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giovedì 30 giugno 2016

I dieci anni del Partito Comunista dei Lavoratori Meeting nazionale il 3 Settembre a Firenze

Sabato 3 settembre 2016, con inizio intorno alle ore 14 e conclusione
intorno alle ore 17 (accoglienza sin dalla mattina e pranzo dalle 12,00).


Teatro Nuovo Circolo Arci Lippi

Via Pietro Fanfani, 16

Firenze zona nord

vicino a :
Aeroporto Vespucci
stazione FFSS Rifredi
Uscite Autostrada: Firenze Nord - Sesto Fiorentino


Partito Comunista dei Lavoratori


lunedì 27 giugno 2016

Aria d'inverno (1995) nel bel mezzo di una primavera


Loi Travail: raffinerie, porti, traffico ferroviario, urbano, aereo. A chi tocca?

da: Révolution Permanente



Durante il grande movimento del novembre-dicembre 1995 contro le riforme Juppé sulle pensioni e sulla sicurezza, la SNFC (Société Nationale des Chemins de fer Français, società pubblica di trasporto ferroviario in Francia, ndr) si trovò alla testa della lotta, così come i postini, gli insegnanti e l'Educazione Nazionale, France Télécom, EDF – GDF, la sanità. A differenza di quell'“inverno del malcontento”, nel corso del quale i salariati del settore pubblico erano in testa al movimento, stavolta, a maggio-giugno 2016, sono gli operai delle raffinerie a paralizzare il paese, con otto stabilimenti in sciopero, che contagiano progressivamente il settore privato, in particolare con gli operai delle aree portuali. Le attuali azioni si combinano, parallelamente, con gli “scioperi rettangolari”, di 48 ore alla SNFC, i mercoledì e giovedì, tutte le settimane, mentre il trasporto pubblico urbano, in particolare la RATP, e il trasporto aereo, sono entrate nei giochi a partire da inizio giugno. Si respira, in questi giorni, un'aria che ricorda molto quella dell'inverno 1995. 

Nel 1995 c'erano stati dei tentativi di interpro ("interprofessionale", iniziative di lotta comune di più settori lavorativi), come a “La Fosse”, a Rouen, o in certi quartieri dell'est Parigino. Ma a quell'epoca, per evitare che lo spettro dei coordinamenti alla SNFC del 1986 o degli infermieri del 1987 non si ripresentasse, la CGT, con Bernard Thibault alla testa, inasprì i toni di fronte al governo Juppé, per evitare che si sviluppassero questa dinamica di autorganizzazione del basso, come poi fu il caso, in modo più embrionale, nel 2010. Oggi è come se Philippe Martinez avesse ripreso lo stesso copione.

Come nel 1995, anche la CFDT ruppe con il fronte unico delle organizzazioni sindacali, giocando benissimo il suo ruolo di sindacato giallo. Laurent Berger fa quasi meglio di quanto fece Nicole Notat per tentare di affogare gli scioperi.

Proprio come nel 1995, gli studenti e i giovani sono stati il trampolino di lancio per la prima parte della mobilitazione, per rifluire poi in un secondo momento, al momento in cui gli scioperi, sempre più numerosi, prendono corpo.

Tuttavia, una delle più grosse differenze è la che la partecipazione del settore pubblico nelle manifestazioni del 1995, le rendeva più massicce. Sono i dipendenti pubblici, in particolare, la categoria a cui Hollande ha fatto più concessioni (da notare, gli 800 euro per i professori), e questo per assicurarsi che non ci sia saldatura fra essi e gli altri settori.

Nella primavera 2016, allo stesso tempo, non vediamo la stessa dinamica studentesca che nel 2006 aveva portato alle mobilitazioni contro il CPE. Il coraggio dei giovani contro la repressione, durante le prime settimane dell'attuale movimento, è tuttavia servito a delegittimare considerevolmente le forze di Polizia dello Stato imperialista.

