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sabato 30 dicembre 2017

DI MAIO, UNA POLTRONA PER TUTTI?



Luigi Di Maio, detto Gigi, si dà un gran da fare nelle vesti di futuro capo del governo. Prima ha cercato il riconoscimento di tutti i poteri forti esistenti al mondo, da Trump a Macron a Netanyahu, a sua volta benedicendoli tutti con commosse parole di elogio. Ora pensa a ingraziarsi i salotti buoni di casa nostra. Pressato dalle domande inquiete del grande capitale e della sua stampa su quali garanzie di governabilità è in grado di offrire il M5S, Gigi Di Maio ha rassicurazioni per ogni palato.

L'intervista rilasciata il 28 dicembre al Fatto Quotidiano è esemplare.

«Come farete a governare se non prenderete almeno il 40% dei voti?» Semplice, risponde Gigi: «La sera del voto lanceremo un appello a tutti i partiti, e proporremo un tavolo per un'intesa sui programmi, senza scambi di poltrone... Saranno trattative pubbliche, trasparenti.» Avete capito bene. Dopo aver denunciato per anni a parole tutti i partiti con l'indimenticabile Vaffa, Di Maio ci informa che proporrà “trattative” a... “tutti i partiti”. Tutti. L'intera casta politica borghese viene improvvisamente riabilitata purché voti Di Maio capo del governo. Fascisti, reazionari, liberalprogressisti, ogni maggioranza va bene allo scopo. Del resto, quando mai Gigi potrà accarezzare di nuovo la vetta di un simile traguardo? Ora o mai più, si deve essere detto. Di Battista salta il giro temendo il peggio per potersi riciclare con un secondo mandato, magari in elezioni anticipate. Ma Di Maio non può. Lui ha l'appuntamento con la storia, con un unico biglietto di sola andata. Per questo chiede oggi a tutti il lasciapassare.

«Per governare serve una squadra forte: lei come la comporrà?», chiede curioso il giornalista. La risposta di Di Maio è esemplare: «Io voglio dare stabilità al Paese. E per questo prima delle elezioni presenteremo una squadra di ministri di ampio respiro, aperta a tutte le sensibilità dei cittadini». Proprio così. Ora si capisce il “senza scambi di poltrone”. Significa che tutte le poltrone sono prenotate da Di Maio e da ministri targati (in un modo o nell'altro) 5 Stelle. Ma il cuore della risposta sta in quel “nell'ampio respiro” della composizione ministeriale. “Ministri aperti a tutte le sensibilità dei cittadini” significa non solo ministri buoni per tutti i gusti elettorali, ma perciò stesso ministri votabili da tutti i partiti parlamentari, perché in grado di piacere a “tutti i partiti”. Del resto se Di Maio vuol fare il capo del governo col voto di tutti i partiti, cos'altro può fare? Così il campione della propaganda anti-inciucio rivendica il massimo dell'inciucio: un governo di unità nazionale avvolto nel sipario del M5S. L'unità nazionale di governo raccolta in un solo partito. Purché il capo del partito (e del governo) sia Di Maio.

Ma «La base [del governo] però dovrebbe essere il programma», osserva il giornalista, «perché lei non parla mai dii lotta all'evasione fiscale? Per non turbare gli imprenditori?» La risposta di Gigi non lascia spazio al dubbio: «Bisogna smetterla con questi pregiudizi nei confronti delle imprese, in Italia c'è gente che paga il 70 per cento di tasse ed esporta merci ovunque». Chiaro. Ora si capisce il vero possibile cemento di un governo Di Maio di unità nazionale. L'unità nazionale sta nel sostegno lirico alle imprese eroiche “che esportano ovunque”, tartassate dal fisco (poveracce) e magari dalle pretese dei lavoratori. Dopo trent'anni di abbattimento delle tasse su dividendi e profitti, in un paese in cui salariati e pensionati pagano l'80 per cento delle tasse, Di Maio ha trovato la bandiera del proprio sospirato premierato: nuove regalie fiscali al padronato, a spese dei lavoratori. È il programma da sempre di tutti i borghesi. Perché mai tutti i loro partiti dovrebbero far mancare il voto in Parlamento al proprio stesso programma di governo?

Non sappiamo se le offerte di mercato di Di Maio convinceranno i capitalisti a sostenere il M5S. Sappiamo che è nel nome dei capitalisti che Di Maio ambisce a governare.
Eppure è lo stesso M5S che Liberi ed Eguali corteggia, e che Rifondazione Comunista non attacca (dopo averlo a lungo lusingato).
È una ragione in più per la sinistra rivoluzionaria. Quella che ha sempre chiamato le cose con il loro nome. Quella che dice sempre la verità ai lavoratori contro tutti i loro avversari.


Partito Comunista dei Lavoratori

mercoledì 27 dicembre 2017

IL LAVORO SPORCO DELL'ITALIA IN AFRICA

Le vere ragioni della spedizione in Niger


«Se l'Europa vuole che facciamo il lavoro sporco con i migranti, deve mettere mano al portafoglio. L'aiuto UE è più che benvenuto». Sono le parole testuali del Presidente del Niger Mahamadou Issoufou dello scorso marzo. Sono parole che spiegano la vera natura della politica europea sul fronte dell'immigrazione, in primo luogo di quella italiana. Non solo in Libia, ma nell'Africa profonda.

“Lavoro sporco con i migranti” non significa solamente accordo politico diretto con le milizie libiche e i governi rivali di al-Sarraj e Haftar per segregare uomini, donne, bambini in luoghi di tortura e stupri, dopo aver bloccato manu militari la loro fuga via mare; non significa solamente finanziare ed equipaggiare queste funzioni criminali di polizia, formalmente nel nome della lotta ai trafficanti di esseri umani, in realtà assicurando loro un nuovo lucroso mercato (dalla compravendita di schiavi al loro uso in veste di ostaggi per estorcere soldi alle loro famiglie). Lavoro sporco significa anche e sempre più bloccare i migranti alla partenza, negare loro alla radice il diritto di fuga dalla propria disperazione. Qui sta la nuova frontiera dell'Unione Europea in Niger e nei paesi del Sahel. Il governo del Niger incassa dalla Unione Europea i cosiddetti aiuti (naturalmente... “umanitari”), in cambio assicura alla UE il blocco dei migranti nel proprio territorio, attraverso un'ordinaria criminalizzazione dei migranti stessi. La proposta tedesca, francese, italiana di istituire campi di “accoglienza” in Niger vuol dare una parvenza legale a questa partita di scambio criminale. Il fatto che questa funzione di polizia sia finanziata dalle casse del Fondo Europeo di Sviluppo dà la misura dell'ipocrisia imperialista, oltre a spiegare la vera natura della UE.

Ma i governi imperialisti della UE non si limitano a foraggiare il lavoro sporco del governo nigerino. Inviano direttamente proprie spedizioni militari lungo le frontiere del Sahel. L'annunciato invio di un corpo militare di spedizione di 500 uomini in Niger da parte del governo Gentiloni è parte della politica africana della UE. La Francia presidia la propria area ex coloniale africana con oltre 4000 soldati e decine di basi (Mauritania, Ciad, Mali, Burkina Faso, Niger), mentre la Germania ha accresciuto sino a mille soldati la propria presenza nel Sahel, facendone il principale teatro di propria presenza estera del dopoguerra.


LA NUOVA CORSA ALL'AFRICA

La verità è che non siamo di fronte unicamente alla questione dei migranti. È in corso una vera e propria competizione mondiale tra potenze imperialiste vecchie e nuove per il controllo e la spartizione dell'Africa. Le truppe seguono la rotta degli affari. Attraverso la diretta presenza sul terreno servono a sostenere le ragioni negoziali dei propri imperialismi al tavolo della spartizione. Ai lavoratori europei si chiede di pagare di tasca propria i costi della gara tra i loro sfruttatori, sulla pelle dei popoli di un altro continente.

L'Africa è un continente ricchissimo di materie prime. Possiede terre libere coltivabili di oltre 200 milioni di ettari. Rappresenta un'immensa riserva disponibile di giovanissima manodopera. Non a caso la Cina ha fatto dell'Africa un proprio bacino di espansione, con tutto l'arsenale delle politiche imperialiste: acquisizione di terre e materie prime in cambio di indebitamento, esportazione di capitale finanziario, costruzione e controllo di infrastrutture strategiche in campo portuale e ferroviario: un enorme cantiere a cielo aperto sotto bandiera cinese.

Gli imperialismi europei e la loro “unione” cercano una risposta all'espansione africana della Cina, sia provando a integrarsi nella filiera di affari che la Cina ha attivato, sia puntando a un controbilanciamento in termini di salvaguardia di propri presidi e aree di influenza.
La Francia fa perno sulla Costa d'Avorio e sulla massa monetaria del franco CFA occidentale per irradiarsi in Nigeria e Ghana, oggi all'apice dello sviluppo africano, mentre tutela i propri interessi in Niger in fatto di petrolio, gas naturale, oro, diamanti, ma soprattutto uranio. Al tempo stesso Parigi ha difficoltà a preservare il vecchio monopolio sulla Francafrique, come dimostra la sua richiesta d'aiuto all'Unione Europea per una presenza militare in Mali. Lo sfondamento economico cinese in Niger (che è ormai ultraindebitato con la Cina) è un altro segno delle difficoltà francesi.


