POST IN EVIDENZA

domenica 29 dicembre 2019

TIZIANO BAGAROLO | UOMO, NATURA, SOCIETÀ NEL MARXISMO

L’uomo è immediatamente ente naturale. Come ente naturale, e ente naturale vivente, è da una parte fornito di forze naturali, di forze vitali, è un attivo ente naturale, e queste forze esistono in lui come disposizioni e capacità, come impulsi; e d’altra parte, in quanto ente naturale, corporeo, sensibile, oggettivo, è un ente passivo condizionato e limitato, come è anche l’animale, e la pianta: e cioè gli oggetti dei suoi impulsi esistono fuori di lui come oggetti del suo bisogno, oggetti indispensabili, essenziali alla manifestazione e conferma delle sue forze essenziali”


 

sabato 28 dicembre 2019

IL MINISTRO FIORAMONTI SI È DIMESSO, I SOTTOSEGRETARI RESTANO AL LORO POSTO



Il Ministro Fioramonti ha rassegnato le dimissioni dopo l'approvazione della manovra di Bilancio con ben poche risorse destinate alla ricerca e all'istruzione.
Si sa che lo stato in cui versano scuole e università è da tempo comatoso.
Dal 2008 ad oggi il rapporto tra salari e redditi da lavoro è crollato , rinviata a tempo indeterminato l'annunciata ripresa e crescita, la classe media è stata schiacciata verso il basso e in questa classe media si trovano anche gli insegnanti.
Nell'inversione di tendenza delle politiche intraprese da anni ad oggi c'era proprio la istruzione , la ricerca e la formazione, istruzione universitaria , scolastica e quella legata anche alle professioni.
Il Ministro Fioramonti si è dimesso al contrario dei suoi collaboratori, dei sottosegretari che restano invece al loro posto.
Resta il fatto che Fioramonti aveva già dovuto digerire vari bocconi amari, dagli Invalsi alla alternanza scuola lavoro giudicati, a novembre scorso, indispensabili requisiti per accedere all'esame di maturità, fino alla contrazione dei fondi destinati ai rinnovi contrattuali della scuola tenuti fermi per 9 anni con stipendi, al cospetto dell'Europa, tra i più bassi in assoluto.
Si sono persi per strada anche i fondi destinati all'edilizia scolastica, anzi molti sindaci sembrano più interessati solo ai controlli antidroga davanti alle scuole che alla messa in sicurezza degli edifici, non si trovano i soldi per costruire palestre e moderni laboratori.
Altro aspetto dirimente è quello della regionalizzazione.
Si scrive regionalizzazione ma si legge privatizzazione della Scuola statale a discapito del carattere universale della scuola, dell'unità culturale del nostro paese in palese violazione per altro di quell'articolo 5 della Costituzione che parla di Repubblica una e indivisibile.
L'autonomia scolastica, dunque, e non l'incarico di Ministro, dovrebbero servire a focalizzare l'attenzione ai problemi reali non certo alle solite polemiche politiche.

Diventa fondamentale non solo una presa di coscienza nelle migliaia di lavoratori della scuola, vittime di questo sistema errato di gestione, ma creare strutture di coordinamento e lotta per la propaganda e la denuncia di tale problematica. 

martedì 24 dicembre 2019

FRANCIA: I FERROVIERI VOTANO LA CONTINUITÀ DELLO SCIOPERO

Dopo 18 giorni di sciopero a oltranza contro "la legge Fornero di Macron", i ferrovieri francesi non mollano.




 Il governo cerca di montare l'opinione pubblica contro lo sciopero usando il ricatto del Natale e combinandola con qualche piccola concessione. La burocrazia del secondo sindacato dei ferrovieri francesi (UNSA Ferroviaire) usa queste concessioni come pretesto per sfilarsi dal fronte dello sciopero e dichiarare la “tregua natalizia”. La moderata CFDT, che solo il 14 dicembre era scesa in sciopero contro l'aumento dell'età pensionabile da 62 a 64 anni, si è affrettata ad “apprezzare il nuovo gesto di dialogo che viene dal governo”, lanciando un messaggio implicito di smobilitazione. Infine, il fronte intersindacale (CGT, FO, Solidaires, FSU, UNEF...) che dirige lo sciopero e rivendica, a differenza della CFDT, il ritiro del progetto di legge governativo, annuncia una giornata di manifestazioni... per il 9 gennaio. Un annuncio che formalmente non smobilita, ma suona ambiguo sulla continuità dello sciopero nel momento più delicato e difficile per la sua tenuta.

Di fronte a questa congiunzione di fattori, il 21 dicembre la stampa borghese di Parigi si è affrettata a dare la buona novella natalizia dello sfarinamento dell'agitazione. “Il governo riesce a rompere il fronte dello sciopero” annunciava il (pur prudente) Le Monde in prima pagina.
Ma i conti non si fanno senza l'oste. Le assemblee dei lavoratori in sciopero hanno respinto le ingiunzioni del governo e i segnali di smobilitazione delle burocrazie. Di primo mattino alla Gare de Lyon, all'assemblea generale della stazione di Saint-Lazare, alla Gare de l'Est e alla Gare d'Austerlitz, il pronunciamento operaio è uno solo: lo sciopero continua sino al ritiro del progetto di legge. La larghissima maggioranza delle assemblee in tutta la Francia segue a ruota. I delegati di base dei CGT e Solidaires sono la punta trainante del pronunciamento. Ma la stessa CFDT-ferrovieri è costretta a dichiarare la continuità del blocco, e persino il 50% delle sezioni dell'UNSA si ribellano ai propri dirigenti nazionali: “Non capisco la strategia del gruppo dirigente del mio sindacato... Non si spezza una lotta nel momento decisivo” dichiara in assemblea un delegato UNSA della Gare Paris Est. Il risultato è che la Francia resta bloccata. Anche a Natale, nonostante il Natale.

Seguiremo come sempre, giorno per giorno, la dinamica dello sciopero francese. Certo, pesa sulla prospettiva l'ipoteca della burocrazia sindacale. Sia di quella che sogna un accordo separato col governo in cambio di una onorevole foglia di fico (CFDT), sia di quella sicuramente più combattiva che vuole sopravvivere al macronismo costringendo il governo a riconoscere la sua forza di burocrazia (CGT). Ma i fatti dimostrano che la burocrazia non ha ad oggi il pieno controllo delle assemblee, dove una nuova generazione di delegati operai si è fatta le ossa nelle lotte di questi anni (come nella lotta contro la legge El Khomri), ha accumulato una esperienza preziosa, non ha alcuna voglia di arrendersi. Anzi, ha voglia di vincere. Gli insegnanti hanno aderito in massa allo sciopero al fianco dei ferrovieri, e nonostante le scuole siano in vacanza natalizia, manifestano la continuità della propria lotta partecipando spesso ai picchetti degli cheminots e alle loro assemblee, mentre continua lo sciopero a oltranza della metropolitana, e la mobilitazione radicale degli infermieri, che in realtà aveva anticipato quella dei ferrovieri. Si estenderà la lotta al settore privato, innanzitutto alle fabbriche? Questo è l'interrogativo sospeso che può decidere della piega degli avvenimenti. È ciò che terrorizza la borghesia francese. Ma anche la burocrazia sindacale.

Ai lavoratori francesi, e ai militanti marxisti rivoluzionari, impegnati in prima fila per la generalizzazione della lotta, va tutto il nostro sostegno internazionalista.

Partito Comunista dei Lavoratori

venerdì 20 dicembre 2019

LA NECESSITÀ E LA CENTRALITÀ DELLA RICOSTRUZIONE DI UN'OPPOSIZIONE SOCIALE E POLITICA DI CLASSE



Il capitalismo è un modo di produzione moribondo che passa di crisi in crisi. L’ultima crisi ciclica di sovrapproduzione di capitale, si aprì a metà del 2017 e scoppiò nel settembre 2008 stremando l’economia mondiale e provocando fallimenti a catena, distruzione di forze produttive e un elevato indebitamento degli Stati imperialisti e capitalisti per salvare i monopoli finanziari.

Ora, a distanza di undici anni dallo scoppio dell’ultima crisi, le cui conseguenze sono state solo parzialmente riassorbite e le cui “soluzioni” imposte dalla borghesia imperialista, hanno determinato nuovi problemi e contraddizioni insolubili del sistema capitalista aprendo, così, una nuova fase del ciclo economico.

La macchina economica di tutte le maggiori potenze imperialiste, come USA, Cina, Germania, Giappone, sta evidentemente frenando. Non vi sono dati che indicano una ripresa economica. Al contrario, si moltiplicano gli indicatori di una ennesima tempesta, che avrà conseguenze persino peggiori di quella scoppiata nel 2008, a causa di molteplici fattori che si sono accumulati nell'ultimo decennio.

Dietro la polemica sul MES c’è una lotta a coltello fra paesi imperialisti, e fra le loro cordate politiche, per riversare la crisi sui loro concorrenti, e soprattutto sulle spalle della classe operaia e dei popoli. L’UE non potrà mai essere organo stabile di pianificazione economica che rimpiazzi l’anarchia capitalista; è piuttosto un campo di battaglia in cui gli Stati e i gruppi del grande capitale manovrano le loro forze l’uno contro gli altri.

In questi anni, decenni per molti aspetti, di arretramento profondo del movimento operaio, di crollo della sinistra politica e spesso anche di deriva culturale, i riferimenti di classe sono scomparsi, sono diluiti, tutti parlano di cittadini e si rivolgono ai cittadini.

I cittadini, naturalmente, possono essere progressisti, possono essere reazionari, possono essere persino antagonisti. Ma la categoria dominante è la categoria del cittadino, un'entità metafisica al di sopra del mondo materiale delle cose.

Non ci sono i cittadini, ci sono le classi e mai come oggi queste classi sono divise, contrapposte, inconciliabili come negli anni della grande crisi del capitalismo. Lavoratori e padroni, salariati e capitalisti, sfruttati e sfruttatori. Non si possono tenere i piedi in molte staffe. 

