ordine mondiale borghese è stato fustigato a sufficienza dalla critica socialista. Il compito del Partito comunista internazionale consiste nel rovesciare quell'ordine e nell'erigere al suo posto l'edificio dell'ordine socialista.

Noi facciamo appello ai lavoratori e alle lavoratrici di tutti i paesi perché si uniscano sotto la bandiera comunista sotto cui sono già state ottenute le prime grandi vittorie.

Proletari di tutti i paesi! Nella battaglia contro la ferocia imperialista, contro la monarchia, contro le classi privilegiate, contro lo stato borghese e la proprietà borghese, contro tutti i generi e le forme di oppressione sociale e nazionale: Unitevi!

Sotto la bandiera dei soviet degli operai, sotto la bandiera della lotta rivoluzionaria per il potere e la dittatura del proletariato, sotto la bandiera della terza Internazionale - proletari di tutti i pesi, unitevi!

6 marzo 1919

martedì 5 novembre 2019

ILVA: NAZIONALIZZAZIONE, LA SOLA SOLUZIONE

La battaglia dell'Ilva assume oggi una valenza centrale.



LA BUFALA DELL'ACCORDO DI UN ANNO FA

L'accordo firmato un anno fa dal primo governo Conte (M5S-Lega) concedeva la principale azienda siderurgica italiana al più grande colosso della siderurgia mondiale, Arcelor Mittal. Le burocrazie sindacali firmatarie dell'accordo, CGIL, CISL, UIL, lo celebrarono come l'accordo del secolo, magnificandone le virtù: difesa dell'occupazione e dei diritti dei lavoratori, garanzia di risanamento ambientale, un orizzonte radioso. Persino USB firmò, unendosi al coro. Il tutto a copertura, incredibile a dirsi, dell'allora governo M5S-Lega, ma anche col plauso del PD e di larga parte delle sinistre “radicali”. Del resto... garantiva il mitico Maurizio Landini, neosegretario generale CGIL, come si poteva sconfessarlo?

Ma l'anno trascorso ha fatto tabula rasa di questa retorica. Riduzione dell'occupazione reale a regime, selezione antisindacale delle riassunzioni, taglio dei diritti acquisiti per i lavoratori riassunti, aumento della cassa integrazione, risparmi sulla sicurezza del lavoro, ritardi sugli impegni ambientali. Basti pensare che ad oggi i soli interventi di risanamento avvenuti, compresa la copertura dei parchi minerari, sono stati finanziati dai fondi sequestrati a Riva. Insomma, un vero bidone. Come il nostro partito aveva denunciato e previsto.

Il “recesso” di ieri di Arcelor Mittal è solo la confessione pubblica di questa verità.


L'IMMUNITÀ PENALE PER IL PROFITTO

Il colosso franco-indiano ha acquistato gli stabilimenti ex Ilva dietro garanzia dell'immunità penale. Una clausola inesistente altrove. Sta a dire che la messa a norma della produzione dal punto di vista ambientale richiede un certo tempo, e che in questo tempo l'azienda è immune sotto il profilo giudiziario, cioè non risponde di reati ambientali o di mancata sicurezza sul lavoro. L'esistenza stessa di questa clausola, quale condizione dell'acquisto, chiarisce se ve n'era bisogno la sua spregiudicatezza e persino la sua natura incostituzionale. Il profitto reclamava una zona franca a garanzia dei azionisti, governo e sindacati acconsentivano.

Ma dopo il tracollo elettorale dei Cinque Stelle a Taranto, e non solo, il panico dei parlamentari pugliesi, la minaccia di un loro abbandono, in particolare al Senato, col rischio conseguente di una possibile caduta del governo, il buon Di Maio è dovuto correre ai ripari concedendo alla fronda interna la rimozione parziale dell'immunità. E Arcelor Mittal ha colto la palla al balzo per tirarsi fuori. Senza immunità penale il profitto se ne va.


LA GUERRA MONDIALE DELL'ACCIAIO

Una mossa contrattuale per riottenere lo scudo giudiziario, oppure per negoziare magari un nuovo accordo con tagli maggiori sull'occupazione? Lo vedremo. Certo l'operazione ha risvolti più ampi che vanno ben al di là dell'aspetto giuridico. Arcelor Mittal ha acquisito gli stabilimenti ex Ilva per sottrarli innanzitutto alla concorrenza. La sovrapproduzione dell'acciaio è enorme sul piano mondiale, anche per l'ingresso della concorrenza cinese. Tutti i grandi gruppi del settore sono dunque impegnati in una guerra senza risparmio di colpi. Questa guerra si combatte attraverso l'abbattimento dei costi: riduzione della manodopera, distruzione dei diritti, aggiramento delle clausole ambientali (laddove esistono). Arcelor Mittal è in prima fila in questa guerra, una guerra che investe la siderurgia europea, a partire da Germania e Francia. L'Italia è solo un frammento di questa partita di domino. I grandi azionisti di Arcelor si muovono e si muoveranno in Italia secondo le convenienze del proprio piano industriale globale. Di certo la nomina come nuovo amministratore delegato della mastina Lucia Morselli, nota “tagliatrice di teste” in fatto di posti di lavoro, non promette nulla di buono. Le cifre che circolano sui cosiddetti esuberi annunciano una possibile mattanza.