L'ITALIA CERCA IL PROPRIO POSTO AL SOLE

In questo contesto l'Italia cerca nuovamente il proprio posto al sole. Da un lato dando sponda, nel proprio interesse, alle esigenze della Francia; dall'altro contendendo proprio alla Francia spazi e mercati nel cuore dell'Africa. L'imperialismo italiano in Africa (e non solo) è tutt'altro che un imperialismo straccione. Nel 2016 l'Italia è divenuta terzo paese investitore al mondo nel continente africano. ENI è la principale azienda europea in Africa, con un ampio raggio di espansione dall'Egitto al Mozambico. ENEL ha conquistato il primato in fatto di energie rinnovabili. “L'Africa è la nostra profondità strategica”, dichiara alla rivista Limes il sottosegretario Giro, che non manca di vantare l'attuale ruolo italiano in Etiopia, Eritrea, Somalia, Libia: guarda caso i luoghi dei crimini coloniali dell'imperialismo tricolore, in epoca sia liberale che fascista. L'imperialismo torna sempre sui luoghi del delitto.

Qui il cerchio si chiude. La nuova corsa all'Africa delle potenze imperialiste vecchie e nuove è e sarà un nuovo fattore di saccheggio delle risorse e dei popoli del continente nero. Per questo le migrazioni bibliche continueranno, assieme alle barriere poliziesche che vorrebbero impedirle o bloccarle, col seguito annunciato di nuovi orrori e sofferenze. Il sostegno di Francia, Germania, Italia e Spagna alla nuova forza militare congiunta di Niger, Ciad, Mali, Mauritania, per “contrastare il flusso migratorio” è solo un nuovo paragrafo di questo lungo libro.

“Aiutiamoli a casa loro”, recita il mantra della propaganda dominante, sulle labbra di Renzi, Di Maio, Salvini. Ma il sottotesto vero è un altro: segreghiamoli in casa loro, con porte e finestre sbarrate da nostri gendarmi e da poliziotti locali, e contemporaneamente occupiamo noi quella casa, come già facemmo per secoli , spartendoci il bottino. Milioni di africani segregati nella propria terra lavoreranno al servizio dei nostri capitali in cambio di salari miserabili e con orari di lavoro massacranti. Come già avviene nelle miniere d'oro e di diamanti di Niger e Congo, nei campi sterminati del Kenya e dell'Angola, nelle fabbriche tessili di Etiopia ed Eritrea. Spesso con donne e bambini, privati del diritto alla vita e al futuro. Spesso sotto bandiera tricolore.

Altro che difesa della “sovranità nazionale dell'Italia” contro “il dominio tedesco”, come rivendicano i nazionalisti di tutte le risme, inclusi i nazionalisti “di sinistra” che giurano sulla Costituzione italiana.

Il lavoro sporco è la natura stessa dell'imperialismo, a partire dal nostro.
Solo una rivoluzione socialista potrà voltare pagina. In Italia, in Europa, in Africa, ovunque.

Partito Comunista dei Lavoratori

domenica 10 dicembre 2017

IL BOOMERANG IMPIETOSO DI MAURIZIO ACERBO COLPISCE JE SO' PAZZO

Tre buoni motivi per stare dalla parte di una sinistra rivoluzionaria




Su Il Manifesto di mercoledì 6 dicembre il segretario nazionale di Rifondazione Comunista Maurizio Acerbo ha spiegato le ragioni del coinvolgimento di Rifondazione nel percorso elettorale di Je so' pazzo (1). Purtroppo tutti gli argomenti avanzati rappresentano un boomerang crudele per chi l'ha avanzati, e un colpo alla credibilità dell'operazione.

LE “MILLE SCHIFEZZE”

Il primo argomento afferma: «D'Alema e Bersani rappresentano una minestra riscaldata, la riproposizione della vecchia classe dirigente che ha votato la legge Fornero e mille altre schifezze e ora pretende di rappresentare la sinistra». (Acerbo, Il Manifesto)

Bene. È un argomento inoppugnabile. Come può «rappresentare la sinistra» chi ha votato «mille schifezze» contro i lavoratori e gli sfruttati? Tuttavia Acerbo dimentica uno spiacevole dettaglio. Rifondazione Comunista ha governato per cinque anni complessivamente negli ultimi venti, tra il sostegno al primo governo Prodi (1996-'98) e la partecipazione organica al secondo (2006-2008). E per cinque anni ha votato «schifezze» non meno gravi, proprio a braccetto dei D'Alema e Bersani: l'introduzione del lavoro interinale (Pacchetto Treu), il record delle privatizzazioni in Europa, la riduzione delle aliquote fiscali a vantaggio dei ricchi, lo straordinario abbattimento della tassa sui profitti di imprese e banche (Ires dal 34% al 27,5%!), l'aumento delle spese militari e il finanziamento delle missioni, i campi di detenzione per i migranti (legge Turco-Napolitano). Tutte misure votate e difese da Maurizio Acerbo e Paolo Ferrero, da sempre ininterrottamente parte organica dei gruppi dirigenti e parlamentari di Rifondazione (il secondo addirittura ministro) contro le stesse opposizioni interne al partito. Su nessuna di quelle schifezze abbiamo mai letto peraltro concrete autocritiche. Possono «pretendere di rappresentare la sinistra» coloro che le hanno votate, oppure coloro che le contestarono sempre?

LA VOLPE E L'UVA

Il secondo argomento afferma: «Abbiamo lavorato nel percorso del Brancaccio per costruire un vasto schieramento[...]. Purtroppo MDP-SI-Possibile hanno preferito un accordo di vertice bloccando ogni ipotesi di costruzione democratica dal basso di una sinistra «nuova e radicale». Avremmo potuto contrattare qualche seggio ma mai come oggi in Italia c'è bisogno di un'alternativa credibile».

Anche in questo caso le cose non si mettono meglio per il nostro Acerbo.
Se Bersani e D'Alema erano una sinistra non credibile in quanto «vecchia classe dirigente che ha votato schifezze», perché allora partecipare al percorso del Brancaccio che nasceva proprio dall'idea di una lista unica a sinistra inclusiva di D'Alema e Bersani? Perché a giugno firmare assieme a D'Alema l'appello per la lista unica a sinistra, e a novembre siglare con D'Alema l'accordo elettorale in Sicilia?
La verità è che Rifondazione Comunista non pose mai una pregiudiziale verso MDP (suggerendo al più una non candidatura di D'Alema e Bersani, che è cosa molto diversa). La rottura si è prodotta di fronte a un accordo tra MDP, SI, Possibile sulla spartizione delle quote dei parlamentari eleggibili, che di fatto escludeva il PRC. Insomma: lo sdegno verso... «chi ha votato la legge Fornero e mille schifezze» nasce improvvisamente quando il partito di D'Alema e Bersani taglia fuori il PRC dall'accordo sui seggi. Presentare tutto ciò come rivendicazione di coerenza... nel nome del rifiuto della “contrattazione dei seggi”, ricorda troppo la fiaba della volpe e dell'uva. Sarebbe questa la sinistra credibile?

TSIPRAS COME ESEMPIO?

Il terzo argomento è il peggiore.
«In tutta Europa i nostri compagni- Unidos Podemos, Melenchon, Syriza e tanti altri - hanno dimostrato che nuove aggregazioni, che uniscono sinistra radicale e esperienze di movimento, possono dare voce a chi oggi non è rappresentato da forze che rendono i nostri paesi più ingiusti e poveri.»

Nessun argomento poteva essere più sfacciato. Il governo Syriza-Anel ha appena privatizzato l'acqua pubblica, dopo due anni di rigorosa applicazione di tutte le ricette della Troika (taglio di salari, pensioni, diritti, privatizzazione dei servizi pubblici, svendita ai creditori di porti, ferrovie, aeroporti...). Melenchon ha assunto la bandiera tricolore come proprio riferimento in aperta contrapposizione alla bandiera rossa perché per lui il confine non è più tra destra e sinistra, ma tra oligarchia e popolo. Podemos ha appena voltato le spalle ai diritti di autodeterminazione della Catalogna in funzione della prospettiva di un governo col PSOE. Tutte queste esperienze dimostrano allora l'esatto opposto di quanto Acerbo pretende. Dimostrano che quando “esperienze di movimento” si subordinano a sinistre riformiste, nel momento stesso della crisi storica del riformismo, finiscono per tradire le proprie ragioni e subordinarsi di fatto al capitale.

Maurizio Acerbo ha dunque fornito involontariamente a tanti compagni e compagne un'ottima occasione di riflessione. A noi ha fornito una ragione in più “per una sinistra rivoluzionaria”. 

Partito Comunista dei Lavoratori

sabato 9 dicembre 2017

CONTRO TRUMP, CONTRO IL SIONISMO, AL FIANCO DEI PALESTINESI



Col sostegno alla pretesa di fare di Gerusalemme la capitale ufficiale dello Stato sionista, l'amministrazione Trump ha levato ogni maschera formale all'imperialismo USA. Senza veli diplomartici ipocriti, la più grande potenza del mondo dichiara il proprio appoggio pubblico alla colonizzazione sionista della Palestina, sino alle pretese più estreme.

LA LOGICA DI DONALD TRUMP

C'è una logica. Di fronte alla crisi della tradizionale egemonia americana in Medio Oriente, al rafforzamento dell'asse sciita nella lunga guerra siriana, all'inserimento dell'imperialismo russo nella spartizione degli equilibri regionali, l'amministrazione di Donald Trump punta a rinsaldare attorno a sé le roccaforti storiche della presenza USA in terra araba: la monarchia assolutista dell'Arabia Saudita e lo Stato sionista di Israele. Come sui mari del Pacifico così in Medio Oriente, Trump dichiara al mondo che la ricreazione è finita, che la ritirata americana è terminata. Naturalmente non è semplice per Trump tradurre in pratica il nuovo corso nell'attuale quadro mondiale. Ma il segnale politico vuole essere inequivoco anche nei suoi aspetti simbolici ed evocativi. “Gerusalemme capitale d'Israele” risponde sicuramente allo scopo.