Questa è la frontiera, la prima frontiera.

Se tutto questo è vero emerge con assoluta evidenza la necessità e la centralità della ricostruzione di un'opposizione sociale e politica di classe in questo paese, opposizione al governo Conte, opposizione alla destra reazionaria, un'opposizione che si coaguli attorno ad una piattaforma generale indipendente nel mondo del lavoro.

 Non è solo una necessità sindacale, è una necessità politica.  
È  l'unica via attraverso cui il movimento operaio può ricomporre le proprie file, contrastare la dinamica di disgregazione, costruire la propria forza contro le mille dinamiche centrifughe.

Può porre finalmente le proprie ragioni e rivendicazioni al centro dello scenario politico generale per intervenire nelle contraddizioni sociali, per lavorare e capovolgere i rapporti di forza nei luoghi di lavoro e nella società.


PCL Pavia

sabato 14 dicembre 2019

IL POSTO A TAVOLA. LANDINI, LA CGIL E IL GOVERNO

Dal sito dell'area Riconquistiamo tutto - il sindacato un’altra cosa



Qualche settimana dopo la costituzione del nuovo governo Conte bis, Crozza ha realizzato la cena delle beffe: un Salvini solo e sotto la pioggia guarda dietro a una vetrina i protagonisti della nascita del nuovo esecutivo bere, mangiare, ridere e scherzare. Sono Conte, Grillo, Zingaretti, Berlusconi, Gentiloni, Mattarella e… Landini. Il quale ricorda a tutti di aver fatto la ola con la Camusso, ma anche che tra gli operai la Lega è ancora forte... “sembra me negli anni Novanta”. Come spesso accade, con le sue caricature Crozza riesce a cogliere l’anima di un passaggio politico.

Nella crisi estiva, infatti, la CGIL si è seduta a pieno titolo intorno a quel tavolo. Prima sospingendo la formazione di un nuovo esecutivo (anche con le dichiarazioni pubbliche di Landini, proprio nei momenti cruciali in cui la segreteria PD non era convinta della soluzione e non era convinta di Conte). Poi instradando alcuni suoi cardini programmatici, a partire dalla defiscalizzazione dei salari come strumento per aumentare i redditi.

Una linea pienamente confermata dal Direttivo CGIL, con una nuova dinamica che ha fluidificato gli schieramenti congressuali nella maggioranza. Una scelta confermata anche nei mesi successivi, nell’azione dell’organizzazione. Di fronte al rischio dei "pieni poteri" di Salvini, di fronte alla possibilità di un governo reazionario a guida leghista, la CGIL ha infatti aperto un credito senza fine nei confronti dell’esecutivo. Da una parte, in ogni settore ed a livello generale, ha incontrato maggioranza e ministri sulle più disparate questioni, cercando sia di indirizzarne gli interventi sia di legittimarsi nell’interlocuzione. Dall’altra parte, ha sospeso e bloccato ogni mobilitazione di massa, per evitare che la pressione sociale mettesse in discussione una compagine che si è rivelata molto più fragile del previsto.

In questi mesi, però, la CGIL ed il lavoro hanno raccolto poco o niente. Sul terreno dei diritti sociali e civili, non una sola norma del precedente governo Conte-Salvini è stata toccata (comprese quelle più infami, come i decreti sicurezza o gli accordi libici). Nella scuola, la maggioranza ha sconfessato le intese sul precariato sottoscritte prima dell’estate (già molto contenute, con un concorso straordinario limitato a 24 mila posti ed uno ordinario per altrettanti, oltre a percorsi abilitanti straordinari per tutti), per poi ricostruirle solo parzialmente, rivedendole continuamente con un travagliato percorso parlamentare (non ancora concluso). Nelle politiche economiche, la conferma dell’austerità europea ha tagliato sul nascere ogni logica di ripresa degli investimenti pubblici, a partire da scuola, sanità e servizi sociali (che hanno visto confermati i tagli e gli impianti neoliberisti degli scorsi anni). Nella legge di bilancio, dopo aver garantito aziende e liberi professionisti, lo spazio per l’aumento dei redditi attraverso la riduzione del cuneo fiscale si è molto ridotto, senza poter nemmeno garantire una solida spinta alla stagione di rinnovi contrattuali appena avviata. I contratti pubblici, nonostante le attese, sono stati nuovamente rimandati (ancora una volta alla fine del triennio di competenza) e sono tuttora schiacciati sull’IPCA, senza alcun recupero del lungo blocco salariale e senza nessuna fuoriuscita dalla logica gerarchica della Brunetta e della Madia. I pensionati e la previdenza sono stati semplicemente messi da parte. Sull’autonomia differenziata, dopo un primo inabissamento autunnale, la bozza Boccia sta riportando in auge il processo della differenziazione dei diritti e dei servizi universali, sotto il fragile velo dei LEP (improbabilmente definiti entro un anno e comunque soggetti alla logica neoliberista dei costi minimi) e con l’esclusione di un vero coinvolgimento parlamentare. La tragedia dell’Ilva, l’ennesima crisi di Alitalia, la vicenda Whirlpool e la ripresa di una stagione di ristrutturazioni sospinta dalla congiuntura incerta hanno evidenziato l’assenza di ogni politica industriale, la confusione programmatica e, soprattutto, l’anima padronale di questo governo.

Non solo. In questi mesi il governo Conte bis ha evidenziato tutta la sua inconsistenza. La maggioranza 5 Stelle, PD, Italia Viva (Renzi) e LeU (sinistra) non ha solo incontrato evidenti limiti di consenso nel paese (come hanno mostrato i risultati delle elezioni autunnali, a partire dall’Umbria). Si è anche avvitata nei contrasti dei suoi diversi protagonisti e persino all’interno dei diversi partiti che la compongono. Soprattutto, dalla legge di Bilancio all’Ilva, dalla gestione di scuola e dell’università (l’agenzia della ricerca, i 3 miliardi di fondi aggiuntivi, il decreto precari) al MES (il fondo di salvaguardia europeo), la maggioranza ha mostrato tutte le sue contraddizioni e tutte le sue incapacità. In un tempo sospeso, tra le incertezze di uno scontro interimperialista sempre più acuto e ripetuti segnali di una nuova precipitazione della Grande Crisi, si è rapidamente sfaldata ogni illusione sulla solidità e le prospettive di questo governo. L’argine ai "pieni poteri" di Salvini si sta sempre più rivelando l’incubatore di un’ulteriore svolta a destra a livello di massa, con un consolidamento dell’egemonia reazionaria nelle classi subalterne trascinato non solo da una Lega che rimane ben salda nel consenso popolare ma che si salda con la significativa crescita di Fratelli d’Italia.

Nonostante questo, la CGIL si è ben guardata dall'alzarsi dal tavolo. Nonostante il dibattito di settembre sull’eventuale necessità di riprendere la mobilitazione se dal governo non fosse arrivata una svolta reale (con i relativi apparenti solchi nella maggioranza), la segreteria CGIL ha tenuto il freno a mano tirato. Anzi, nel Direttivo del 19 ottobre e poi nell’Assemblea Generale della settimana scorsa (6 dicembre) ha confermato l’impostazione dei mesi precedenti: ha continuato a sottolineare la priorità della salvaguardia di questo quadro politico, per evitare ogni precipitazione elettorale e ogni rischio che la destra conquisti il governo; ha quindi continuato a dar credito all’esecutivo ed alle sue prospettive; ha evitato in ogni modo di dispiegare mobilitazioni di massa, anche dove la pentola bolliva e l’urgenza delle cose era evidente (dalla scuola all’autonomia differenziata, dai contratti pubblici all’Ilva). Solo i pensionati hanno riempito il Circo Massimo, a segnalare la loro particolare delusione. Nessun corteo nazionale è stato programmato, nessuno sciopero generale è stato indetto. Per evitare di lasciar le piazze completamente vuote, a fronte del pugno di mosche concesso dal governo, la segreteria CGIL ha lanciato tre comizi/presidi in una piccola piazza romana (Santi Apostoli), in giornate lavorative ma senza sciopero. La pantomima di una mobilitazione, senza rivendicazioni concrete, per di più in tono minore perché anche solo l’ombra di una contestazione reale potrebbe metter in discussione tutta la fragile impalcatura che sorregge il governo.

Ci si poteva limitare a questo. La conquista della CGIL da parte di Landini, con le tante aspettative che aveva sollevato in ampi strati di delegati e attivisti di una ripresa di iniziativa e di conflitto (il sindacato di strada), poteva spegnersi così, festosamente e un po’ malinconicamente, nella partecipazione alle tavolate di Conte. Subordinando gli interessi del lavoro alle priorità e gli equilibri del quadro politico, tenendo congelate le energie e le risorse dell’unica struttura di massa rimasta nel campo della sinistra sociale, sperando di guadagnar tempo e così, magari grazie alla provvidenza, evitare un ritorno al potere del fronte reazionario. Lasciando ad altri le piazze, a partire dalle provvidenziali sardine (giovani, perbene e socialmente neutre), per segnare un punto di svolta nel senso comune di massa e quindi nelle speranze elettorali della destra reazionaria. E così senza porsi il problema della composizione sociale di quelle piazze, delle sue rivendicazioni, del solco di classe che le segna, del ripiegamento e dello scompaginamento della moltitudine del lavoro.