A tutto questo, bisogna aggiungere un'ulteriore differenza: Nuit Debout. Questa tendenza fa da staffetta per il movimento ma alimenta altrettanto la sua radicalizzazione politica (a un livello minore rispetto ad altri movimenti, come nel 1968). Questo ha comunque degli effetti, nell'intaccare efficacemente il luogo comune secondo cui “non ci sono alternative”, per citare il vecchio slogan della Thatcher. Nuit Debout non può certo diventare il centro di gravità delle azioni in corso, a causa di diversi errori legati all'orizzontalismo del sua assemblearismo, ma contribuisce a far parlare degli scioperi e a continuare un discorso opposto a quello del governo e al ricatto dell'asfissia (del carburante per i servizi pubblici, dei servizi essenziali per i soccorsi, ecc).

C'è da dire che le azioni di blocco e di sciopero, decise collettivamente in questi ultimi giorni, in particolare a proposito dei depositi di carburante, fanno apparire per ciò che sono le azioni minoritarie che stanno a cuore a una frangia del movimento autonomo opposto a tutte le idee di autorganizzazione, di coordinamento e di forme democratiche di decisione nelle lotte.

Ancora una volta, gli operai delle raffinerie, come durante lo sciopero per la chiusura della fabbrica di Flandres nel 2009/10, o durante il movimento del 2010 contro la riforma delle pensioni di Sarkozy, sono all'avanguardia nel movimento operaio in Francia. Come il caso di Le Havre, seconda area portuale per importanza e sede di molti depositi di idrocarburi e di una raffineria, da sempre quartier generale per gli scioperi.

Non è un caso se proprio mentre la direzione della TOTAL ha annunciato di voler rivedere al ribasso i suoi investimenti in Francia, gli scioperi hanno raggiunto il loro punto massimo. Si tratta di un ricatto, ovviamente, ma potrebbe comunque trattarsi di un piano strategico del padronato francese per distruggere un settore chiave del proletario francese. In altri termini, se il thatcherismo alla francese vuole trionfare, avrà bisogno di piegare non più i minatori ma gli operai delle raffinerie. La lotta si annuncia lunga, dura e molto violenta.

Una delle principali differenze tra il movimento attuale e quello del 1995 sono la crisi mondiale e le sue ripercussioni sull'Europa. La determinazione della borghesia è ben diversa. Abbiamo già visto nel 2010 come Sarkozy riuscì a far passare la riforma delle pensioni nonostante le centinaia di mobilitazioni di milioni di lavoratori. All'epoca, la dinamica della generalizzazione dello sciopero, con gli operai delle raffinerie alla testa, conobbe un arresto a causa del freno che le direzioni sindacali stavano mettendo, come l'aver lasciato correre sulle perquisizioni a Grandpuits e Donges, cosa che ha dato il colpo di grazia al movimento.

A differenza della fine del quinquennio di Sarkozy, Hollande è molto più indebolito. La perdita di autorità dell'Esecutivo ha raggiunto vette troppo alte, a dispetto della permanenza dello stato di emergenza, il che rende ancora più patetica la coppia Hollande-Valls e rinforza gli attacchi della destra e dell'estrema destra sulla crisi del governo. Ma alcuni dei settori strategici in lotta potrebbero comunque dimostrarsi insufficienti per far piegare questo governo.

Per vincere, bisogna estendere la lotta all'insieme del mondo del lavoro, a cominciare dal settore automobilistico, uno dei segmenti industriali con la più alta densità operaia; a quello aeronautica, il settore economico più dinamico a livello nazionale; ma allo stesso tempo ai settori più sfruttati, portatori di un odio di classe ben maggiore, vale a dire gli strati più precari del proletariato così come i disoccupati e sopratutto i giovani dei quartieri.

Di fatto, la CGT si è trasformata nella sola opposizione di sinistra contro il governo Hollande-Valls. Il sindacato di Martinez dovrà difendere un piano operaio per uscire dalla crisi e dal marasma attuali, partendo dalla necessità di ottenere il ritiro completo della Loi Travail, e saldare l'unità tra la classe operaia e i settori popolari più colpiti dalla crisi per dar loro una prospettiva.