LA REALTÀ DELLO STATO SIONISTA

La mossa di Trump ha riportato una volta di più la questione palestinese alla propria realtà. La realtà dell'occupazione coloniale della Palestina da parte dello Stato sionista. Uno Stato nato dalla Nakba, dall'espulsione dei palestinesi dalla loro terra attraverso i metodi del terrore (e con l'appoggio di Stalin). Uno Stato fondato su basi confessionali, senza dettato costituzionale, senza confini definiti. Uno Stato basato sulla negazione del diritto al ritorno dei palestinesi nella propria terra e sulla continua espansione della colonizzazione della Palestina. Uno Stato che per sua natura può reggersi solo sull'esercizio dell'oppressione contro la popolazione araba, a partire dai territori occupati e negli stessi confini di Israele. Uno Stato che ha il bisogno vitale dell'appoggio politico e militare degli imperialismi (americano ed europei). Uno Stato permanentemente in guerra.
La pretesa arrogante dello Stato sionista e del sionismo in genere di presentarsi sotto le vesti della “nazione ebraica” è un insulto verso le tradizioni democratiche, socialiste, antisioniste, di tanta parte della storia e della cultura dell'ebraismo.

PER LA LIBERAZIONE DELLA PALESTINA

Di certo, l'idea stessa di una soluzione pacifica e concordata della questione palestinese (“due popoli, due Stati”) si rivela tanto più oggi una truffa. Una truffa alimentata dall'ipocrisia degli imperialismi europei, dai regimi arabi vecchi e nuovi (nessuno escluso, a partire dal regime egiziano e dalla monarchia giordana), dalla stessa cosiddetta Autorità Nazionale Palestinese, finanziata dallo Stato d'Israele come strumento di controllo sulle masse palestinesi. Purtroppo il fallimento annunciato di questa truffa è stato spesso capitalizzato da tendenze politiche reazionarie islamiche, sia da quelle affiliate alla Fratellanza Musulmana (Hamas), sia da quelle salafite e jihadiste, che mascherano con vessilli religiosi il proprio odio verso ogni libertà.

In contrasto con le sinistre politiche riformiste di ogni estrazione (socialdemocratica, stalinista, populista) che hanno sostenuto per decenni la truffa “due popoli, due Stati”, e tuttora “riconoscono” lo Stato d'Israele, ribadiamo l'attualità della posizione storica del marxismo rivoluzionario sulla questione palestinese.

I palestinesi hanno il pieno diritto alla propria autodeterminazione. Non può esservi autodeterminazione senza il diritto del ritorno nella propria terra. Non può esservi il diritto al ritorno dei palestinesi senza la dissoluzione delle basi giuridiche, confessionali, militari, dello Stato sionista d'Israele. Non può esservi questa dissoluzione se non per effetto del congiungersi della rivolta di massa palestinese, della sollevazione più generale della popolazione araba, della ribellione delle migliori forze antisioniste dei lavoratori israeliani. È la prospettiva di una Palestina libera, laica, socialista, rispettosa dei diritti nazionali della minoranza ebraica, dentro una federazione socialista araba e del Medio Oriente.
Solo una rivoluzione palestinese ed araba può liberare la via di questa prospettiva storica. A cento anni dalla dichiarazione di Balfour (1917) con cui l'imperialismo inglese apriva la via alla colonizzazione sionista della Palestina, in funzione della spartizione dell'impero ottomano, solo una prospettiva rivoluzionaria, antimperialista, socialista, potrà ridare la Palestina al suo popolo.

Certo è una prospettiva difficile e apparentemente lontana. Ma è l'unica vera soluzione della questione palestinese. L'alternativa, come i fatti dimostrano, è la continuità dell'oppressione e della sua barbarie.

A partire da questo programma generale, siamo oggi al fianco delle mobilitazioni di massa dei giovani palestinesi contro le truppe d'occupazione sioniste e contro l'arroganza dell'imperialismo. Per una nuova intifada, fino alla vittoria.

NO ALL'ARROGANZA DI TRUMP E DELL'IMPERIALISMO USA!

GERUSALEMME È CAPITALE DELLA PALESTINA, NON DI UNO STATO COLONIALE!

VIA LE TRUPPE D'OCCUPAZIONE SIONISTA DA TUTTA LA PALESTINA!

PER UNA PALESTINA LIBERA, LAICA, SOCIALISTA, IN UNA FEDERAZIONE SOCIALISTA ARABA E DEL MEDIO ORIENTE!

Partito Comunista dei Lavoratori

martedì 5 dicembre 2017

MARTEDÌ, 12 DICEMBRE 2017 ALLE ORE 18,00 - PIAZZA SANTO STEFANO MILANO

Manifestazione cittadina


Manifestazione cittadina martedì’ 12 dicembre ore 18,00 Piazza Santo Stefano con corteo che si concluderà in Piazza Fontana. Per non dimenticare la strage di Stato, per ricordare l’assassinio di Giuseppe Pinelli e il sacrificio di Saverio Saltarelli. Il Pcl invita iscritti e simpatizzanti a partecipare 
ORGANIZZA • Milano Antifascista, Antirazzista, Solidale e Meticcia. 
CONTATTI • pclmilano@gmail.com


 

giovedì 30 novembre 2017

PER UNA SINISTRA RIVOLUZIONARIA

Una lista anticapitalista, rivoluzionaria, comunista, classista, internazionalista





ll capitalismo internazionale ed europeo prosegue la propria offensiva contro le condizioni di vita e di lavoro della classe lavoratrice e della maggioranza della società. Un'offensiva che dura decenni, dentro la zona euro e fuori di essa. Un'offensiva condotta da tutti i governi e da tutti i partiti di governo, incluso quel governo Tsipras di Syriza-Anel che tutte le sinistre "riformiste" italiane ed europee continuano a sostenere acriticamente. È la riprova che il riformismo non è in grado di dare risposte alla crisi del capitalismo e quindi si subordina agli interessi delle classi dominanti e alla continuità dei sacrifici.

In Italia, come nel resto d’Europa, questa subordinazione al capitale delle sinistre riformiste, politiche e sindacali, ha prodotto negli anni e decenni lo smantellamento progressivo delle conquiste dei lavoratori.

La necessità dunque di un’altra sinistra, che si batta per la rottura con le compatibilità capitaliste in contrapposizione ad ogni illusione riformista, è riproposta tanto più oggi dall'intera situazione politica e sociale.
In questa prospettiva il Partito Comunista dei Lavoratori e Sinistra Classe Rivoluzione si propongono di dar vita, per le prossime elezioni politiche, ad una lista
anticapitalista, rivoluzionaria, comunista, classista e internazionalista.

Una lista che lotti contro l’austerità, contro l’Unione Europea capitalista e per un programma di trasformazione rivoluzionaria della società, l’unico che può indicare una via d’uscita alla grande maggioranza della popolazione attanagliata da dieci anni di crisi di questo sistema.

Una lista che ponga al centro la classe operaia come soggetto sfruttato e motore di un progetto di trasformazione; e attorno ad essa le necessità di lavoratori e lavoratrici, disoccupati, precari, immigrati, oppressi, donne, omosessuali e lesbiche, generi e minoranze discriminate contro gli interessi di capitalisti e banche, gerarchie ecclesiastiche, organizzazioni criminali, partiti padronali, governi e istituzioni dell'Europa borghese.

Una lista che riconduca quei bisogni ad un programma di rivendicazioni che ponga la prospettiva di un governo dei lavoratori e delle lavoratrici: attraverso l'opposizione alle privatizzazioni e per le nazionalizzazioni sotto controllo dei lavoratori; la cancellazione delle leggi sulla precarietà – dal pacchetto Treu al Jobs Act - e di smantellamento della previdenza sociale e pensionistica; la riduzione netta dell'orario di lavoro a parità di salario; un dignitoso salario ai disoccupati e a chi è in cerca di prima occupazione; un piano nazionale di lavoro per case popolari e rinnovamento edilizio, riqualificazione del territorio rinnovamento e potenziamento delle infrastrutture - in contrasto alle grandi opere speculative - e dei servizi pubblici universali e gratuiti - scuola, trasporto, sanità, servizi etc.; la nazionalizzazione delle banche e di tutti gli istituti di credito, l’annullamento del debito pubblico verso di esse e la rottura con i vincoli del Fiscal Compact; il pieno accesso al permesso di soggiorno per i migranti, la rottura del ricatto permesso lavoro per un sistema di accoglienza fondato sui pieni diritti sociali, economici e civili e l'apertura di canali umanitari; l'opposizione alle guerre imperialiste; l'esproprio senza indennizzo e sotto controllo dei lavoratori delle aziende controllate dai grandi capitali multinazionali e dalla borghesia nazionale.

Una lista internazionalista, che assuma l'interesse generale del movimento operaio internazionale, fuori e contro ogni forma di sovranismo; che si batta per i diritti di autodeterminazione di ogni nazionalità oppressa; che ponga la prospettiva dell'unificazione dell'Europa in una federazione di stati socialisti.
Attorno a questi assi generali - classisti, comunisti, internazionalisti - produrremo a breve un testo programmatico compiuto.