Il saldatore della patria però difficilmente si lascia inscrivere in un ruolo a margine. È troppo grande la tentazione, nel vuoto e nella fragilità del governo, di conquistarsi un ruolo al centro della tavola, sotto i riflettori della ribalta. Così sta provando a trasformare in strategia una linea congiunturale dettata dalla rigidità del quadro politico, senza alcuna riflessione d’insieme e senza nessun dibattito nell’organizzazione. Lunedì 9 dicembre, infatti, Landini ha rilasciato una lunga intervista a La Repubblica, per rilanciare un ruolo straordinario al sindacato ed alla sua iniziativa. Molte cose colpiscono di questa intervista. In primo luogo, colpisce l’assenza quasi completa di ogni riferimento al rilancio dell’unità sindacale (solo un breve passaggio sulle piazze di questa settimana): dopo averne fatto la cifra della sua conquista della segreteria ed averla rilanciata in un’intervista di pari segno lo scorso primo maggio, nell’autunno la sua dinamica effettiva è sembrata arenarsi (al di là di quella riconquistata unità di azione che segna gli ultimi anni); oggi sembra quasi evaporare in un'intervista in cui il soggetto centrale e ripetuto è la CGIL. In secondo luogo, colpisce la rivendicazione fatua e leggera di esser oggi nelle piazze insieme a sardine e Fridays For Future: suona francamente un po’ ridicola considerando che le ultime iniziative di massa del sindacato risalgono ad un’altra stagione (il corteo romano di febbraio e lo sciopero metalmeccanico di giugno). In terzo, ma non ultimo luogo, colpisce la dichiarazione che non si vede «un intervento pubblico in sostituzione di quello privato»: compito del pubblico sarebbe solo quello di «orientare lo sviluppo» (sollecitando, indirizzando e accompagnando gli spiriti animali del mercato, mi immagino), evitando quindi ogni richiesta di un «intervento massiccio del pubblico in economia» (come esplicitamente indicava la domanda); scompare qui, mi sembra, ogni minima traccia di quell’aspirazione alla trasformazione sociale della produzione e della società attraverso l’intervento pubblico che segnava e significava l’impianto riformista della CGIL (persino il suo recente Piano del lavoro), superando quindi in una sola battuta un’intera tradizione ed un’intera prospettiva che hanno animato questo sindacato. Quello che però colpisce di più è soprattutto il fulcro della sua intervista, sin dal titolo: «Un’alleanza con governo e imprese per impedire che il paese si sbricioli» (una proposta che, non a caso, ha subito trovato l’adesione entusiasta di Conte e di Zingaretti, che ne stanno quasi facendo la pietra su cui provare a rilanciare il governo a gennaio).

La CGIL, infatti, da qualche anno aveva archiviato le politiche concertative. Certo, negli ultimi decenni questa era effettivamente stata la sua strategia di riferimento per affrontare le crisi più significative. Però con la Grande Crisi apertasi nel 2007/'08, con i due picchi recessivi del 2009 e del 2012 e la lunga stagnazione successiva, si era rivelato impossibile replicarla. I governi della crisi, tecnici e politici (Berlusconi, Monti, Letta e poi con ancora maggior nettezza quelli Renzi e Gentiloni, seguito senza particolari innovazioni su questo fronte da Conte) avevano infatti praticato politiche di disintermediazione più o meno accentuate. La gestione capitalistica della crisi, segnata dalla constatazione di Draghi del superamento del modello sociale europeo, spingeva da una parte allo smantellamento dei diritti e dei servizi universali (anche con le relative modifiche costituzionali), dall’altro ad una politica di diretto sostegno pubblico al sistema produttivo (difesa dei margini di profitto e della competitività internazionale). Si esauriva così ogni ruolo ed ogni spazio di ulteriore mediazione sociale per il governo. Il gruppo dirigente della CGIL si era quindi rassegnato a trattare direttamente e solamente con l’impresa (la continua e vana ricerca di un patto di fabbrica) e parallelamente a intervenire direttamente sulle politiche del governo: da una parte con la presentazione del Piano del lavoro e la richiesta di una politica di massicci investimenti pubblici (con un nuovo protagonismo dello Stato nell’economia e nello sviluppo industriale), dall’altra con specifiche iniziative di proposta e intervento a livello politico-parlamentare (dalla "carta dei diritti" ai referendum).

La concertazione, in realtà, non aveva mai funzionato nel nostro paese. Il modello viene dal nord Europa (vedi la seconda delle Sette note sul salario globale: 1992/2017): definiva (nel quadro neocorporativo di trattative trilaterali tra sindacati, governo e padronato) uno scambio per cui l’autolimitazione nelle rivendicazioni stipendiali (allora per contenere l’inflazione) era compensata da welfare e investimenti pubblici. In pratica, i sindacati scambiavano una quota potenziale di salario diretto in cambio di salario sociale (con convenienza, of course, del padronato). Quel modello fu però sviluppato in una fase espansiva: già negli anni '70, con il cambio del ciclo, collassò con lo sviluppo progressivo di politiche neoliberiste anche in quei paesi (Svezia, Danimarca, Norvegia, ecc). La particolarità italiana è che questa strategia di regolazione sociale è stata introdotta non per gestire l’espansione, ma le crisi.

Due sono i punti di riferimento che hanno segnato la storia del sindacato. Il primo è la “svolta dell’Eur” (febbraio 1978), quando CGIL CISL UIL definirono una linea imperniata sui sacrifici (accettazione dei licenziamenti e delle ristrutturazioni) come contropartita di un programma di investimenti per il rilancio dell’industria (una svolta in realtà contrastata dal lungo '69, a partire dai rinnovi contrattuali di quella stagione e dallo sciopero FLM del 1979 che portò alla caduta del governo di unità nazionale, ma che alla fine si impose dopo i 35 giorni della FIAT con il cosiddetto “lodo Scotti” del 1983). Il secondo è “la concertazione” (1992/'93), quando CGIL CISL e UIL accettarono prima lo smantellamento della scala mobile e poi un modello contrattuale a due livelli, imperniato sulla moderazione salariale, in cambio di una promessa di investimenti per la ricerca, la formazione e una nuova politica industriale (un percorso in realtà molto contrastato da lavoratori e lavoratrici, che inaspettatamente ripresero le piazze anche con forme radicali e autorganizzate di lotta, prima nel cosiddetto autunno dei bulloni nel 1992 e poi nell’autunno del 1994 per difendere le pensioni, ma che alla fine si impose nei rinnovi contrattuali successivi e con la riforma Dini, fatta passare con un referendum che sollevò polemiche, in cui nei metalmeccanici prevalse il "no" ed il "sì" si limitò complessivamente al 65%).

Entrambe quelle esperienze segnarono un netto peggioramento dei salari e delle condizioni di lavoro. In una stagione di crisi, infatti, vennero assunti dal sindacato non solo gli obbiettivi di riduzione dell’inflazione, ma anche quelli padronali di riconquista dei margini di profitto (neocorporativismo all’italiana). Così la pratica concertativa non si limitava ad una semplice politica di moderazione degli stipendi (la cosiddetta “politica dei redditi”), ma diventava un vero e proprio contenimento anche del salario sociale (in contraddizione con lo stesso impianto neocorporativo), in cambio della promessa di un “secondo tempo” di investimenti che non si vide mai. Negli anni Ottanta la politica di sacrifici in cambio di investimenti pubblici si trasformò in una di sacrifici e basta, negli anni Novanta la concertazione si trasformò in blocco dei salari, privatizzazioni e precarizzazione diffusa, che permisero il trasferimento al capitale di oltre 10 punti di ricchezza del paese.

Oggi Landini tira fuori dall’armadio questo abito vecchio, lo spazzola un po’ e lo ripresenta come nuovo. Non è però un vestito che si adatta a questa stagione. Il problema infatti non sono solo i limiti ed i risultati storici di questa strategia. Il problema è che l’archiviazione delle politiche concertative da parte della CGIL non è stata determinata solo dall’assenza, o dalla debolezza, degli amici del sindacato nelle compagini governative. È stata soprattutto determinata da una gestione capitalistica della crisi che comprime gli spazi di un ruolo sociale dello Stato e quindi di una politica espansiva di stampo keynesiano. Il governo Conte bis non ha nessuna possibilità di recuperare oggi questi spazi. Perché la dinamica della crisi non è stata superata (anzi, proprio in questa stagione si sta incubando una sua prossima nuova precipitazione) e anzi spinge ancora prepotentemente sulla compressione del salario globale. Perché non ne ha nessuna intenzione: questa compagine di governo è nata proprio sotto l’egida della conferma dei vincoli e delle politiche neoliberiste di gestione della crisi imposte dall’Europa e conseguentemente non ha nessun impulso a superarle.

La nuova concertazione di Landini, allora, tratteggia un pauroso arretramento di classe ed un’ulteriore trasformazione del sindacato confederale. In una stagione in cui lo Stato rinuncia al suo ruolo di mediazione (fine del modello sociale europeo) per svolgere una funzione di supporto diretto al sistema produttivo (piegando tutte le sue infrastrutture al servizio delle imprese e del loro capitale umano), l’assunzione di una strategia concertativa da parte del sindacato lo spinge ad assumere un ruolo di organizzatore della forza lavoro più che di rappresentanza di lavoratori e lavoratrici (cancellando ogni autonomia del lavoro dal capitale). È una spinta in azione da tempo e che si è rafforzata proprio nell’ultimo decennio di crisi, con la moltiplicazione delle funzioni e delle strutture sussidiarie alla produzione (dagli enti bilaterali al welfare aziendale). L’assunzione oggi di una strategia concertativa rischia però di farne la cifra dominante del sindacalismo confederale.

Lo si vede nelle rivendicazioni congiunturali e nelle argomentazioni che oggi sostengono questa proposta di alleanza con governo e imprese. Nella linea di questi mesi, la CGIL si è focalizzata soprattutto su due rivendicazioni: lo sblocco delle grandi opere (come strumento immediato di crescita della domanda aggregata in funzione anticrisi) e la defiscalizzazione dei salari (per aumentare i redditi del lavoro). Sono due proposte congiunturali che si fanno carico della compatibilità e degli interessi delle imprese, subordinando ad essi quelli del lavoro. Le grandi opere (a fronte della crisi radicale delle grandi imprese di costruzione), non la priorità agli investimenti pubblici su scuola, sanità e servizi sociali. La defiscalizzazione per aumentare i redditi (a spese del bilancio dello Stato), non aumenti salariali diretti nei rinnovi contrattuali. Addirittura, pur di non uscire dal solco di questa logica, si sospingono politiche fiscali regressive (che favoriscono i redditi maggiori) come la defiscalizzazione degli aumenti salariali.