Sarà fondamentale che le assemblee generali, nei settori mobilizzati, comincino ad esigere dalle loro direzioni un programma di questo tipo, nonché a formare comitati di sciopero che raggruppino sindacalizzati e non, in modo da poter guadagnare agli scioperi la base dei sindacati collaborazionisti, e stabilendo dei picchetti di autodifesa sulle azioni e gli scioperi per far fronte a una repressione che aumenta, contro i settori in sciopero più determinati.




Juan Chingo

sabato 25 giugno 2016

UE o Brexit: una falsa alternativa per i lavoratori



L'esito del referendum britannico e la lotta anticapitalista contro l'UE

L'uscita della Gran Bretagna dalla UE apre un nuovo capitolo della crisi dell'Unione degli stati capitalisti del vecchio continente.

Da tempo a cavallo tra integrazione e dissoluzione, la UE ha visto moltiplicarsi nell'ultima fase le spinte disgregatrici. Il combinato della crisi capitalista, della prolungata stagnazione, della profonda crisi di consenso delle politiche di austerità ha sospinto un approfondimento delle contraddizioni nazionali nella UE . Il fiscal compact è virtualmente fallito senza che si delinei un nuovo equilibrio. L'Unione bancaria resta al palo, col rifiuto tedesco di una assicurazione europea sui depositi, mentre l'intero settore bancario europeo è investito da nuovi venti di crisi (crisi dei crediti deteriorati in Italia, crisi dei derivati nella finanza tedesca e nordica). Il riconoscimento o meno della Cina come economia di mercato amplifica il contrasto tra capitalismo tedesco (disponibile) e interesse opposto di Italia e Francia, minacciate sul proprio mercato interno dalla concorrenza asiatica. La pressione migratoria - fattore strutturale di lungo periodo - sospinge processi combinati di rinazionalizzazione dei confini, con la dissoluzione del blocco est-europeo a trazione tedesca e nuovi processi di polarizzazione politica xenofoba all'interno di diversi paesi. Fattore a loro volta di nuove spinte centrifughe e di effetti politici destabilizzanti all'interno dei diversi paesi dell'Unione.

La Brexit è stata un effetto di questo quadro generale di crisi, e al tempo stesso concorre ad approfondirlo.


LA NATURA DELL'OPERAZIONE CAMERON. LA CITY A FAVORE DEL REMAIN

Lo scontro interno alla Gran Bretagna tra “remain” e Brexit ha visto affrontarsi su opposti versanti forze ugualmente nemiche dei lavoratori britannici e dei lavoratori europei. Sia sul fronte politico, sia sul fronte sociale.

Sul fronte politico, David Cameron ha ideato il referendum sull'appartenenza della Gran Bretagna alla Unione Europea in funzione del proprio rafforzamento nel partito conservatore e nel governo, contro i propri avversari interni, lungo la linea di continuità dell'attacco ai lavoratori britannici. Prima la promessa del referendum, poi il negoziato con la UE, infine la campagna a favore del remain brandendo le “concessioni” ottenute in sede UE (contro i diritti sociali degli stessi immigrati comunitari), hanno perseguito un solo obiettivo: incassare il plauso popolare per coronare la propria ambizione politica. La disfatta della cinica operazione ha sancito la fine politica di Cameron, a vantaggio di quegli stessi avversari interni (Boris Johnson) che puntava a sgominare.

Al di là degli scopi politici di Cameron, la campagna per il remain ha selezionato e raccolto attorno a sé il fiore della grande borghesia britannica: il cuore della City londinese, la principale piazza del capitale finanziario europeo; la grande borghesia industriale (l'80% degli aderenti alla Confindustria britannica ha aderito alla campagna); la maggioranza delle Camere di commercio (sia pure con una percentuale minore). La ragione del sostegno borghese maggioritario al remain è molto semplice: la UE rappresenta il 45% delle esportazioni del Regno Unito. Una uscita della Gran Bretagna dalla UE significa la rinegoziazione dell'accesso al mercato unico, in condizioni presumibilmente più difficili.