Quello che appare evidente di fronte allo scenario della divisione, manovre e confusione a sinistra è che la nostra si configurerà come l’unica lista basata su un reale programma anticapitalista e rivoluzionario, in contrapposizione a programmi riformisti di destra e di sinistra, al massimo antiliberisti, mai anticapitalisti, presentati per di più da quelle forze di sinistra che in passato hanno collaborato con i governi di centrosinistra.

Dall’inizio della crisi abbiamo visto una serie di governi (Berlusconi, Monti, Letta, Renzi, Gentiloni) responsabili delle peggiori politiche di massacro sociale di questi decenni, a cui hanno collaborato tanto la destra quanto il centrosinistra, comprese quelle forze che dopo aver rotto all’ultimo minuto vogliono presentarsi come la sinistra in questo paese. Il tutto con la colpevole complicità delle burocrazie sindacali.
È necessario affermare il punto di vista di classe anche contro la demagogia agitata dal Movimento 5 Stelle che oggi mostra sempre più chiaramente il suo volto liberista e anti-immigrati, strutturalmente ostile a riconoscere le istanze della classe lavoratrice e degli sfruttati in generale.

Anche per questo riteniamo assolutamente necessario che ci sia, anche sul terreno elettorale, la voce di quelle organizzazioni politiche che, uniche, non hanno mai tradito gli sfruttati e gli oppressi, i loro bisogni, le loro prospettive di reale liberazione.
Per questo noi invitiamo tutti i e le militanti e attivisti realmente di sinistra ad unirsi a noi in questa iniziativa.
Come invitiamo tutti e tutte gli e le sfruttati ed oppressi ad appoggiarci col loro voto così come nelle lotte.

Partito Comunista dei Lavoratori - Sinistra Classe Rivoluzione

mercoledì 29 novembre 2017

LETTERA APERTA ALLA LISTA POPOLARE (JE SO' PAZZO)

Per una sinistra rivoluzionaria



Care compagne e cari compagni,

non mettiamo certo in discussione la volontà di tanti di voi di lottare per un'alternativa di società. Una volontà che ci vede impegnati, non a caso, in molte lotte comuni.
Semplicemente, non crediamo che questa volontà possa trovare espressione nella “Lista Popolare” che è stata preannunciata, nelle basi politiche su cui viene fondata, nei partiti che ad essa partecipano.


RIFORMA SOCIALE O RIVOLUZIONE?

Il capitalismo è un sistema fallito. Non basta contrapporsi alle “politiche liberiste”, occorre battersi per il rovesciamento del capitalismo. Si dirà che non si può partire da un programma rivoluzionario ma da rivendicazioni concrete. Vero. Ma non esiste oggi una sola rivendicazione concreta che non confligga col capitale e non reclami il suo rovesciamento.
Non puoi batterti per la ripartizione del lavoro - con una riduzione generale dell'orario a parità di paga - senza mettere in discussione un sistema capitalista che ovunque aumenta orari e sfruttamento.
Non puoi difendere i posti di lavoro sotto attacco dei capitalisti senza rivendicare la nazionalizzazione delle aziende che licenziano.
Non puoi batterti per un sistema pensionistico a ripartizione, per la restituzione del maltolto in sanità e istruzione, per un salario dignitoso ai disoccupati, senza abolire il gigantesco debito pubblico verso le banche.
Non puoi realizzare una autentica patrimoniale sulle grandi ricchezze finanziarie e immobiliari senza nazionalizzare le banche, tempio della grande evasione di patrimoni e profitti...

Chi dice il contrario rinuncia alle rivendicazioni “concrete”, o a una lotta seria per realizzarle. Oppure si candida a realizzare un programma... esattamente opposto in cambio di poltrone. Cosa sta facendo da due anni il governo Tsipras, applaudito da tutte le sinistre riformiste di casa nostra e non solo? Anche Tsipras sventolava un programma di rivendicazioni “concrete” (il programma di Salonicco). Ma poi ha realizzato il programma della troika. In Italia Rifondazione Comunista ha presentato ad ogni elezione un programma di “rivendicazioni concrete” (i famosi programmi dei primi 100 giorni). Ma in due governi Prodi di centrosinistra, per la durata complessiva di cinque anni (1996-98 e 2006-2008) ha votato pacchetto Treu, privatizzazioni, tagli sociali, missioni di guerra, e per finire una enorme detassazione dei profitti di banche e imprese (Ires dal 34% al 27,5%). Paolo Ferrero era ministro, e Maurizio Acerbo un parlamentare che lo sosteneva.

Sono incidenti di percorso? No. Sono l'esito obbligato di una sinistra riformista che non ha altro orizzonte che il governo del capitalismo. Ogni volta, a parole, per riformarlo. Ogni volta inchinandosi alle sue controriforme. È accaduto a tutte le latitudini: col Partito Comunista Sudafricano, col Partito Comunista Cileno, col Partito Comunista Portoghese, tutti a suo tempo “oppositori”, tutti finiti nei governi del capitale o a loro sostegno.

È la riprova che solo la lotta per per un governo dei lavoratori e delle lavoratrici può dare prospettiva alle lotte degli sfruttati. Perché solo un governo che rompa col capitalismo può realizzare misure sociali di svolta. E oltretutto solo una lotta radicale, unitaria, di massa, può metter paura ai padroni e costringerli a fare concessioni. La lotta per la rivoluzione sociale è l'unica che può strappare riforme, tanto più in tempi di crisi. L'alternativa è la continuità della miseria, sotto l'ombra di belle frasi.


CLASSE OPERAIA O CIVISMO PROGRESSISTA?

La rivoluzione anticapitalista interessa tutte le domande di cambiamento (sociali, democratiche, ambientali, di genere...). Ma richiama la centralità della classe operaia, nel suo conflitto col capitale.

Questo riferimento è stato da tempo rimosso. Le stesse sinistre riformiste che hanno ciclicamente tradito i lavoratori, li hanno rimpiazzati coi “cittadini” progressisti. Le alleanze con Ingroia e Di Pietro, la subordinazione a Barbara Spinelli, la cultura civica del Brancaccio avevano e hanno questo retroterra, a esclusivo beneficio del populismo reazionario a 5 Stelle. Lo stesso appoggio a De Magistris che si atteggia a capo del popolo ma privatizza le municipalizzate, ne è il riflesso. Una lista che rivendica “il potere del popolo” non ripropone forse, in forme più radicali, il medesimo equivoco?

Anche la Costituzione del 1948 rivendica la «sovranità del popolo». Eppure qualunque sfruttato sperimenta ogni giorno che il vero sovrano è il capitale. “Noi però chiediamo che la Costituzione venga applicata!” si obietta. Bene. Ma come puoi applicare le solenni promesse sul “diritto al lavoro”, “alla salute”, “alla casa”, senza rompere con quel diritto di proprietà che la stessa Costituzione (borghese) tutela? O qualcuno pensa davvero che quei diritti di carta possano diventare reali senza espropriare i capitalisti e i banchieri?

Solo rovesciando la dittatura capitalista, solo realizzando il potere dei lavoratori, fondato su loro forme di autorganizzazione democratica e di massa, è possibile garantire i diritti reali alla maggioranza della società. Non c'è potere del popolo senza potere operaio. È la verità sancita un secolo fa dalla Rivoluzione d'ottobre.

Costruire in ogni lotta la coscienza di questa verità non dovrebbe essere il compito elementare di un'avanguardia?


INTERNAZIONALISMO O SOVRANISMO?

Una prospettiva di classe anticapitalista o è internazionalista o non è.

I proletari non hanno patria. Questa verità elementare è stata cancellata e capovolta da tutte le sinistre riformiste. O in nome delle illusioni sulla Unione Europea del capitale da “riformare”. O in nome della “sovranità nazionale”. Come quando un anno fa Eurostop e PCI - oggi compartecipi della Lista Popolare - andarono a protestare davanti all'Ambasciata tedesca rivendicando la sovranità dell'Italia (...imperialista). Nella lotta tra potenze grandi e piccole per la spartizione dei mercati, queste impostazioni subordinano i lavoratori alla “propria” borghesia contro i lavoratori di altri paesi, allargando la breccia dei populismi reazionari e xenofobi tra gli sfruttati.

È necessario fare l'opposto. Unire la classe che il capitale vuole dividere. Battersi per unificare l'Europa su basi socialiste. Difendere il diritto di autodeterminazione di ogni nazione oppressa (catalani, baschi, irlandesi...). Saldare in un unico fronte le lotte degli sfruttati di ogni paese, al di là di ogni frontiera nazionale.


PER UNA LISTA CLASSISTA, RIVOLUZIONARIA, INTERNAZIONALISTA

Vogliamo che questo programma e questa politica - classista, rivoluzionaria, internazionalista - sia presente, con la sua autonoma riconoscibilità, alle prossime elezioni politiche, nell'interesse dei lavoratori e di tutti gli oppressi. Il Partito Comunista dei Lavoratori e Sinistra Classe Rivoluzione garantiranno, insieme, questa presenza, e si appellano a tutta l'avanguardia. Per una sinistra che rompa col capitale. Per una sinistra rivoluzionaria.

Partito Comunista dei Lavoratori

lunedì 20 novembre 2017

PERCHÉ NON ABBIAMO ADERITO ALL’APPELLO DI JE SO’ PAZZO

Per una sinistra rivoluzionaria alle prossime elezioni



Le elezioni politiche si avvicinano e come di consueto assistiamo al balletto di appelli, contrappelli, alle manovre che si camuffano dietro la società civile, le realtà di movimento, i “non professionisti della politica che vogliono autorappresentarsi senza la mediazione dei partiti”.