NON CI SONO PADRONI BUONI

Tutta la lunga esperienza della privatizzazione della siderurgia italiana conferma che non vi sono padroni buoni. Vi sono solo padroni interessati al profitto. A qualsiasi costo, per l'appunto, cancro incluso. Sempre con l'assistenza dello Stato, spesso con la complicità dei burocrati sindacali. Padron Riva comprò nel 1995 la vecchia Italsider per un pugno di lire, allo scopo di spolparla per quasi vent'anni e portare in Svizzera i miliardi fatti, mentre le polveri sottili dei parchi scoperti avvelenavano Taranto. Le burocrazie sindacali, a partire da Taranto, finirono (letteralmente) sul libro paga dei Riva per garantire pace sociale in fabbrica e protezione sul territorio. La vicenda della FIOM tarantina fu emblematica. Ora i nuovi acquirenti di Arcelor Mittal hanno prima avuto in dono dallo Stato un contratto vantaggioso penalmente immune, e ora minacciano di rifarsi contro gli operai, per di più pretendendo come faceva Riva la “solidarietà delle maestranze”.

Nessuna solidarietà va data invece ai nuovi padroni. L'interesse di classe degli operai non ha nulla da spartire col loro. La siderurgia va certo salvaguardata, fuori e contro la pretesa specularmente opposta di chi chiede la chiusura degli stabilimenti (chi rivendica la chiusura nel nome del risanamento del territorio dia un occhiata al deserto di Bagnoli, presidiato da camorra e disperazione, e poi ne riparliamo). Ma gli operai non possono scegliere tra morire di fame o morire di cancro. Possono e debbono rivendicare insieme lavoro e salute, diritti inseparabili, e possono farlo solo contro la legge del profitto. Per questo avanziamo la parola d'ordine della nazionalizzazione dell'Ilva, senza alcun risarcimento per i nuovi acquirenti, e sotto il controllo dei lavoratori.


NAZIONALIZZAZIONE E RICONVERSIONE

La produzione di acciaio è indispensabile, come il risanamento ambientale dei territori inquinati. Tenere insieme queste due esigenze è perfettamente possibile, sulla base delle acquisizione della tecnica e della scienza. La stessa Arcelor Mittal ha riconosciuto che la produzione di acciaio attraverso il gas e non il carbone è tecnicamente possibile, salvo lamentare i maggiori costi e dunque la non convenienza di mercato. Ma la non convenienza per gli azionisti coincide con la massima convenienza per i lavoratori e la maggioranza della società. Per questo gli stabilimenti ex Ilva vanno nazionalizzati sotto controllo operaio. Perché solo gli operai, nel loro proprio interesse, possono tutelare i posti di lavoro, anche attraverso la riduzione dell'orario a parità di paga. Perché solo gli operai, nel loro proprio interesse, possono conciliare la tutela del lavoro con la riorganizzazione radicale della produzione dell'acciaio, dando risposta reale alla domanda di sicurezza ambientale della popolazione povera dei quartieri. Più in generale, va nazionalizzata l'intera produzione dell'acciaio, riorganizzando la produzione secondo un piano del lavoro definito dai lavoratori stessi, finalmente sottratto al cinismo cieco del mercato.


DI INCOMPATIBILE C'E SOLO IL CAPITALISMO

La nazionalizzazione è “incompatibile” con la legislazione della UE, con il libero mercato, con le virtù del capitale? È vero. Ma solo nel senso che è il capitale ad essere incompatibile con le esigenze della società umana. La battaglia per la nazionalizzazione dell'ex Ilva o diventa una battaglia anticapitalistica per un governo dei lavoratori, o non è.

Il PCL farà della battaglia per la nazionalizzazione l'asse del proprio intervento tra i lavoratori Ilva. Ed è una battaglia che non può limitarsi all'Ilva. Se la più grande azienda del paese è sotto attacco, se sono in gioco 20.000 operai, sommando l'indotto, se è in gioco il cuore della produzione industriale su scala nazionale, lo scontro riguarda l'intero movimento operaio italiano. Il fronte unico a difesa del lavoro per la nazionalizzazione dell'Ilva è la parola d'ordine centrale di tutte le avanguardie di classe.

Marco Ferrando