Per ragioni di classe complementari, la permanenza della Gran Bretagna nel Regno Unito era la speranza del grosso del capitalismo mondiale, delle grandi borghesie europee e dei loro governi nazionali, interessati ad evitare sia i contraccolpi economici della Brexit sul mercato finanziario, in una situazione già critica; sia un nuovo possibile fattore di incoraggiamento delle spinte centrifughe nell'Unione. Ma era la speranza anche degli Stati Uniti, da sempre alleato storico privilegiato della Gran Bretagna. La permanenza del Regno Unito nell'Unione rispondeva a molteplici interessi USA: preservare la principale piattaforma finanziaria delle proprie multinazionali e banche sul mercato europeo; mantenere una propria sponda politica fidata all'interno della UE; favorire una tenuta dell'Unione quale fattore di contenimento della crisi capitalistica mondiale ed anche possibile alleata ai fini del controbilanciamento della potenza cinese (accordi TTIP). Per tutte queste ragioni è indubbio che la vittoria della Brexit contraddice gli interessi dominanti del capitalismo internazionale. Il crollo delle borse di venerdì, proporzionale al loro investimento sulla permanenza nell'UE, è un primo metro di misura del contraccolpo subito.


BREXIT COME VITTORIA DEI LAVORATORI E DELLA DEMOCRAZIA?

Ma è perciò stesso la Brexit una vittoria dei lavoratori e della democrazia?
Colpisce il sostegno entusiasta alla Brexit di forze diverse della sinistra europea (e non solo). Come il tripudio ideologico per la sua "vittoria".

La campagna a favore della Brexit è stata ispirata e diretta dalle forze politiche più reazionarie del panorama inglese. Dallo UKIP xenofobo di Farage, alleato del M5S nel Parlamento europeo. Dai movimenti fascisti della Gran Bretagna. Dalle bande ostili a Cameron nel Partito Conservatore e nel governo stesso. Il tono ideologico della campagna è emblematico. Da un lato la campagna ossessiva contro i migranti: contro gli immigrati comunitari (inclusi i tanti giovani e lavoratori italiani emigrati) e la loro “pretesa” di diritti sociali; e tanto più contro i migranti extracomunitari e la loro presunta “invasione”, a partire dall'immagine simbolo dell'accampamento disperato di Calais, rappresentato come avamposto minaccioso della UE ai confini della patria. Dall'altro, la rivendicazione del peggiore sciovinismo all'insegna della nostalgia del vecchio impero britannico e della grande potenza inglese nel mondo. «Una grande potenza imperiale che potrebbe tornare a risorgere, se solo la gran Bretagna si liberasse della Unione Europea», ha testualmente annunciato Farage.

Anche settori della borghesia inglese si sono allineati al fronte della Brexit, a partire da un consistente settore delle Camere di commercio. Ai quali Boris Johnson si è così rivolto: «Noi potremo fare accordi con le economie emergenti del mondo intero, accordi che la UE è incapace di siglare a causa delle forze protezioniste europee. Liberiamoci delle catene dell'Unione.» (Le Monde). È la (improbabile) promessa al capitalismo britannico di un autonomo aggancio al mercato cinese aggirando l'Unione Europea e il suo contenzioso con la Cina. L'appello al libero mercato mondiale e alla sue umani sorti e progressive si combinava dunque col vezzo ideologico nazionalista, dentro un comune impasto reazionario.


UNA MINACCIA REAZIONARIA CONTRO I LAVORATORI

La vittoria di questo fronte reazionario è una minaccia per i lavoratori britannici e per il movimento operaio europeo.

Certo, un settore di classe lavoratrice e la maggioranza della popolazione povera delle periferie e delle campagne sono stati catturati dalle sirene della Brexit. La rabbia sociale accumulata dalla crisi capitalista e dalle politiche di austerità è stata dirottata con successo contro l'Unione Europea. Il ritorno mitologico alla “vecchia potenza inglese” è stato venduto come canale di riscatto sociale ed emancipazione. Ma si tratta di una cinica truffa, oggi rilanciata su scala continentale da tutti gli ambienti politici più reazionari d'Europa, a partire da Le Pen e Salvini.