Nell’intervista su Repubblica l’alleanza tra governo, imprese e sindacati viene finalizzata ad orientare lo sviluppo industriale. Come? Con un protagonismo statale indiretto (Cassa Depositi e Prestiti), con un ruolo delle fondazioni bancarie e anche … dei fondi integrativi pensionistici (certo, con le opportune garanzie). E si propone anche una diretta compartecipazione del lavoro alla gestione dell’impresa: «cogestione? Non mi interessano formule», serve la «contrattazione preventiva» e la «partecipazione alle scelte» dei lavoratori e delle lavoratrici. Quello che colpisce, in questa intervista, è la leggerezza con cui vengono sdoganati concetti e prospettive sinora estranee alla CGIL, travolgendo ogni confine di classe attraverso il coinvolgimento diretto del salario differito nella gestione del capitale (fondi pensionistici come strumento di intervento nelle grandi crisi aziendali del paese), come del lavoro nella gestione delle imprese (la partecipazione alle scelte aziendali, a partire dall’innovazione tecnologica, non la contrattazione dell’organizzazione del lavoro partendo da interessi contrapposti).

Le interviste di Landini, in questa stagione, spesso alludono a possibili prospettive senza praticarle concretamente. Come sull’unità sindacale. Però, come sull’unità sindacale, queste parole e queste allusioni non sono senza conseguenze. Perché tracciano percorsi ed immaginari che penetrano nell’organizzazione, nella classe e nel senso comune. Tanto più se a tracciarli è una figura iconica come quella di Maurizio Landini, il saldatore della patria, che all’inizio di questa stagione di Grande Crisi ha rappresentato proprio la tenuta del lavoro contro l’assoluta centralità dell’impresa (la resistenza a Marchionne tra il 2010 ed il 2012).

Alzarsi dal tavolo è allora sempre più una necessità. In questa lunga cena delle beffe, infatti, non rischia solo di perdersi questa o quella rivendicazione, questo o quello tra gli interessi del lavoro. La CGIL rischia di smarrire le ragioni di fondo della sua parte sociale, contribuendo in prima persona a quello sfaldamento progressivo che sta attraversando la coscienza di classe e quindi paradossalmente favorendo in questo modo il consolidamento di quell’egemonia reazionaria che sta scavando proprio nelle classi subalterne. Diventa allora prioritario rompere quella cappa che preme sull’iniziativa sindacale, abbandonare quel tavolo ora, subito, prima che sia troppo tardi.

Come una puntina nel posto sbagliato, piccoli ma fastidiosi, il nostro compito è oggi quello di spingere in quella direzione.

Luca Scacchi

giovedì 5 dicembre 2019

COORDINARE LE SINISTRE DI OPPOSIZIONE PER CONTRASTARE GOVERNO CONTE E DESTRE REAZIONARIE

Intervista a Marco Ferrando

dal sito Il Pane e le rose




Sabato 7 dicembre, a Roma, si svolgerà un’iniziativa di notevole rilievo: l’assemblea nazionale unitaria delle sinistre di opposizione. Un passaggio convocato da tre organizzazioni (Partito Comunista dei Lavoratori, Partito Comunista Italiano, Sinistra Anticapitalista) che ha sin qui ricevuto le adesioni di numerose realtà. Ottenendo un primo, significativo risultato proprio nel rendere più evidente l’esistenza di settori politici che non si appiattiscono sulla logica del “meno peggio” e sul sostegno (più o meno critico) all’attuale governo. Nell’intervista che ci ha rilasciato, Marco Ferrando, portavoce nazionale del Partito Comunista dei Lavoratori, spiega che il punto, ora, è valorizzare questo dato per delineare azioni e campagne comuni, così da iniziare a contrastare la presa esercitata dal blocco sociale reazionario sulla nostra classe di riferimento.


Quali sono, a tuo avviso, le differenze e i motivi di continuità tra il primo e il secondo Governo Conte?

Il primo governo Conte (Di Maio-Salvini) si basava su due partiti diversamente reazionari che portavano in dote al grande capitale il controllo su un vasto blocco sociale a direzione medio-borghese (il capitalismo dei distretti per la Lega, le libere professioni per il M5S), purtroppo arruolando nelle proprie file anche un ampio settore dei lavoratori salariati. Il secondo governo Conte, col ritorno al governo del PD, vede di nuovo la presenza diretta del grande capitale al posto di comando. Per questo la sua formazione ha registrato il plauso del grande capitale finanziario, delle cancellerie europee, dell'establishment. L'elemento di continuità è dato non solo ovviamente dal comune rispetto delle compatibilità capitalistiche, al di là della maggiore linearità di relazioni con l'Unione Europea da parte dell'esecutivo attuale, ma dalla conservazione di tutte le peggiori misure reazionarie del Conte uno (Decreti sicurezza in particolare) e più in generale di tutte le misure antioperaie dell'ultimo decennio (Job Acts e Legge Fornero in primis).


Sinora, ci sono stati pochi momenti di opposizione da sinistra al governo attuale, tra i quali un certo rilievo ha avuto lo sciopero generale organizzato da alcuni sindacati di base il 25 ottobre...

Purtroppo il secondo governo Conte si regge non solo sul sostegno di tutta la residua sinistra parlamentare (Liberi e Uguali e Sinistra italiana), ma anche sull'appoggio della burocrazia sindacale, a partire dalla burocrazia CGIL. Possiamo anzi dire che paradossalmente la sua politica padronale si regga oggi più sulla burocrazia sindacale che su Confindustria. Le associazioni confindustriali del Nord, inizialmente fiduciose, sono rimaste deluse per gli insufficienti investimenti infrastrutturali, e sono oggi critiche verso la Legge di stabilità in cantiere, nonostante le sue nuove regalie ai profitti. La segreteria CGIL è invece appagata dalla ritrovata concertazione col governo, e lo circonda di una cintura protettiva su ogni versante, a partire dalle vertenze aziendali (Ilva, Whirlpool), nonostante il fatto che l’esecutivo non dia nulla ai lavoratori salariati, meno ancora delle elemosine concesse dal corso populista precedente ("quota 100"). Il risultato è che con questa politica le direzioni sindacali concorrono a preservare il blocco sociale reazionario: un disastro non solo sindacale ma politico. La ripresa della Lega e l'ascesa di Fratelli d'Italia sono emblematici. L'azione di sciopero del 25 ottobre è stata positiva, ma ha avuto un carattere di stretta avanguardia, per quanto importante. Tra avanguardia di classe e il grosso del proletariato esiste oggi purtroppo una divaricazione ampia. Tanto più in questo quadro, la frammentazione delle iniziative, in seno all'avanguardia, risulta negativa e penalizzante, a vantaggio del padronato e delle burocrazie.


Cosa puoi dire a chi teme che, inasprendo la polemica contro l’odierno esecutivo, si favoriscano le destre reazionarie?

Che lo sviluppo di un'opposizione sociale di classe e di massa al padronato e al governo è una necessità ineludibile e urgente. È l'unica via per ribaltare i rapporti di forza tra le classi nei luoghi di lavoro e nella società. È l'unica via attraverso cui la classe operaia può scrollarsi di dosso i pregiudizi reazionari (per esempio verso i migranti), ricomporre la propria unità, diventare riferimento degli altri movimenti sociali e politici progressivi (antirazzisti, ambientalisti, femministi), favorire lo sviluppo della loro coscienza. L'arretratezza profonda dell’attuale movimento delle “sardine” è anche un portato del riflusso del movimento operaio. Solo una ripresa di massa della lotta operaia può fare egemonia sul senso comune di quella giovanissima generazione che (positivamente) si sta affacciando nelle piazze, introducendo nel suo immaginario il riferimento di classe e costruendo un nuovo blocco egemone. Inoltre è questa l'unica via per disgregare il blocco sociale reazionario e la sua presa tra i lavoratori.


È una nostra impressione o alcuni settori dell’establishment cominciano ad aprire alla possibilità di un governo guidato dalla Lega?

È così. Il capitale non ha valori ma solo interessi. Una parte della grande borghesia del Nord, delusa dal governo Conte, apre un canale di credito alla Lega in vista di una sua possibile leadership in un futuro governo. Sono ambienti che frequentano i governatori leghisti, fanno affari con questi, incoraggiano la "secessione dei ricchi" in funzione di nuove privatizzazioni e saccheggi dei territori. Giorgetti è il loro uomo di riferimento nella Lega, non a caso è colui che più si preoccupa di predisporre un quadro di governabilità istituzionale per un futuro governo a direzione leghista. Le aperture di Salvini a Draghi, gli incontri con Ruini, sono un tentativo di moderare il profilo della Lega agli occhi dell'establishment. Ma la concorrenza di Meloni sulla destra complica l'operazione e costringe Salvini a indossare l'abito intransigente sul MES (Meccanismo europeo di stabilità), un fondo in realtà utile al capitale finanziario di ogni paese, incluse le banche italiane, e a carico di tutti i lavoratori europei. La campagna nazionalista contro il MES "tedesco" serve solo a nascondere dietro abiti patriottici questa sua valenza di classe contro i salariati, italiani e tedeschi. Ma di certo l'establishment non gradisce.


Cosa ti aspetti, in concreto, dall’Assemblea del 7 dicembre?