Con l’annullamento dell’assemblea del Brancaccio del 18 novembre è chiaro a tutti che questo tipo di appelli ha lo scopo deliberato di ingannare gli attivisti di sinistra e renderli strumenti inconsapevoli di operazioni che sotto la maschera della democrazia partecipata hanno il volto delle forze politiche screditate che negli anni passati si sono rese responsabili di governare le politiche di austerità.

Come si è visto, mentre nelle assemblee locali si discuteva, Falcone e Montanari trattavano "riservatamente" per una lista unitaria con MDP, Possibile e SI. Quando le tre forze hanno chiuso un accordo, i due “garanti” sono stati gettati via come limoni spremuti e l’assemblea del Brancaccio è stata annullata.

Rifondazione Comunista, dopo essere stata scaricata ha deciso di accodarsi, in maniera fin troppo tempestiva, all’appello del centro sociale Je so’ pazzo - ex Opg di Napoli, che sostanzialmente ha proposto di continuare il percorso del Brancaccio senza Falcone e Montanari e senza i tre partiti che sosterranno la candidatura di Grasso.

Ma anche se non ci sono più D’Alema, Civati e Fratoianni non ci pare che gli argomenti politici che hanno caratterizzato l’assemblea del Teatro Italia siano cambiati di molto, né le modalità di attuazione.

Proprio perché vogliamo essere onesti verso i compagni di Je so’ pazzo diremo senza mezzi termini che il loro discorso è intriso di demagogia soprattutto quando si ergono a rappresentanti dell’intera classe degli sfruttati di questo paese.

Citiamo dal loro appello:

«(…) Ci chiediamo: perché non possiamo sognare? Perché noi giovani, donne, precari, lavoratori, disoccupati, emigrati ed immigrati, pensionati, perché noi che siamo la maggioranza di questo paese dobbiamo essere rassegnati, ingannati dalla politica, costretti ad astenerci o votare il meno peggio? (…) Perché non possiamo sognare di migliorare tutti insieme la nostra condizione, di prenderci diritti e salari decenti, di poter vivere una vita collaborando con il prossimo? Noi dopo aver subito dieci anni di crisi siamo stufi, non ce la facciamo più. Dopo anni, ed evidenti prove, abbiamo la piena consapevolezza che nessuna delle forze politiche attuali ci può rappresentare. Le loro differenze sono tutte un teatrino. Sembrano litigare ma poi in fondo sono tutti d’accordo, e nei fatti per noi non cambia niente. Anche perché non vivono le nostre condizioni.»

Si tratta di una narrazione di tipo populista che sembra piacere molto a sinistra di questi tempi. Non a caso lo slogan dell’assemblea era "Potere al popolo!"

Si riprendono le concezioni di Laclau, che enormi disastri hanno prodotto in America Latina facendo salire la classe lavoratrice sul carro dei movimenti populisti borghesi (lo stesso Laclau ha abbandonato il marxismo per abbracciare il peronismo).

Come se la presenza all’assemblea di alcune realtà di movimento e dei lavoratori di determinate situazioni di lotta trasformasse un’assemblea di 600-700 persone nella legittima depositaria dei sogni, dei desideri e della volontà di un intero popolo di sfruttati.

La realtà è che l’assemblea era composta da avanguardie, qualche forza politica e di movimento che esprimono posizioni sulla cui base riteniamo giusto esprimere il nostro giudizio.

La principale forza presente, Rifondazione Comunista, era pronta ad accettare un accordo con MDP, purché non ci fossero ex ministri nelle liste (come se questo cambiasse qualcosa).

Al discorso che fanno i compagni dell’ex Opg contro le forze politiche ci preme far presente che una delle forze di quello che loro definiscono “il teatrino della politica” è intervenuta all’assemblea con il suo segretario, numerosi esponenti, e che seduto in sala c’era un ex ministro del governo Prodi.

Il punto non sono le forze politiche ma cosa difendono, e metterle tutte sullo stesso piano è un errore di primaria importanza.

Le organizzazioni che sottoscrivono questo testo non si sono mai macchiate e rese responsabili di attacchi alle condizioni di vita degli sfruttati. E ci teniamo a ricordare ai compagni che non abbiamo “fatto finta di litigare” con D’Alema, Bertinotti, Vendola, Ferrero ma abbiamo condotto una battaglia campale contro di loro e le politiche padronali che hanno difeso durante l’esperienza dei due governi Prodi.

Se siamo d’accordo con i compagni di Je so’ pazzo, che certi personaggi non ci rappresentano (e lo abbiamo scritto fin da giugno definendo il Brancaccio una mascherata), non per questo possiamo dare una delega in bianco a chi nel proprio appello non avanza proposte politica di rottura e di netta discontinuità con quelle avanzate al Brancaccio.

Nell’appello che ha convocato la riunione del teatro Italia si dice:

«Nessuna delle forze politiche dice: la gente ha fame, prendiamo i soldi dai ricchi che in questi anni se ne sono messi in tasca tanti, facciamo una vera patrimoniale, recuperiamo la grande evasione. Oppure: togliamo soldi alle spese militari e assumiamo giovani da mettere a lavoro per sistemare scuole, ospedali, territori, visto che abbiamo un paese che cade a pezzi. Aboliamo Jobs Act e contratti precari, lanciamo un programma di investimenti pubblici, disobbediamo a Fiscal Compact e ai tagli dei servizi…»

Patrimoniale, recupero dell’evasione fiscale, abolizione del Jobs Act, tagli alle spese militari per attuare politiche sociali ed investimenti pubblici e disobbedienza sul Fiscal Compact (qualsiasi cosa voglia dire): obiettivi positivi ma assolutamente insufficienti a configurare un vero progetto anticapitalista. Il tema della lotta all’Unione Europea e al capitalismo non è stato neanche posto, e non a caso l’assemblea non si è spinta oltre l’idea di una sinistra antiliberista. Non si tratta di un programma che si discosta dal precedente, ma di un “riformismo temperato”, che in fondo può andar bene non solo a Rifondazione Comunista ma, tutto sommato, anche a MDP e Sinistra Italiana.

Né dei compagni (e non è un aspetto secondario) ci convince il discorso che viene fatto sulla rappresentanza:

«È una cosa da pazzi, però, visto che nessuno ci rappresenta, rappresentiamoci direttamente!»

Non si tratta di rifiutare ogni forma di organizzazione politica, pensando che i soggetti possano rappresentarsi individualmente senza organizzarsi.

Finché gli sfruttati non si organizzano in un soggetto politico, in un partito che li rappresenti realmente, ci saranno sempre burocrazie politiche e di movimento che utilizzeranno le assemblee come sfogatoi per decidere tutto nelle “ristrette”, vale a dire quattro o sei persone che decidono sulla testa di tutti. Quello che è avvenuto al Brancaccio è successo anche nel 2013 con Rivoluzione Civile dove le assemblee avevano individuato le candidature che sono state ribaltate dalle segreterie dei partiti dalla notte alla mattina.

Che garanzie abbiamo che questo non possa ripetersi ancora?

Vogliamo assemblee democratiche e decisionali, e non mascherate, dove le differenti posizioni politiche possano misurarsi in piena libertà rifiutando “garanti” di ogni tipo, e con tutto il rispetto, le cose non assumono un significato diverso se questi garanti hanno la “camicia bianca” o la felpa grigia di un centro sociale occupato.

La musica non cambia se non c’è un esplicito rifiuto della logica pseudo-assembleare, che ha dominato in questi anni, dove c’è un formale rifiuto dei partiti, che continuano a decidere dietro le quinte nel modo più scorretto e antidemocratico. Preferiamo che si riconosca il diritto di proposta dei partiti (così come di altri soggetti e dei singoli) e che questi si misurino sui programmi. Preferiamo una contesa egemonica nella chiarezza delle posizioni dove si confrontano posizioni politiche e su queste si definiscono le proposte.

Per quanto ci riguarda il punto di rottura è proprio questo. Non siamo disposti a veicolare politiche fallimentari che hanno distrutto la sinistra di questo paese, unendo un movimentismo di facciata a un governismo deteriore come quello che ha guidato Rifondazione Comunista durante l’esperienza dei governi Prodi. Abbiamo già avuto l’esperienza dei disobbedienti, molto radicali a parole, che poi hanno finito per candidarsi nelle liste di Sinistra Italiana e prima ancora in quelle dell’Arcobaleno.

Quando nel 2015 Tsipras ha tradito il voto del popolo greco nel referendum, non solo Rifondazione Comunista, ma - ci risulta - anche i compagni di Je so’ pazzo hanno giustificato quella scelta. Su questo punto non ci avrete mai, e pensiamo che non sia una casualità che chi si mantiene dentro un’ottica antiliberista e non anticapitalista sia disposto a giustificare questi voltafaccia.

Non basta la demagogia sull’“unire gli sfruttati” e un programma di 4-5 punti (come è stato detto dai compagni nelle conclusioni al Teatro Italia) per impedire che questi tradimenti si ripropongano; è necessario dotarci di un programma e di metodi rivoluzionari, se si vuole una rottura con il riformismo e dei disastri che ha prodotto in tutta Europa.

Oggi, nel centesimo anniversario della Rivoluzione d’ottobre, molti affermano che “c’è bisogno di rivoluzione”, ma serve ricordare che la rivoluzione fu possibile perché a dirigerla c’era un partito politico, che non faceva alcuna concessione alla retorica movimentista, economicista e anti-partito. Così come allora, dobbiamo combattere e sconfiggere le posizioni riformiste, non unirci ad esse.