Il capitalismo britannico e la sua sovrana sterlina non sono meno responsabili dell'Unione Europea per la miseria crescente dei lavoratori inglesi. Ben prima della UE, fu il governo - nazionalista - di Margaret Thatcher (quello che brandì la guerra all'Argentina sulle Malvinas) a realizzare il grande sfondamento liberista contro il movimento operaio (guerra ai minatori) e l'attacco frontale allo stato sociale. Blair e Cameron, nel quadro della UE (ma fuori dall'Euro), hanno amministrato la continuità devastante di quella politica, che Farage, già nelle vesti di deputato conservatore, e tanto più Boris Johnson, hanno fedelmente e attivamente sostenuto. Oggi proprio Boris Johnson, astro nascente della Brexit, si candida a gestire una nuova pesante stagione di austerità contro i lavoratori inglesi, e una stretta discriminatoria xenofoba contro gli immigrati. Naturalmente nel nome di "Britain First" e della guerra tra poveri. Presentare tutto questo, a sinistra, come "vittoria della democrazia" e come "esempio per i popoli europei" significa aver perso la testa.


CONTRO L'UNIONE EUROPEA, PER GLI STATI UNITI SOCIALISTI D'EUROPA

Siamo da sempre contro l'Unione Europea. Una Unione di stati capitalisti unicamente interessati a partecipare alla spartizione del mondo dopo il crollo dell'URSS, nel nuovo mercato globale. Per questo interessati a concertare le proprie politiche di rapina contro i propri lavoratori. Per la stessa ragione ci siamo sempre opposti e tanto più ci opponiamo oggi alle illusioni di una possibile UE “democratica e sociale”, portate avanti dai partiti di Sinistra Europea (Syriza, Rifondazione Comunista, Izquierda Unida, Die Linke, PCF...). Partiti che si sono ciclicamente compromessi nei diversi governi borghesi dell'Unione Europea gestendo le stesse politiche di austerità e di rapina che dall'opposizione dicevano di combattere. La capitolazione di Tsipras alla troika è solo l'ultimo esempio del fallimento del riformismo europeista.

Ma la lotta contro l'Unione Europea può procedere da opposti versanti, politici e di classe, e mirare ad opposte prospettive.

Può procedere dal versante dell'opposizione di classe del movimento operaio, a difesa delle proprie ragioni e diritti sociali. Come ha mostrato la lunga ascesa del movimento di massa in Grecia contro la troika prima del tradimento di Syriza. Come mostra oggi la mobilitazione di massa prolungata ancora in corso in Francia contro la Loi Travail del governo Hollande. Questa è la dinamica di lotta che ha valore progressivo, che può unire gli sfruttati, che può ricomporre attorno alla classe operaia un blocco sociale anticapitalista, che può alimentare una solidarietà di classe internazionale tra i lavoratori d'Europa. La proposta di una Europa socialista, nella forma degli Stati Uniti socialisti d'Europa, è l'unica proposta strategica capace di dare una prospettiva storica a questa dinamica di lotta. L'unica che può indicare un'alternativa reale all'Unione Europea del capitale, nell'interesse dei lavoratori.

La lotta contro l'Unione Europea e contro l'Euro oggi indicata dalla Brexit, e promossa dai Farage, Le Pen, Salvini, è non solo diversa, ma esattamente opposta. È la lotta che mira a far leva sulla crisi capitalista, e sulla mancata risposta del movimento operaio alla crisi, per costruire uno sbocco reazionario, in ogni paese e su scala continentale. All'insegna della continuità delle politiche di rapina, e di un nuovo drammatico appesantimento dell'offensiva dominante contro i diritti sociali, sindacali, democratici del movimento operaio europeo e di tutti gli oppressi.