L'assemblea nazionale unitaria delle sinistre di opposizione del 7 dicembre è un fatto importante. Mira a unificare l'azione di tutte le sinistre che si collocano all'opposizione del governo del capitale, in controtendenza con le dinamiche di dispersione e frammentazione di questi anni. Non si muove in un'ottica elettorale o di nuovi soggetti politici costruiti in laboratorio. Si muove sul terreno dell'intervento di classe e di massa. Non mette in discussione l'autonomia politica dei diversi soggetti che vi concorrono, ma vuole valorizzare una battaglia comune al servizio del proprio campo sociale, in contrapposizione a ogni logica settaria, in funzione dell'unificazione delle lotte. Il numero crescente delle adesioni collettive raccolte, e la partecipazione che si annuncia, confermano la corrispondenza di questa proposta con un sentire diffuso dell'avanguardia. Dalla assemblea uscirà un passo avanti nel coordinamento dell'azione comune e nella definizione delle campagne unitarie dell'opposizione, dal versante dei lavoratori e delle lavoratrici.

Stefano Macera

sabato 30 novembre 2019

STRETTI COME SARDINE, MA NON CIECHI E TANTO MENO MUTI

CONTRO LA DESTRA REAZIONARIA, MA ANCHE CONTRO UN GOVERNO CHE CONSERVA LE MISURE PEGGIORI DELLA DESTRA



Condividiamo il sentimento di fondo che anima tante piazze di giovani. Partecipiamo a queste piazze. Sentiamo anche noi la stessa nausea profonda per le culture xenofobe, misogine, reazionarie dei Salvini e delle Meloni, la loro vocazione autoritaria, il loro uso cinico dei sentimenti religiosi con tanto di esibizione di croci e di madonne, il loro disprezzo per le donne e per i soggetti LGBTQIA+, il loro militarismo tricolore in abito di polizia. Dio, Patria, Famiglia sono ovunque bandiere di regime. Per Salvini forse una cinica recita elettorale. Per Meloni un’autentica tradizione fascista. In entrambi i casi una minaccia seria.

E tuttavia l'opposizione alla destra reazionaria nutre un sentimento, non indica una prospettiva. Né rimuove gli interrogativi. Perché questa cultura miserabile raccoglie attorno a sé tanto consenso? Perché lo raccoglie assai spesso nei luoghi di lavoro, nelle periferie metropolitane, in ampi settori di popolo? Lo raccoglie perché la classe lavoratrice è stata abbandonata a sé stessa proprio da coloro che avrebbero dovuto difenderla nella crisi più grande del dopoguerra. Non solo: i vertici della sinistra politica e sindacale o di quella che nella comunicazione pubblica è rappresentata (abusivamente) come “la sinistra” (il PD), hanno direttamente gestito o avallato l'attacco alla propria base sociale. Precarizzazione dilagante. Privatizzazione di aziende e servizi. Tagli alla spesa sociale.  Abolizione dell'articolo 18. Attacco alla istruzione pubblica. Legge Fornero sulle pensioni. Questa è stata la politica del PD o dei governi da questo sostenuti, con la copertura delle burocrazie sindacali e in più occasioni della stessa sinistra cosiddetta “radicale” (come Rifondazione Comunista nei governi Prodi). Se la sinistra non è più riconoscibile o è identificata con le élites non è forse in ragione di questo tradimento vero e proprio? La destra ha solo raccolto i frutti di questa semina. Il meno peggio ha spianato la strada al peggio. È la lezione degli ultimi 40 anni.

Del resto, basta guardare al presente. Il governo PD-M5S, nato formalmente in contrapposizione a Salvini, non sta forse conservando le peggiori misure di Salvini?
Lo vediamo coi decreti sicurezza rimasti intatti, e al più ritoccati nella forma, proprio per conservarne la sostanza. Lo vediamo con la difesa degli accordi infami con la guardia costiera libica, già di Minniti e poi di Salvini. Lo vediamo con la conferma di tutte le missioni militari in terre lontane e teatri di guerra, circondate più di ieri dall'impenetrabile segreto (come in Libia). Lo vediamo sul piano sociale con la salvaguardia della legge Fornero, del Jobs Act, di tutte le leggi di precarizzazione del lavoro che hanno massacrato negli ultimi vent'anni una intera generazione per ingrassare i profitti. Del resto, il Presidente del Consiglio non a caso è rimasto lo stesso, ha solo rimpiazzato la Lega col PD, col trasformismo più disinvolto.

Poi sì, è vero, i toni di Conte sono diversi da quelli di Salvini e Meloni, ci vuole poco. Ma i toni cerimoniosi e istituzionali servono solo a rifarsi il trucco e confezionare meglio la stessa merce. Col risultato oltretutto di regalare proprio a Salvini nuovo consenso e una possibile rivincita.

E allora certo, tutti insieme nelle piazze, stretti come sardine, contro Salvini e la destra! Ma proprio per questo rivendicando la cancellazione delle misure di Salvini e dunque l'opposizione al governo che le mantiene. Proprio per questo facendo la scelta di campo dalla parte del lavoro contro il capitale, quale che sia il suo governo. Perché questa è la frontiera vera dello scontro.

•         VIA I DECRETI SICUREZZA!
•         VIA LE MISSIONI DI GUERRA!
•         VIA LA LEGGE FORNERO, VIA IL JOBS ACT, VIA LA PRECARIETÀ DEL LAVORO!
•         COMANDINO I LAVORATORI, NON I GRANDI AZIONISTI, LE BANCHE, I CAPITALISTI!
•         SI RIORGANIZZI LA SOCIETÀ SU BASI NUOVE E DA CIMA A FONDO, ROMPENDO UNA VOLTA PER TUTTE COL CAPITALISMO CHE SFRUTTA ED INQUINA! PERCHÉ NÉ L'UOMO NÉ LA NATURA SIANO RIDOTTI A MERCE!

Partito Comunista dei Lavoratori

mercoledì 27 novembre 2019

ROMPERE L’ISOLAMENTO E LA SEPARAZIONE ED INIZIARE UN PROFICUO CONFRONTO





L'abisso tra la borghesia e chi possiede la propria forza-lavoro diventa sempre più profondo, con l'aumento della disoccupazione, della precarietà, della povertà, delle disuguaglianze, delle ingiustizie.


I periodi di crisi e stagnazione si allungano, le condizioni di vita e di lavoro degli operai si aggravano. Il malcontento e la collera aumentano fra gli operai e gli altri strati popolari, sebbene essi siano attualmente irretiti dalla demagogia sociale delle forze populiste e reazionarie da un lato, paralizzati e divisi dal riformismo e dall’opportunismo dall'altro; e i lavoratori sono immobilizzati dalle conseguenze della repressione scatenata dal padronato, dal terrore diffuso delle azioni punitive, dei provvedimenti disciplinari fino al licenziamento.
Lo sviluppo del capitalismo e della sua base materiale non minaccia l’esistenza del proletariato come classe, non mina le sue posizioni nella società, come avviene per le classi intermedie. Al contrario, fa aumentare il numero degli operai salariati su scala mondiale, oggi più di un miliardo, con buona pace di chi straparla della «scomparsa della classe operaia». Negli ultimi decenni uno dei punti centrali dell'attacco ideologico della borghesia è stato, infatti, la presunta fine della classe operaia. Si tratta di un'enorme mistificazione.
Nel nostro paese, nonostante massicci processi di ristrutturazione e di delocalizzazione il numero complessivo degli operai è di 8,1 milioni . Secondo i dati dell’Osservatorio Inps del 2017, sui lavoratori del settore privato, la componente operaia rappresenta il 55,6% del totale. La crescita del terziario non ha determinato, numericamente, il «sorpasso» degli impiegati sugli operai. La crescita costante della percentuale dei lavoratori salariati sul totale degli occupati è un fenomeno internazionale: oggi il 52% degli occupati sono lavoratori salariati.
Lo stesso sviluppo del capitalismo, delle forze produttive, rende sempre più importante e incisiva la funzione oggettiva della classe operaia nella vita economico-sociale, che è la principale produttrice della ricchezza materiale della società.
Sappiamo, nelle linee fondamentali, quale deve essere il nostro ruolo in questo contesto: sostenere la lotta di classe degli operai unendosi a loro per alimentarne la coscienza; unificare, organizzare e mobilitare la classe a partire dalle rivendicazioni legate ad obiettivi avanzati; influenzare, orientare sino a dirigere, nella lotta, la classe sfruttata per strappare il potere politico alla borghesia, rappresentando e difendendo sempre gli interessi generali del proletariato e il suo futuro, che si potrà conquistare con l’abolizione della proprietà borghese e la costruzione della nuova società.


giovedì 21 novembre 2019

SOSTEGNO PUBBLICO A UN'AZIENDA CRIMINALE?

Una vera nazionalizzazione è l'unica via





Un clamoroso paradosso sta emergendo su ArcelorMittal. Diverse procure aprono indagini sulle condotte del gruppo. Roba pesante: aggiotaggio, false comunicazioni, appropriazione indebita. I nuovi acquirenti di ex Ilva compravano materie prime a prezzi gonfiati da altre imprese del gruppo, e vendevano a prezzi stracciati a proprie consociate che hanno sede in Olanda e Lussemburgo (dove pagano tasse irrisorie); i parchi minerari sono stati progressivamente svuotati in sei mesi nella prospettiva di una chiusura già programmata; le manutenzioni ordinarie sono state da tempo dismesse, aggravando l'insicurezza del lavoro in fabbrica. In poche parole, gli azionisti di ArcelorMittal hanno volutamente depauperato l'azienda per poi imporne la chiusura. Si sono appropriate dell'Ilva non per continuare a produrre acciaio italiano da vendere all'estero, ma per vendere anche in Italia acciaio prodotto all'estero dopo aver chiuso Taranto.
Una condotta truffaldina e criminale.

Eppure nelle stesse ore in cui tutto questo emerge, il governo Conte moltiplica le offerte sottobanco all'azienda per convincerla a restare. L'offerta del menù è varia: o l'ingresso nel capitale della Cassa Depositi e Prestiti, o la partecipazione diretta del Tesoro, o uno spezzatino aziendale con lo Stato che si fa carico degli esuberi (bad company), o una combinazione di tutte queste misure. Il loro significato è semplice: lo Stato soccorre con risorse pubbliche il profitto privato degli azionisti. Non solo. Se gli azionisti accettano, il governo offre loro il sospirato scudo penale, che l'azienda chiede non a caso sulla stessa sicurezza sul lavoro.