Senza partito siamo una massa informe pronta allo sfruttamento. Il movimento di per sé non è sufficiente, tanto meno avere dei rappresentanti in parlamento se alle spalle non c’è un progetto rivoluzionario. Questa cosa che era vera 100 anni fa, resta vera ancora oggi.

Il problema non sono i partiti in quanto tali. Il problema sono i partiti riformisti legati a doppio filo alle classi dominanti.

In questa situazione Sinistra Classe Rivoluzione e il Partito Comunista dei Lavoratori si impegnano affinché nell’imminente scontro elettorale sia presente una lista che rappresenti in modo coerente il punto di vista di classe, di chi lavora e subisce lo sfruttamento di questo sistema economico.

Abbiamo tutto l’interesse a che altri partecipino su una base programmatica chiara. Non a caso in questi mesi abbiamo interloquito con diverse realtà politiche e sociali. Tra queste le affinità maggiori si sono registrate con Sinistra Anticapitalista.

Fin dal mese di giugno ci siamo riuniti più volte con i compagni riscontrando significative convergenze sul piano programmatico ma anche una divergenza sul tipo di proposta elettorale, che tuttavia sembrava superata. Nell’ultimo incontro che si è tenuto il 15 novembre scorso, invece, i dirigenti di Sinistra Anticapitalista hanno deciso di non sottoscrivere una proposta comune per le prossime elezioni e di aderire al percorso lanciato da Je so’ pazzo.

Prendiamo atto della loro decisione ma allo stesso tempo rinnoviamo il nostro appello a Sinistra Anticapitalista e ai suoi militanti, così come ad altre forze interessate, a non perdere l’opportunità di dare vita a una lista anticapitalista, la più larga possibile.

Una lista che lotti contro l’austerità, contro l’Unione Europea capitalista e per un programma di nazionalizzazione delle banche e delle grandi imprese strategiche, l’unico che può indicare una via d’uscita alla grande maggioranza della popolazione attanagliata da 10 anni di crisi di questo sistema.

A differenza di altri non ci autonominiamo come rappresentanti dell’insieme della classe. Sappiamo di partire da forze ancora limitate, ma siamo fermamente convinti che questa proposta possa parlare a molti. Questi anni sono stati anche anni di lotte e resistenza, dagli scioperi contro il Jobs act e la buona scuola, alle manifestazioni delle donne, alla campagna referendaria che il 4 dicembre ha ribaltato Renzi, e tante altre. Non è vero che “la gente” è passiva e subisce tutto in silenzio. È vero invece che va costruita una forza significativa che organizzi e rappresenti davvero il movimento operaio e le classi sfruttate.
Consideriamo un nostro compito prioritario lavorare alla sua costruzione in qualsiasi terreno possibile: nei movimenti di lotta, nelle battaglie sindacali, fra gli studenti, e anche sul terreno elettorale.
La crisi del progetto del Brancaccio non è uno spiacevole incidente diplomatico. È l'epilogo annunciato dell'equivoco politico su cui si basava. La pretesa di costruire “una sinistra che non c'è”, ma senza rompere con quella che c'è.

La riunione del Teatro Italia non ha rotto con questo equivoco.

La pretesa di una radicale discontinuità di metodi e programmi, ma “nel rispetto della Costituzione” e della proprietà privata. La pretesa di una svolta sociale, ma senza riferimento di classe e senza rottura con il capitale.

La “sinistra che non c'è ancora” può essere solo una sinistra rivoluzionaria.
Non una generica sinistra “civica” di cittadini progressisti. Né una sinistra che metta insieme sovranismi nazionalisti e costituzioni borghesi. Lo diciamo questo ai compagni di Eurostop che il 2 dicembre hanno convocato un’altra assemblea per lanciare la loro proposta elettorale e che erano presenti al Teatro Italia.

Il nostro cuore non batte per il tricolore ma per la bandiera rossa, simbolo degli sfruttati e degli oppressi in ogni angolo del pianeta.

Vogliamo risollevare quella bandiera rossa, gettata nel fango dai riformisti, e tornare a sventolarla con orgoglio ricostruendo una sinistra di classe, schierata sempre e dovunque dalla parte dei lavoratori, impegnata nella unificazione delle loro lotte e resistenze sociali, a partire dalle rivendicazioni più semplici; ma soprattutto impegnata a ricondurre ogni lotta di opposizione e di resistenza all'unica prospettiva di alternativa vera: un governo dei lavoratori e delle lavoratrici, basato sulla loro organizzazione e la loro forza, che rompa col capitalismo e riorganizzi da cima a fondo la società.

Chi sente come noi questa esigenza imprescindibile venga a dare il suo contributo di idee e di militanza!

Sinistra Classe Rivoluzione - Partito Comunista dei Lavoratori

SPECIALE CENTENARIO DELLA RIVOLUZIONE RUSSA

INDICE:
La rivoluzione bolscevica nel campo dell'istruzione. Dalla scuola unica del 1918 alla controrivoluzione stalinista – CasalottiI / PAG.3
DOCUMENTO: Discorso al Primo Congresso Panrusso per l'istruzione - LENIN / PAG.9 DOCUMENTO: Decreto del consiglio dei commissari del popolo del 16 ottobre 1918 - Lunacharsky / PAG.11
DOCUMENTO: Estratto di Progetto di Programma del Partito Comunista RUSSO del marzo 1919 / PAG.15
INVITO ALLA LETTURA: Introduzione di Marxismo Rivoluzionario N' 13 - Grisolia / PAG.16
INVITO ALLA LETTURA: Prefazione del libro "Cento Anni" di marco Ferrando - Terra / PAG.17


 

giovedì 9 novembre 2017

IL GROVIGLIO POLITICO ITALIANO



Il risultato delle elezioni regionali siciliane è di per sé inequivocabile. La coalizione di centrodestra conquista la maggioranza relativa, il M5S manca il successo atteso ma registra un consolidamento, la coalizione tra PD e Alfano conosce una pesante sconfitta annunciata, il blocco MDP-SI-PRC supera la soglia di sbarramento ma non raggiunge le percentuali sperate.

Al di là delle specificità regionali, questo risultato d'insieme assume una valenza politica nazionale.

Il renzismo ha totalmente fallito, e da tempo, i due obiettivi strategici su cui puntava: lo sfondamento nel blocco sociale di centrodestra grazie all'attacco frontale al lavoro (Jobs Act), e l'incursione nell'elettorato grillino grazie alle pose concorrenziali populiste (critica di Bankitalia, critica della UE, promesse a futura memoria su tasse e pensioni...). Questo fallimento non si traduce nell'immediata caduta della segreteria Renzi, perché il segretario dispone di una maggioranza autosufficiente nella Direzione Nazionale del PD, e perché la nuova legge elettorale approvata gli mette in mano il pieno controllo sulle prossime liste elettorali del partito. Ma certo la crisi del renzismo consuma in Sicilia un nuovo capitolo del proprio romanzo, con effetti sull'insieme del quadro politico. Per la prima volta si delinea la possibilità di una competizione diretta tra centrodestra e M5S per il primato nazionale, che releghi il PD in terza posizione.

Gli stati maggiori del PD, in apprensione per il proprio futuro, premono su Renzi perché lavori a ricomporre una coalizione competitiva per le prossime elezioni politiche. Renzi stesso per rimanere in sella mima la disponibilità all'apertura. Ma apertura in quale direzione? Sulla sua destra, il partito di Alfano è letteralmente esploso dopo il mancato ingresso nel parlamento siciliano, e in ogni caso il suo apporto elettorale sarebbe insignificante se non negativo. Sulla sua sinistra, Pisapia è evaporato nel nulla (...da cui in realtà non si era mai scostato), mentre MDP, che già registra gli effetti di una scissione tardiva e disastrosamente gestita, non sembra disponibile al suicidio definitivo facendo blocco con Renzi nel momento della sua disfatta: prima di una ricomposizione (annunciata) col PD vuole vedere il cadavere del suo segretario. In questo quadro tutto sembra precipitare verso la disfatta definitiva del renzismo.

Ma a favore di quale prospettiva? M5S e centrodestra giocano alla contrapposizione diretta l'uno contro l'altro per beneficiare di un bipolarismo simulato, e accrescere le difficoltà del PD. Il M5S gioca a presentarsi come l'unica vera alternativa a Berlusconi, puntando a capitalizzare una quota crescente di elettorato PD nel nome del voto utile contro la rimonta della destra. Berlusconi all'opposto gioca a presentarsi come l'unico vero argine al populismo del M5S nel nome della governabilità contro l'”avventura”, con la significativa benedizione di Angela Merkel e del PPE. Entrambi usano la contrapposizione bipolare come leva di polarizzazione elettorale e di possibile sfondamento.

Ma un conto è la simulazione, un conto la realtà. L'assetto politico generale resta ancora al momento tripolare, e dentro l'assetto tripolare né il M5S né il centrodestra sembrano in grado di conquistare la maggioranza dei seggi nel prossimo Parlamento. Un simile sbocco richiederebbe infatti, con la nuova legge elettorale, la conquista del 45% dei voti sul livello proporzionale, e parallelamente del 70% dei voti al livello maggioritario dei collegi (calcoli di D'Alimonte). Una combinazione difficilmente raggiungibile, proibitiva per il PD, improbabile per centrodestra e M5S. Anche nel caso di un ipotetico crollo del PD nei collegi tradizionali di centro Italia (per l'effetto di una presenza concorrenziale a sinistra), la contesa tra centrodestra e M5S tenderebbe infatti a sancire un relativo equilibrio, non uno sfondamento unilaterale.