Ogni subordinazione a questa dinamica reazionaria va apertamente denunciata e combattuta, tra le fila dei lavoratori, tra i giovani, in ogni organizzazione sindacale e di massa.

Partito Comunista dei Lavoratori

venerdì 24 giugno 2016

Milano in Comune con Sala: dalla sinistra di Basilio Rizzo la spinta decisiva al "compagno" Beppe.



E alla fine è arrivato il canto di Basilio Rizzo che a due giorni dalle elezioni ha dichiarato il suo voto al manager Sala. La sinistra milanese getta quindi la maschera e si dimostra sempre prona e piena di riguardo nei confronti di chi difende gli interessi della Milano degli speculatori e degli affaristi.

Finito il primo turno di voto finisce anche la farsa della sinistra di alternativa a Sala e alla Milano dei manager. Dietro la maschera della finta alternativa si svela la vera natura della solita sinistra opportunista, una sinistra che per cinque anni ha sostenuto la giunta arancione di Pisapia, giunta che si è mossa in continuità rispetto alle giunte che l'hanno preceduta in termini di privatizzazioni, sgomberi, gestione del territorio. Fino ad arrivare a Expo, mega fiera del malaffare che ha visto tanti speculatori arricchirsi sulle spalle dei cittadini, dei lavoratori e di quei giovani che per Expo hanno prestato lavoro gratuito travestito da volontariato.


Questa è la sinistra di Milano in Comune, l'ultima sigla nella quale si sono imboscati i vari partiti di quello che rimane della sinistra riformista ( Rifondazione comunista e dintorni). La stessa sinistra che negli ultimi anni si è imboscata sotto varie vesti in diverse accozzaglie, da quelle arcobaleno a quelle guidate dal condottiero Ingroia. Fino ad arrivare alla lista Tsipras, il primo ministro che in Grecia sta portando avanti il programma di massacro sociale voluto dalla Troika.


Insomma non c'è di che stupirsi. Il ruolo che giocano questi figuri è da sempre quello degli opportunisti, pronti a svendere gli interessi dei lavoratori e degli sfruttati per qualche poltrona o favore di comodo.
Contro questa sinistra, nemica giurata dei lavoratori,c'è bisogno della costruzione di un'altra sinistra, di una sinistra che non tradisce.Di una sinistra che sa da che parte stare e non stare. Di una sinistra che anche a Milano si esprime con chiarezza contro la Milano dei manager, contro la Milano degli speculatori e degli affaristi.


Questa è l'unica sinistra di cui i lavoratori e gli sfruttati hanno bisogno.
Questa è la sinistra che il nostro partito pazientemente e controcorrente si impegna a costruire ogni giorno.

Pcl sezione di Milano

martedì 21 giugno 2016

CENTO ANNI - MARCO FERRANDO

Storia e attualità della rivoluzione comunista

Nel 2017 l’orologio della Storia segnerà, con la forza propria degli anniversari, un passaggio epocale. Nel mese di Ottobre, infatti, sarà passato un secolo da quando, nello sterminato ex impero zarista, un’incredibile forza popolare riuscì a trasformare in realtà quella che sembrava un’impresa impossibile: prendere il Palazzo d’Inverno e portare così a compimento il sogno di una rivoluzione comunista.
Nel secolo trascorso da quel momento, tutto sembra cambiato, fuorché la necessità delle masse di tornare a recitare un ruolo di primo piano sul palcoscenico degli eventi mondiali, rovesciando il capitalismo, che tra disastri ecologici e guerre sanguinose sta riversando la propria crisi sulle condizioni dell’umanità e minaccia di trascinarla verso nuove catastrofi.
Interrogando i cento anni che separano l’oggi dai fatti del 1917, Marco Ferrando indaga il cammino e l’evoluzione della lotta di classe, riflettendo sulle sue conquiste come sulle sue sconfitte all’interno di un libro unico nel suo genere: una storia sociale e politica completamente dedicata al movimento dei lavoratori di tutto il mondo che, malgrado il trascorrere del tempo, continua a non avere nulla da perdere. A parte, s’intende, le proprie catene (in collaborazione con il Partito Comunista dei Lavoratori).