In conclusione: il governo Conte offre ad un'azienda criminale non solo risorse pubbliche, ma l'impunità. Non sappiamo se ArcelorMittal accetterà, sappiamo che è un mercimonio immondo. Le burocrazie sindacali, Maurizio Landini in testa, non hanno nulla da dire su questo? Sembra di no. Anzi, sembrano essere il principale supporto del governo Conte e della sua linea, sull'Ilva come sulla finanziaria.

La nazionalizzazione dell'ex Ilva, senza indennizzo, e sotto il controllo dei lavoratori, si conferma una volta di più non solo come l'unica premessa di una necessaria riconversione a tutela del lavoro e della salute, ma anche come l'unica soluzione morale, per gli operai e per la popolazione tarantina.

Partito Comunista dei Lavoratori

mercoledì 13 novembre 2019

BOLIVIA: AHORA SÍ, GUERRA CIVIL

NON PER MORALES, MA PER IL POTERE OPERAIO E CONTADINO

12 Novembre


La Bolivia precipita in queste ore nel caos. Dimessosi nella giornata di ieri, sotto pressione delle forze armate e della polizia nazionale, Evo Morales annuncia il suo rifugio in Messico, che gli concede asilo politico.
Dopo giorni di tensioni, dovute al non riconoscimento del risultato delle elezioni presidenziali da parte dell’opposizione, la Bolivia è a un passo dalla guerra civile. Da una parte l’esercito, la polizia e la destra golpista. Dall’altra la base sociale del MAS (Movimiento Al Socialismo) al grido di “Aahora sí, guerra civil!”
In queste ore drammatiche il posto dei marxisti rivoluzionari è al fianco dei giovani, dei lavoratori e delle masse popolari che si oppongono al colpo di Stato. Ma questo posizionamento di campo, contro i settori della destra razzista, filoimperialista e reazionaria, non deve significare in nessun momento un appoggio politico a Evo Morales.
Come marxisti rivoluzionari siamo sempre stati all’opposizione del governo di Evo Morales, un governo di collaborazione di classe che ha spianato la strada, negli anni, alla ripresa dell’iniziativa dei settori più reazionari della borghesia boliviana. La Bolivia ci insegna, ancora una volta, che non esistono rivoluzioni possibili entro un quadro elettorale e di collaborazione di classe. Solo la classe lavoratrice e le masse popolari, attraverso i loro strumenti di autorganizzazione e basandosi sulla loro forza, possono aprire la strada per una riorganizzazione socialista della società. Solo una rivoluzione socialista, in Bolivia, in Cile e in tutta l’America Latina, può stroncare per sempre la destra e l’imperialismo. La costruzione di un partito rivoluzionario in Bolivia e a livello internazionale è condizione essenziale per guidare questo processo alla vittoria.
Da questa angolazione, e con queste parole d'ordine, parteciperemo a tutte le iniziative di solidarietà contro il golpe in atto in queste ore, al fianco della resistenza del popolo boliviano.  

No al golpe in Bolivia! Nessun appoggio politico al governo! Costruiamo la solidarietà internazionalista!
Per un’iniziativa indipendente del movimento operaio e contadino contro i tentativi golpisti!
Per l’armamento delle masse popolari e la loro autorganizzazione in milizie e consigli!
Dal Cile alla Bolivia, una sola classe, una sola via!

Partito Comunista dei Lavoratori

sabato 9 novembre 2019

IL COMUNISMO, A 30 ANNI DALLA “CADUTA DEL MURO DI BERLINO”, RESTA LA PROSPETTIVA DI LIBERAZIONE DEI LAVORATORI E L'AVVENIRE DELL'UMANITÀ



30 anni fa la crisi del regime della Germania dell'Est e di quello della stessa Unione Sovietica faceva sì che le masse di Berlino Est abbattessero il muro che separava le due parti della capitale tedesca, visto come simbolo di oppressione politica e nazionale. Di lì a due anni l’Unione Sovietica sarebbe a sua volta crollata.
In realtà quello che crollava 30 anni fa non era un vero e compiuto comunismo o socialismo. Era il prodotto di una degenerazione del tentativo di costruire una nuova società liberata da sfruttamento e oppressione, una degenerazione che ha il nome di stalinismo. Per cui nei paesi dell'Est esistevano dei regimi che combinavano importanti e reali conquiste sociali, grazie all'abolizione della proprietà privata del sistema produttivo e finanziario, con un oppressione politica e sociale funzionale al dominio di una casta burocratica. La stessa che è poi stata, nella maggioranza di questi paesi, lo strumento della restaurazione del capitalismo e la componente principale della nuova borghesia sfruttatrice.
Questo sviluppo non è giunto inaspettato per i veri comunisti: già nel lontano 1938, Leone Trotsky, il principale dirigente, insieme a Lenin, della rivoluzione russa del 1917 e il più grande avversario dello stalinismo scriveva “ Il pronostico politico[ per l’URSS] ha un carattere alternativo: o la burocrazia, diventando sempre di più l’organo della borghesia mondiale nello Stato Operaio, distrugge le nuove forme di proprietà e respinge il paese nel capitalismo, oppure la classe operaia schiaccia la burocrazia e si apre la via verso il socialismo.”
E' il corno negativo di questa previsione che si è realizzato.
I cantori del capitalismo proclamarono allora “la fine della storia”, cioè la fine di ogni grande conflitto politico e sociale, la nascita di un “nuovo ordine mondiale” di progresso nel quadro dell'economia di mercato sempre più globalizzata. Abbiamo visto: guerre e crisi sono state la realtà di un nuovo “disordine globale”.
Mentre il cosiddetto fallimento del comunismo veniva utilizzato per colpire in tutti i paesi, in nome del “libero mercato” le conquiste decennali del movimento dei lavoratori, su terreni quali il salario, la flessibilità contrattuale, le pensioni, lo “stato sociale”.
Ed oggi noi stiamo vivendo la più grande crisi capitalistica dal 1929-32. E sono ancora una volta i lavoratori a pagarne il prezzo.
E' inoltre evidente che le conseguenze negative si riproporranno sempre più pesanti.
Quello che in realtà sta dimostrando il suo fallimento è il sistema capitalistico; l'insensatezza di una società basata non sulla soddisfazione dei bisogni umani ma sulla ricerca e difesa del massimo profitto per una piccola minoranza di capitalisti, banchieri e loro rappresentanti politici che condanna la grande maggioranza dell'umanità allo sfruttamento e alla povertà, quando non, nei paesi più arretrati, alla morte per fame o malattie curabili.
Non c’è “riforma” possibile per il capitalismo. Bisogna abbatterlo per costruire un mondo nuovo e possibile: quello del socialismo (proprietà sociale delle industrie, servizi e trasporti) che porti gradualmente al comunismo ( cioè una società in cui viga il principio “da ciascuno secondo le sue capacità a ciascuno secondo i suoi bisogni”).
Questa battaglia storica ha fondamentale importanza per le nostre condizioni di vita e di lavoro. Le conquiste che, anche con l’aiuto della demagogia, sposata da destre e centrosinistra, sul “fallimento del comunismo”, sono state colpite in questi decenni, non erano solo il prodotto di una mobilitazione sul terreno sindacale ed economico, ma anche il sottoprodotto della lotta di classe politica rivoluzionaria su scala mondiale, della paura dei padroni di una rivoluzione operaia che mettesse in causa il loro dominio.
Per vincere anche sul terreno dei nostri interessi immediati e per non restare sempre più vittime della crisi del sistema capitalistico è necessario che i lavoratori riprendere coscienza della necessità della battaglia per una società socialista.
E’ a questo e solo a questo che si dedica, insieme ai suoi partiti fratelli in tutto il mondo, il Partito Comunista dei Lavoratori. 

venerdì 8 novembre 2019

ABOLIRE I DECRETI SICUREZZA!

Il PCL aderisce alla manifestazione del 9 novembre a Roma



Il Partito Comunista dei Lavoratori aderisce alla manifestazione nazionale del 9 novembre a Roma per l'abolizione dei decreti sicurezza.

Come era prevedibile il cosiddetto governo di svolta, guidato dallo stesso Presidente del Consiglio, con la sostituzione della Lega col PD, continua le politiche di Salvini su immigrazione e ordine pubblico. I decreti sicurezza restano intatti nella loro sostanza: intatto il primo decreto sicurezza che cancella la protezione umanitaria e allarga il bacino della cosiddetta clandestinità; intatto il secondo decreto sicurezza che ostacola lo stesso soccorso in mare e costringe i barconi a lunghi soggiorni fuori dai porti. A questo si aggiunge la conferma del famigerato Memorandum coi tagliagole libici varato da Minniti e ben custodito da Salvini, che finanzia la guardia costiera del governo al-Sarraj e i suoi affari con i trafficanti di esseri umani e i loro lager.

Persino gli argomenti a supporto sono gli stessi di prima. “Bloccare le partenze” resta l'imperativo categorico per Di Maio, che ha solo cambiato abito ministeriale alla propria politica reazionaria. Quanto al PD, si copre dietro il ruolo di architrave di sistema, aggiungendo di tanto in tanto qualche ipocrita preoccupazione “umanitaria”. 

La risultante è la continuità col passato, che oltretutto concima giorno dopo giorno il terreno della rivincita di Salvini e Meloni, gli arnesi peggiori della xenofobia tricolore.
La costruzione del fronte unico contro il nuovo governo passa per la rivendicazione dell'abolizione dei decreti di Salvini e di tutte le misure di discriminazione, segregazione, oppressione a danno dei migranti; dentro la prospettiva di un'alternativa sociale che chiami in causa l'ordine capitalista e le sue misure di sfruttamento, di oppressione, di guerra, che sono alla base delle migrazioni. Quelle che le stesse “democrazie” imperialiste vorrebbero respingere e recintare.