Resta l'ipotesi di scuola di un governo PD-Forza Italia per lo scenario post-voto. È un'ipotesi sicuramente contemplata dagli stati maggiori dei due partiti, e dal commentario di retroscena del giornalismo borghese. Ma presenta due problemi rilevanti.
Il primo è numerico. Nessuna proiezione dei sondaggi attuali indica una possibile maggioranza parlamentare PD-Forza Italia nelle due Camere. La crisi del PD, e l'accresciuta forza contrattuale della Lega nella spartizione con FI dei collegi del Nord, rende oggi ancor più difficile un simile esito.
Il secondo problema è politico. Un governo PD-Forza Italia non solo implicherebbe lo sfascio delle rispettive coalizioni elettorali, ma innescherebbe una dinamica destabilizzante in entrambi i partiti e nel rapporto coi rispettivi elettorati. Sia nel PD, esposto più che mai alla crisi di rigetto del renzismo; sia in Forza Italia, dove buona parte degli eletti nei collegi del Nord dovrebbe rompere quel patto con la Lega che ha reso possibile la propria elezione.
A differenza che in Germania, dove un governo di unità nazionale tra CDU e SPD aveva spalle relativamente larghe, un governo PD-FI, se anche fosse numericamente possibile, sarebbe solo un ulteriore capitolo del processo di decomposizione degli equilibri borghesi.

È un caso che già si pensi all'eventuale ricorso a nuove elezioni nel caso di un prossimo parlamento ingovernabile?

La crisi italiana si avvita. I padroni non sono mai stati tanto forti nei luoghi di lavoro, ma faticano a tradurre questa forza in un equilibrio politico-istituzionale stabile, mentre debito pubblico e crisi bancaria misurano un nodo irrisolto, senza punti di paragone nei paesi imperialistici europei. L'Italia è e resta dunque un anello debole dell'unione capitalistica europea. Ma solo l'irruzione di un'azione di massa del movimento operaio sul terreno della lotta di classe può entrare nel varco di questa contraddizione e aprire una prospettiva politica nuova per gli sfruttati.


Partito Comunista dei Lavoratori

martedì 7 novembre 2017

UNIRE LA LOTTA DEI LAVORATORI ILVA!



Il Partito Comunista dei Lavoratori sostiene pienamente la scelta dei lavoratori Ilva di occupare gli stabilimenti di Cornigliano a difesa dell'accordo di programma del 2005.

Come i fatti dimostrano, i nuovi acquirenti Arcelor Mittal e Marcegaglia non hanno alcuna intenzione di rispettare i precedenti accordi sindacali. E non si tratta solo dei lavoratori genovesi. L'intero negoziato nazionale si muove sul piano inclinato della manomissione dei diritti. Ai lavoratori di tutti gli stabilimenti Ilva si chiede non solo di scegliere tra il mantenimento dei livelli salariali e il taglio drastico dei posti di lavoro - un'alternativa già di per sé inaccettabile - ma di subire la riassunzione dei lavoratori rimasti con il cosiddetto contratto a tutele crescenti, cioè la licenziabilità senza giusta causa. Dopo aver recitato una finta intransigenza a fini d'immagine, Calenda e Gentiloni vogliono ora rassicurare la nuova proprietà sui vantaggi dell'affare. Per questo chiedono ai lavoratori di rientrare nei ranghi e subire in silenzio. “Altrimenti si mette a rischio il negoziato” dichiara il MISE, col pronto accodamento di FIM e UILM. Ma è proprio questo negoziato che è una partita a perdere per i lavoratori!

È necessario costruire una unità di lotta tra i lavoratori di tutti gli stabilimenti Ilva per bloccare ogni svendita dei diritti operai, e ogni tentativo di dividere i lavoratori di Genova dai lavoratori degli altri stabilimenti della fabbrica. L'esperienza dei fatti dimostra una volta di più che nell'attuale panorama della sovrapproduzione mondiale di acciaio non ci sono in circolazione possibili acquirenti generosi tra i capitalisti della siderurgia. Tutti i capitalisti del settore, quale che sia la loro nazionalità e provenienza, si contendono le fette di mercato abbattendo lavoro e diritti.

Solo una nazionalizzazione dell'Ilva e dell'intera siderurgia, senza indennizzo per i grandi azionisti e sotto il controllo dei lavoratori, può tutelare salario lavoro diritti salute. È l'ora di unire i lavoratori dell'Ilva attorno a questa rivendicazione di svolta. È ora di assumere la consapevolezza che il capitalismo sa offrire solo sacrifici e miseria agli operai. Solo un governo dei lavoratori, basato sulla loro forza e sulla loro organizzazione, può realizzare una vera alternativa.


Partito Comunista dei Lavoratori

domenica 5 novembre 2017

MARXISMO RIVOLUZIONARIO

Rivista teorica del Partito Comunista dei Lavoratori


SOMMARIO
Introduzione
Di Franco Grisolia

Ottobre ’17: l’assalto al cielo – una lezione ancora attuale
Di Marco Ferrando

La natura e il ruolo del Partito Leninista
Di Franco Grisolia

Cronologia della Rivoluzione Russa- 1917, la conquista del potere
Di Gino Candreva

La Rivoluzione russa
Di Eugenio Gemmo

“ La rivoluzione russa” da l’Ordine Nuovo (1922)

Le lezioni dell’Ottobre. Strategia e tattica della conquista del potere
Di Tiziano bagarolo

Tesi d’aprile – Vladimir Ilic lenin

CENTO ANNI DOPO RICORDARE LA RIVOLUZIONE D’OTTOBRE

Il centenario della Rivoluzione d'Ottobre è l'occasione per, ritornare alle origini delle vittorie del movimento rivoluzionario proletario e riflettere sul che fare per lottare contro la barbarie capitalista e imperialista

A cento anni di distanza dalla rivoluzione siamo tornati a condizioni di sfruttamento ottocentesche.

Le continue crisi capitaliste, l'intensificarsi dello sfruttamento nella ricerca del massimo profitto continuano inesorabilmente a colpire la classe operaia, le masse proletarie e popolari. 


La scomposizione economica-politica-organizzativa del proletariato e del movimento comunista ha fatto perdere in molti casi anche la memoria storica delle vittorie degli obiettivi storici del proletariato.


La mancanza di un'organizzazione politica di classe comporta che oggi, spesso, non si lotta neanche più contro il sistema capitalista, vera causa delle disgrazie, dello sfruttamento, della disoccupazione, della miseria, della fame, della sete, delle guerre, dei morti sul lavoro e delle malattie professionali e ambientali, ma contro i suoi effetti.



Discutere oggi della Rivoluzione d'Ottobre, delle sue conquiste per gli sfruttati serve per confrontarci e dibattere come costruire la nostra organizzazione politica di classe, l'unico strumento con cui la classe operaia può liberarsi dalla schiavitù salariata, con i proletari coscienti, fra operai comunisti, avanguardie di lotta e intellettuali onesti.

lunedì 30 ottobre 2017

IL MARXISMO RIVOLUZIONARIO ED IL RIFORMISMO DI FRONTE ALLA PROVA DELLA CATALOGNA



Ogni precipitazione dello scontro politico e sociale mette alla prova gli orientamenti generali della sinistra e ne svela la natura profonda. La precipitazione dello scontro tra Spagna e Catalogna è sotto questo profilo un caso di scuola.

Lo Stato spagnolo ha dichiarato guerra alla Repubblica di Catalogna. Rajoy ha definito la dichiarazione di indipendenza “un atto criminale”. Il PP invoca la “repressione della ribellione”. Il Psoe annuncia che “la legalità tornerà in Catalogna con ogni mezzo necessario”. Ciudadanos chiede “un immediato piano di intervento senza limitarsi alle parole”. La magistratura legittima l'arresto dei “responsabili della sedizione” con una imputazione di stampo franchista che prevede decenni di galera. La prima pagina di El Pais grida a titoli cubitali “ Il Parlamento di Catalogna consuma un golpe contro la democrazia, lo Stato si appresta a soffocare la insurrezione” ( testuale, 28/10). Intanto dieci mila militari della guardia civil, ormeggiati nel porto di Barcellona, attendono disposizioni.

A cosa si deve questa minacciosa isteria reazionaria? A un fatto semplice. La Catalogna ha rotto con la monarchia spagnola. Lo ha fatto col referendum del primo Ottobre, quando oltre due milioni di catalani hanno sfidato la repressione poliziesca per esprimere la volontà di indipendenza. Lo ha fatto con la continuità di una mobilitazione di massa, in particolare dei giovani, che ha retto alla paralisi e alle indecisioni del governo della Generalitat e ha finito con l'imporre la dichiarazione della Repubblica. Nulla chiarisce meglio la natura del sentimento nazionale catalano, le sue radici storiche nella rivoluzione repubblicana e nell'opposizione al franchismo, quanto il coraggio della resistenza popolare a Madrid. E nulla chiarisce meglio la contiguità culturale di tanta parte dello Stato spagnolo col passato franchista quanto la furia repressiva contro la Catalogna.

PODEMOS E IZQUIERDA UNIDA CONTRO LA REPUBBLICA DI CATALOGNA

In questo quadro il dovere elementare di una avanguardia di classe è quello di difendere la Repubblica di Catalogna contro la repressione di Madrid, dal versante di una prospettiva socialista. Dunque dal versante di una aperta battaglia politica dentro il movimento indipendentista per una egemonia di classe alternativa : in direzione di una Repubblica socialista di Catalogna, nella prospettiva degli Stati Uniti Socialisti d'Europa.