Partito Comunista dei Lavoratori

giovedì 7 novembre 2019

L'OTTOBRE E L'INTERNAZIONALE COMUNISTA



Ricordiamo la rivoluzione russa con uno dei principali risultati dell'Ottobre: la nascita della Terza Internazionale, l'Internazionale comunista di Lenin e Trotsky. Lo facciamo attraverso l'appello che nel congresso di fondazione (marzo 1919) ne sancì l'atto di nascita, cioè il Manifesto al proletariato di tutto il mondo, scritto da Trotsky, che costituì una delle risoluzioni finali del congresso. L'esperienza russa, riferimento esplicito nel Manifesto, è inserita magistralmente all'interno di una sintetica ma profonda analisi del quadro mondiale, che da esso traeva forza e che a esso rimandava nelle sue prospettive strategiche saldamente internazionaliste e rivoluzionarie.



Sono passati settantadue anni dacché il partito comunista annunciò al mondo il proprio programma sotto forma di un Manifesto scritto dai massimi maestri della rivoluzione proletaria, Karl Marx e Friedrich Engels. Anche a quel tempo il comunismo, che era appena entrato nell'arena della lotta, fu aggredito con irrisione, menzogne, odio, e persecuzione dalle classi possidenti, che giustamente sentivano in esso il proprio nemico mortale. Nel corso di quei settant'anni il comunismo si sviluppò per vie intricate, periodi di precipitose avanzate alternatisi con periodi di declino; ha conosciuto dei successi, ma anche delle dure sconfitte. Tuttavia il movimento procedette essenzialmente sulla via indicata in anticipo dal Manifesto del partito comunista. L'epoca della lotta finale, decisiva, giunse più tardi di qual che gli apostoli della rivoluzione sociale avevano creduto e sperato. Ma ora è giunta. Noi comunisti, rappresentanti del proletariato rivoluzionario di vari paesi d'Europa, America, e Asia, che ci siamo riuniti nella Mosca sovietica, ci sentiamo e ci riteniamo gli eredi e gli esecutori della causa il cui programma fu annunciato 72 anni fa. È nostro compito generalizzare l'esperienza rivoluzionaria della classe operaia, ripulire il movimento dagli inquinamenti disgregatori dell'opportunismo e del socialpatriottismo, mobilitare le forze di tutti i partiti autenticamente rivoluzionari del proletariato mondiale e così facendo facilitare e accelerare la vittoria della rivoluzione comunista in tutto il mondo.

Oggi, mentre l'Europa è coperta di macerie e rovine fumanti, i più infami incendiari sono occupati a scovare i criminali responsabili della guerra. Dietro di loro stanno i loro cattedratici, membri del parlamento, giornalisti, socialpatrioti, e altri ruffiani politici della borghesia.

Per molti anni il socialismo predisse l'inevitabilità della guerra imperialista, vedendone le cause nella cupidigia insaziabile delle classi possidenti dei due maggiori schieramenti, e, in generale, di tutti i paesi capitalisti. Al congresso di Basilea, due anni prima dello scoppio della guerra, dirigenti socialisti responsabili di tutti i paesi bollarono l'imperialismo come autore dell'imminente conflitto, e minacciarono alla borghesia la rivoluzione socialista come vendetta proletaria per i crimini del militarismo. Oggi, dopo l'esperienza degli ultimi cinque anni, dopo che la storia ha messo a nudo le brame predatorie della Germania, e le azioni non meno criminali dell'Intesa, i socialisti di stato dei paesi dell'Intesa continuano insieme con i propri governi ad accusare il deposto Kaiser tedesco. Per giunta, i socialpatrioti tedeschi che nell'agosto 1914 proclamarono che il libro bianco diplomatico degli Hohenzollern era il più sacro vangelo delle genti, ora, come vili leccapiedi, seguono le orme dei socialisti dell'Intesa e denunciano la monarchia tedesca caduta, che un tempo hanno servito in modo abbietto, come il principale criminale. Sperano così di far dimenticare la loro propria colpa e al tempo stesso di meritare la benevolenza dei vincitori. Ma la luce gettata da avvenimenti rivelatori e da rivelazioni diplomatiche smaschera, fianco a fianco, le vacillanti dinastie Romanov, Hohenzollern e Asburgo, le cricche capitaliste dei loro paesi, le classi dominanti di Francia, Inghilterra e Stati Uniti in tutta la loro sconfinata infamia.

La diplomazia inglese non uscì allo scoperto fin proprio al momento in cui scoppiò la guerra. Il governo dei finanzieri ebbe cura di non rilasciare alcuna dichiarazione esplicita della propria intenzione di entrare in guerra al fianco dell'Intesa per non spaventare il governo di Berlino. A Londra volevano la guerra. Ecco perché si comportarono in modo che Berlino e Vienna contassero sulla neutralità dell'Inghilterra, mentre Parigi e Pietrogrado confidavano fermamente sull'intervento dell'Inghilterra.

Maturata per decenni da tutto il corso degli avvenimenti, la guerra fu scatenata grazie alla provocazione diretta e deliberata della Gran Bretagna. Il governo inglese calcolò di offrire alla Russia e alla Francia quel tanto di appoggio da farle procedere finché, trovandosi queste ai limiti della resistenza, anche il nemico mortale dell'Inghilterra, la Germania, fosse paralizzato. Ma la potenza della macchina militare tedesca si rivelò troppo formidabile e non lasciò all'Inghilterra altra scelta che l'immediato intervento in guerra. Il ruolo di tertius gaudens cui la Gran Bretagna, seguendo un'antica tradizione, aspirava, toccò agli Stati Uniti. Il governo di Washington si rassegnò con la massima facilità al blocco inglese, che limitava unilateralmente la speculazione della Borsa valori americana sul sangue europeo, dato che i paesi dell'intesa compensarono la borghesia americana con pingui profitti per le violazioni della "legge internazionale". Ma la schiacciante superiorità militare della Germania costrinse il governo di Washington ad abbandonare la propria fittizia neutralità. Rispetto all'insieme dell'Europa, gli Stati Uniti assunsero il ruolo che aveva assunto l'Inghilterra rispetto al continente in guerre precedenti e che cercò di assumere nell'ultima guerra, vale, a dire: indebolire un campo aiutando l'altro, intervenire nelle operazioni militari solo quel tanto che basti ad assicurarsi tutti i vantaggi della situazione. Rispetto al livello delle speculazioni americane, la puntata di Wilson non era molto alta, ma fu la puntata definitiva, e gli assicurò il premio.

La guerra ha reso consapevole l'umanità delle contraddizioni del sistema capitalistico che si configurano in sofferenze primordiali, fame e freddo, epidemie, crudeltà morali. Questo ha risolto una volta per tutte la controversia accademica all'interno del movimento socialista a proposito della teoria dell'impoverimento e dell'indebolimento progressivo del capitalismo da parte del socialismo. Per decenni studiosi di statistica e pedanti fautori del superamento delle contraddizioni hanno cercato di scovare in ogni angolo del globo fatti veri o presunti che attestino il maggior benessere di vari grippi e categorie della classe operaia. Si suppose che la teoria dell'impoverimento fosse stata sepolta sotto alle irrisioni sprezzanti con cui la bersagliavano gli eunuchi della professoralità borghese e i mandarini dell'opportunismo socialista. Oggigiorno quest'impoverimento, non più solamente di genere sociale, ma anche fisiologico e biologico, ci si pone di fronte in tutta la sua spaventosa realtà.

La catastrofe della guerra imperialista ha spazzato via ogni conquista delle lotte sindacali e parlamentari. Perché questa guerra fu un prodotto delle tendenze insite nel capitalismo tanto quanto lo furono quegli accordi economici e quei compromessi parlamentari che la guerra seppellì nel sangue e nel fango.

Lo stesso capitale finanziario, che fece precipitare l'umanità nell'abisso della guerra, nel corso della guerra subì mutamenti catastrofici. Il rapporto tra carta moneta e base materiale della produzione è completamente spezzato. Perdendo costantemente importanza come tramite e regolatore della circolazione capitalistica dei beni, la carta moneta è divenuta strumento di requisizione, di ladrocinio, di violenza militare-economica in generale. L'assoluto svilimento della carta moneta rispecchia la mortale crisi generale dello scambio capitalistico dei beni. Nei decenni precedenti la guerra, la libera concorrenza, in quanto regolatrice della produzione e della distribuzione, era già stata sostituita nei campi più importanti della vita economica dal sistema dei trust e dei monopoli; ma durante la guerra il corso degli eventi strappò questo ruolo dalle mani di tali associazioni economiche e lo trasferì direttamente al potere statale militare. La distribuzione delle materie prime, l'utilizzazione del petrolio di Baku o romeno, del carbone del Donetz e del frumento ucraino, la sorte delle locomotive, dei vagoni e delle automobili tedesche, l'approvvigionamento di pane e cibo per l'Europa affamata – tutte queste questioni fondamentali della vita economica del mondo non vengono decise dalla libera concorrenza, né dalle associazioni di trust e consorzi nazionali e internazionali, ma dall'esercizio diretto del potere militare negli interessi della propria prolungala conservazione. Se la assoluta soggezione del potere statale al potere del capitale finanziario condusse l'umanità alla carneficina imperialista, in seguito attraverso questo macello di massa il capitale finanziario ha completamente militarizzato non soltanto lo stato ma anche se stesso, e non è più in grado di adempiere alle proprie funzioni economiche primarie altrimenti che per mezzo del sangue e del ferro.