Le sinistre riformiste di Spagna e Catalogna fanno l'opposto. La loro subalternità all'imperialismo spagnolo emerge in questi giorni in tutta la sua gravità. Prima hanno supplicato per mesi a mani giunte il “dialogo” tra la Spagna e la Catalogna, nel nome sempiterno della “democrazia”, del “reciproco rispetto”, della “ricerca di una soluzione concordata” tra lo Stato spagnolo e il movimento di massa catalano. Cioè tra oppressori e oppressi. Ora che la frattura annunciata si è definitivamente prodotta, non esitano a dissociarsi dalla dichiarazione di indipendenza. Naturalmente “criticano” l'adozione dell'articolo 155 da parte di Rajoy. Ma si affrettano a rassicurare l'opinione pubblica sciovinista sul fatto che sono assolutamente contrari alla Repubblica di Catalogna. Podemos dichiara che“ non c'è alcuna base di diritto per la dichiarazione di indipendenza” . La sindaca di Barcellona Ada Colau contesta la “scelta unilaterale del governo catalano”. Izquierda Unida afferma che la “dichiarazione di indipendenza è un atto di irresponsabilità e una oggettiva provocazione”..
La risultante di queste posizioni è una sola: la sinistra spagnola cosiddetta “radicale” volta le spalle alla Catalogna nel momento stesso in cui tutta la peggiore reazione spagnola affila le armi contro di essa.

L'INTERNAZIONALISMO DI ALBERTO GARZON

Alberto Garzon, segretario di Izquierda Unida, cerca di razionalizzare questa posizione con una lunga dissertazione riportata dal quotidiano Il Manifesto.

Non è coerente essere comunista e indipendentista.... il comunismo è internazionalista” dichiara solennemente Garzon. Da qui una filippica interminabile contro una dichiarazione di indipendenza “priva di ogni legittimità”, “un gesto assolutamente antidemocratico” “un fatto di irresponsabilità”e via denunciando...

E' davvero una argomentazione rivelatrice. Il comunismo è internazionalista, non c'è alcun dubbio. Si batte (... a differenza di Garzon) per la rivoluzione socialista internazionale. Ma il programma del socialismo internazionale è chiamato a combattere assieme allo sfruttamento del lavoro ogni oppressione nazionale, ogni oppressione di una nazione dominante su una nazione dominata. Un popolo che opprime un altro popolo non può essere libero diceva Marx, rivendicando l'indipendenza repubblicana dell'Irlanda dalla corona britannica. La Repubblica sovietica di Lenin e di Trotsky, “libera unione di libere nazioni”, riconobbe perciò stesso il diritto di autodeterminazione, cioè di separazione,di tutte le nazionalità oppresse dalla vecchia Russia. Di più: la libera autodeterminazione delle nazionalità oppresse fu una delle bandiere della rivoluzione d'Ottobre e della Terza Internazionale Comunista: in polemica frontale con le posizioni scioviniste di quelle sinistre riformiste , che dopo aver votato i crediti di guerra dei propri imperialismi, rifiutavano di riconoscere i diritti nazionali dei popoli che i propri imperialismi opprimevano evocando.... il“rifiuto del nazionalismo” e i valori dell'Internazionalismo. Esattamente come oggi fa Izquierda Unida, che ai tempi di Zapatero sosteneva il governo dell'imperialismo spagnolo, ma oggi scopre...”l'internazionalismo comunista” per contrapporsi alla liberazione della Catalogna dalla Monarchia di Spagna.

A ognuno la sua coerenza. Nessuno certo contesta quella di Garzon. Ma lasciamo in pace...il comunismo.


Partito Comunista dei Lavoratori

sabato 28 ottobre 2017

PER LA REPUBBLICA SOCIALISTA DI CATALOGNA



Il Parlamento catalano ha votato la dichiarazione di indipendenza della Catalogna, nella forma di Repubblica. Dopo le funamboliche oscillazioni di Puigdemont, alla ricerca disperata di una soluzione concordata con Madrid, l'intransigenza reazionaria del governo spagnolo e la pressione di massa indipendentista hanno imposto uno sbocco che nessuno degli attori in scena aveva né voluto né previsto.

La dichiarazione di rottura della Catalogna con il governo e con la monarchia di Spagna è un fatto importante e progressivo. Corrisponde al diritto di autodeterminazione della Catalogna, quale nazionalità politicamente oppressa. Corrisponde alla volontà espressa dal voto referendario del primo ottobre, difeso dalla repressione poliziesca. 

Corrisponde alla volontà manifestata dallo sciopero generale in Catalogna del 3 ottobre. Corrisponde alla mobilitazione di massa dell'ultima settimana contro l'arresto dei dirigenti indipendentisti e contro il colpo di stato di Madrid portato con l'applicazione dell'articolo 155 della Costituzione spagnola (scioglimento del governo catalano, commissariamento del Parlament, cambio dei vertici della Tv regionale, destituzione dello stato maggiore dei Mossos e suo rimpiazzo con forze militari di Madrid). Un corso politico reazionario che reca l'impronta inconfondibile di metodi franchisti. E che a maggior ragione valorizza la natura democratica del movimento indipendentista e repubblicano di Catalogna.

Ma la dichiarazione di indipendenza, per quanto progressiva, è solo una dichiarazione. Le grandi questioni storiche non si risolvono con carte da bollo, si risolvono sul terreno dei rapporti di forza.

Si prepara in queste ore uno scontro frontale tra Catalogna repubblicana e governo spagnolo che può concludersi solo con un vincitore. L'applauso scrosciante del Senato spagnolo a Rajoy nel momento in cui poche ore fa chiedeva pieni poteri contro la Catalogna è lo specchio simbolico della determinazione reazionaria di Madrid. Rajoy ha oggi il mandato pieno dello Stato spagnolo, delle gerarchie militari, della magistratura, della Guardia Civil, per “ripristinare la legge e l'ordine” in Catalogna. 
Si può essere certi che onorerà il mandato, con tutti gli strumenti che l'apparato spagnolo gli consente.

Di fronte alla precipitazione annunciata, si pone l'esigenza di un cambio di linea del movimento indipendentista. Il nazionalismo borghese che guida la Generalitat ha dimostrato in queste settimane tutti i limiti politici che derivano dalla sua natura sociale. Appelli alla Unione Europea, ricerca di una soluzione “pactada” con Rajoy, suppliche interminabili di dialogo con gli avversari della Catalogna, in un gioco tutto istituzionale fatto di furbizie tattiche, continui rimandi delle decisioni, illusioni e speranze su una via d'uscita concordata e indolore. 
Parallelamente nulla sul fronte sociale, mentre 1500 imprese della borghesia catalana fuggivano dalla Catalogna, e nulla sul fronte dell'organizzazione della resistenza di massa a Madrid. Ora tutto questo corso politico è stato smentito nel modo più clamoroso dalla dinamica degli avvenimenti.

Ora, nelle ore di fuoco che si annunciano, non c'è più spazio per rinvii e furbizie. Ora si tratta di mettersi al passo del livello di scontro che la dichiarazione di indipendenza ha aperto, e che la reazione di Madrid imporrà. 
Organizzazione della difesa di massa della Repubblica Catalana, estensione e centralizzazione progressiva dei comitati di difesa della Repubblica, nati per difendere il diritto di voto del primo ottobre e poi generalizzatisi in molte realtà cittadine e di quartiere; sciopero generale contro ogni intervento, militare o giudiziario, del governo spagnolo; nazionalizzazione delle banche e delle imprese fuggitive, sotto il controllo dei lavoratori, in tutta la Catalogna; abolizione del debito pubblico della Catalogna verso la Spagna; appello al movimento operaio spagnolo per un fronte comune contro la repressione di Madrid e il governo reazionario di Rajoy, per un programma comune di svolta sociale.

Una svolta di linea del movimento indipendentista è l'unica che può tenere aperta la partita. Ma richiede un cambio di direzione. Solo la classe lavoratrice catalana, mettendosi alla testa della grande mobilitazione della gioventù, può costruire la nuova direzione del movimento indipendentista. Nuova direzione significa a sua volta nuova prospettiva. 
I fatti dimostrano che senza la rottura con la borghesia catalana, senza misure anticapitaliste, senza la costruzione di un altro potere a partire dalle fabbriche, dai luoghi di lavoro, dai quartieri, difficilmente la dichiarazione di indipendenza si trasformerà in realtà. L'obiettivo di uno “Stato sovrano, democratico e sociale” sottoscritto dal fronte popolare tra Puigdemont e CUP, che dovrebbe inverarsi attraverso un processo costituente dentro l'ossatura dello Stato borghese di Catalogna, a braccetto dei partiti nazionalisti borghesi e secondo la “Legge di Transizione” con questi concordata, è una pura finzione letteraria, che lega le mani ai lavoratori e alla loro mobilitazione indipendente.

Tutto lascia pensare che la Repubblica di Catalogna o sarà socialista o non sarà.

Nell'appellarci a tutte le sinistre italiane, politiche e sindacali, perché si schierino senza riserve al fianco della Catalogna contro la monarchia di Spagna, e perché promuovano la protesta unitaria sotto i consolati spagnoli, ci impegniamo a portare nelle iniziative solidali di mobilitazione questo punto di vista. Che è lo stesso punto di vista dei marxisti rivoluzionari catalani e spagnoli.

Partito Comunista dei Lavoratori