Gli opportunisti, che prima della guerra fecero appello agli operai perché esercitassero la moderazione nell'interesse della transizione graduale al socialismo, e che durante la guerra richiesero la docilità di classe in nome della pace civile e della difesa nazionale, ora chiedono di nuovo l'abnegazione del proletariato per sormontare le terrificanti conseguenze della guerra. Se le masse operaie dovessero dar retta a questa paternale, lo sviluppo capitalista celebrerebbe la propria restaurazione in forme nuove, più intense e più mostruose, sopra le ossa di molte generazioni, con la prospettiva di una nuova e inevitabile guerra mondiale. Fortunatamente per l'umanità ciò non è più possibile.

Il controllo statale della vita economica, cui il liberalismo capitalista si opponeva tanto strenuamente, è diventato una realtà. Non c'è nessuna possibilità di un ritorno alla libera concorrenza, e neppure alla dominazione di trust, gruppi monopolistici, ed altri mostri economici. C'è soltanto un unico problema: d'ora innanzi chi si incaricherà della produzione nazionalizzata – lo stato imperialista o lo stato del proletariato vittorioso?

In altre parole: tutta l'umanità che lavora duramente diventerà schiava di una cricca mondiale vittoriosa che, sotto il nome di Società delle Nazioni e aiutata da un esercito "internazionale" e da una marina "internazionale", qui deprederà e reprimerà e lì getterà le briciole, ovunque incatenando il proletariato con il solo scopo di mantenere il proprio dominio; oppure la classe operaia d'Europa e dei paesi avanzati di altre parti del mondo prenderà in mano essa stessa l'economia disgregata e distrutta per assicurarne la ricostruzione su basi socialiste?

È possibile abbreviare l'attuale epoca di crisi soltanto per mezzo della dittatura del proletariato, che non guarda al passato, che non tiene in considerazione né privilegi ereditari né diritti di proprietà, ma che prende come punto di partenza la necessità di salvare le masse affamate e mobilita a tal fine tutte le forze e le risorse, introduce l'obbligo universale del lavoro, stabilisce il regime della disciplina operaia, non soltanto al fine di risanare nel corso di qualche anno le ferite aperte dalla guerra ma anche al fine di sollevare l'umanità ad altezze nuove e inimmaginate.

Lo stato nazionale, che impartì un possente impulso allo sviluppo capitalistico, é diventato troppo angusto per l'ulteriore sviluppo delle forze produttive. Questo rende ancor più insostenibile la posizione dei piccoli stati circondati dalle maggiori potenze d' Europa e d'altri continenti. Questi piccoli stati, che sorsero a seconda delle volte come frammenti ricavati da altri più grandi, come spiccioli in pagamento di svariati servizi resi o come cuscinetti strategici, hanno dinastie loro proprie, cricche dominanti proprie, pretese imperialistiche proprie, propri intrighi diplomatici. La loro illusoria indipendenza poggiava, prima della guerra, sulle stesse basi su cui poggiava l'equilibrio di potere europeo - l'antagonismo ininterrotto tra i due campi imperialisti. La guerra ha disgregato quest'equilibrio. Dando un'enorme preponderanza alla Germania nelle prime fasi, la guerra costrinse i piccoli stati a cercare salvezza nella magnanimità del militarismo tedesco. Quando la Germania fu sconfitta, la borghesia dei piccoli stati, insieme ai loro "socialisti" patriottici, si accostò agli imperialismi alleati vittoriosi e incominciò a cercare garanzie per il mantenimento della propria esistenza indipendente nelle clausole ipocrite del programma wilsoniano. Nello stesso tempo il numero dei piccoli stati aumentò; dalla monarchia austroungarica, da parti dell'antico impero zarista, sono state ricavate nuove entità statali, che non appena nate balzarono l'una alla gola dell'altra per la questione delle frontiere di stato. Intanto gli imperialisti alleati stanno componendo alleanze di piccole potenze, sia vecchie sia nuove, ad essi legate con la garanzia della loro mutua inimicizia e comune impotenza.

Mentre opprimono e coartano i popoli piccoli e deboli, con ampi ceti intermedi tanto nelle campagne quanto nelle città sono ostacolati dal capitalismo, e sono in ritardo nel proprio sviluppo storico. Al contadino del Baden e della Baviera che non è ancora capace di vedere al di là del campanile della chiesa dei paese, al piccolo produttore di vino francese che viene rovinato dai capitalisti che operano su vasta scala e che adulterano il vino, e al piccolo coltivatore americano derubato e truffato dai banchieri e dai membri del Congresso - a tutti questi ceti sociali, spinti dal capitalismo fuori della corrente principale dello sviluppo, apparentemente si fa appello, in regime di democrazia politica, per dirigere lo stato. Ma in realtà, in tutte le questioni importanti che determinano i destini dei popoli, l'oligarchia finanziaria decide alle spalle della democrazia parlamentare. Ciò fu soprattutto vero per quel che riguardava la guerra; è vero ora per quel che riguarda la pace.

Quando l'oligarchia finanziaria ritiene opportuno avere una copertura parlamentare per i propri atti di violenza, lo stato borghese ha a propria disposizione a questo scopo molteplici strumenti ereditati da secoli di dominio di classe e moltiplicati da tutti i miracoli della tecnologia capitalista - menzogne, demagogia, irrisione, calunnia, corruzione, e terrore.

Esigere dal proletariato che, come un mite agnello, ottemperi alle prescrizioni della democrazia borghese nella lotta finale, per la vita o per la morte, con il capitalismo, è come chiedere ad un uomo che lotta per la propria vita contro dei tagliagole di osservare le regole artefatte e restrittive della lotta francese, redatte ma non osservate dai suoi avversari.

In questo regno della distruzione, dove non soltanto i mezzi di produzione e di scambio ma anche le istituzioni della democrazia politica giacciono sotto rovine insanguinate, il proletariato deve creare il suo proprio apparato, destinato in primo luogo a collegare la classe operaia e ad assicurare la possibilità di un intervento rivoluzionario nello sviluppo futuro dell'umanità. Questo apparato è il soviet degli operai. I vecchi partiti, i vecchi sindacati, hanno dimostrato nelle persone dei propri dirigenti di essere incapaci di condurre a buon fine, persino di comprendere, i compiti indicati dalla nuova epoca. Il proletariato ha creato un nuovo tipo di apparato, che abbraccia l'intera classe operaia indipendentemente dall'occupazione specifica e dalla maturità politica, un apparato flessibile capace di rinnovamento e di estensione continui, capace di attirare nella propria orbita ceti sempre più vasti, aprendo le porte ai lavoratori della città e della campagna che siano vicini al proletariato. Questa organizzazione insostituibile dell'autogoverno della classe operaia, della sua lotta, e poi della sua conquista del potere statale, è stata collaudata nell'esperienza di vari paesi e rappresenta la conquista maggiore e l'arma più potente del proletariato del nostro tempo.

In tutti i paesi in cui le masse si sono risvegliate alla coscienza, continueranno a costituirsi i soviet dei delegati degli operai, soldati, e contadini. Rafforzare i soviet, accrescerne l'autorità, erigerli in contrapposizione all'apparato statale della borghesia - questo è oggi il compito più importante dei lavoratori leali e dotati di coscienza di classe di tutti i paesi. Per mezzo dei soviet la classe operaia può salvarsi dalla disgregazione introdotta nel suo seno dalle orribili sofferenze della guerra e della fame, dalla violenza delle classi possidenti e dal tradimento dei suoi vecchi dirigenti. Per mezzo dei soviet la classe operaia sarà in grado di arrivare con maggiore sicurezza e facilità al potere in tutti quei paesi in cui i soviet sono in grado di raccogliere la maggioranza dei lavoratori. Per mezzo dei soviet la classe operaia, una volta conquistato il potere, dirigerà tutte le sfere della vita economica e culturale, com'è attualmente il caso della Russia.

Il crollo dello stato imperialista, da quello zarista a quello più democratico, va di pari passo col crollo del sistema militare imperialista. Gli eserciti innumerevoli mobilitati dall'imperialismo potevano reggersi soltanto finché il proletariato fosse rimasto obbedientemente sotto il giogo della borghesia. Lo sfacelo dell'unità nazionale significa anche uno sfacelo inevitabile dell'esercito. Questo è quanto accadde prima in Russia, poi in Austria-Ungheria e in Gerso di tutti gli strumenti a propria disposizione per paralizzare l'energia del proletariato, prolungare la crisi, e rendere così anche maggiori le calamità dell'Europa. La lotta contro il centro socialista è la premessa indispensabile per la lotta vittoriosa contro l'imperialismo.

Nel respingere la pavidità, le menzogne e la corruzione degli antiquati partiti socialisti-ufficiali, noi comunisti, uniti nella terza Internazionale, riteniamo di continuare in successione diretta gli sforzi eroici e il martirio di una lunga serie di generazioni rivoluzionarie da Babeuf a Karl Liebknecht a Rosa Luxemburg.

Se la prima Internazionale previde il futuro corso degli eventi e indicò le vie che esso avrebbe seguito, se la seconda Internazionale raccolse e organizzò milioni di proletari, la terza Internazionale, dal canto suo, è l'Internazionale della aperta lotta di massa, l'Internazionale della realizzazione rivoluzionaria, l'Internazionale dell'azione.

L'ordine mondiale borghese è stato fustigato a sufficienza dalla critica socialista. Il compito del Partito comunista internazionale consiste nel rovesciare quell'ordine e nell'erigere al suo posto l'edificio dell'ordine socialista.

Noi facciamo appello ai lavoratori e alle lavoratrici di tutti i paesi perché si uniscano sotto la bandiera comunista sotto cui sono già state ottenute le prime grandi vittorie.

Proletari di tutti i paesi! Nella battaglia contro la ferocia imperialista, contro la monarchia, contro le classi privilegiate, contro lo stato borghese e la proprietà borghese, contro tutti i generi e le forme di oppressione sociale e nazionale: Unitevi!

Sotto la bandiera dei soviet degli operai, sotto la bandiera della lotta rivoluzionaria per il potere e la dittatura del proletariato, sotto la bandiera della terza Internazionale - proletari di tutti i pesi, unitevi!

6 marzo 1919