MARCO FERRANDO – professore di filosofia impegnato da sempre all’interno del movimento dei lavoratori, Marco Ferrando è nato a Genova nel 1954. Dal 2008, anno della sua fondazione, è portavoce del Partito Comunista dei Lavoratori

lunedì 13 giugno 2016

COMUNICATO STAMPA

Contro la Milano dei manager. Il Partito Comunista dei Lavoratori ribadisce quello che ha già espresso a chiare lettere durante la campagna elettorale: nessuna preferenza tra i due candidati manager Sala e Parisi. I lavoratori, i pensionati, i disoccupati e gli sfruttati della nostra città nulla hanno da guadagnare dall'uno e dall'altro aspirante sindaco. In questi giorni si alzano gli appelli e i cori della banda Sala al popolo della sinistra per non far tornare la città in mano alla destra. Appelli e cori pietosi a sostegno di una contrapposizione fasulla. Sala è l'uomo Expo, fiera del malaffare e dello sfruttamento del lavoro gratuito. Sala è l'uomo scelto da Renzi, oggi a capo del Pd e di un governo antipopolare e reazionario con ambizioni autoritarie, un governo che dalla sua nascita sta attaccando sistematicamente i lavoratori e lo stato sociale. Di quale sinistra stiamo parlando? Di quale contrapposizione sinistra destra si blatera? Non diamo alcuno spazio a tentennamenti che non riconoscerebbero il sentimento di opposizione espresso dal voto a sinistra della coalizione per Sala. Saremo invece presenti in tutte le lotte che si esprimeranno in città contro il governo del capitale, contro la Milano dei manager e degli affaristi, per una Milano dei lavoratori. Partito Comunista dei Lavoratori Sezione di Milano

mercoledì 8 giugno 2016

Il segno politico delle elezioni del 5 giugno



Mentre Renzi ha esaurito la spinta propulsiva e vede il suo spazio di manovra restringersi, il M5S cresce sulle macerie della destra e sul non sfondamento del lepenismo di Salvini. La crisi della sinistra riformista è aggravata.

Le elezioni comunali del 5 giugno sono un passaggio importante dello scenario politico generale. Il quadro complessivo è molto frastagliato, e il risultato dei ballottaggi del 19 giugno sarà molto importante per valutare il segno politico complessivo della prova elettorale. Tuttavia già il primo turno fornisce indicazioni chiare di tendenza.


LA CRISI DEL RENZISMO

Il PD registra una perdita consistente di voti, sia in assoluto, sia in percentuale, in larga parte d'Italia (210.000 voti in meno nei ventiquattro capoluoghi) con una flessione più accentuata nelle periferie metropolitane e nel Mezzogiorno. Il renzismo ha esaurito da tempo la spinta propulsiva di quel populismo sociale di governo (gli 80 euro) che ne aveva accompagnato la scalata nelle elezioni europee del 2014 (41%). Già le elezioni regionali di un anno fa registravano la dispersione del bottino. Le elezioni comunali del 5 giugno confermano il dato. Il progetto del partito della nazione è al palo.

Ciò non significa che quel progetto sia sconfitto e tanto meno archiviato. Al contrario. La prospettiva del referendum istituzionale di ottobre, e la ricerca dell'incoronazione plebiscitaria del Capo, riflettono la volontà di rilancio del richiamo populista sul terreno politico e istituzionale. Ma il populismo politico ( «mando a casa un politico su tre», «riduco lo stipendio ai senatori»…) fatica a nutrirsi del populismo “sociale”. Renzi moltiplica, da buon imbonitore, annunci e promesse di regalie sociali in vista della prossima Legge di stabilità (riduzione Irpef, 80 euro alle pensioni minime, flessibilizzazione delle uscite pensionistiche, abolizione del bollo auto e tanto altro). Ma la crisi capitalista, i limiti della ripresa, il quadro negoziale complesso in sede UE, restringono pesantemente lo spazio di manovra delle politiche di bilancio. Molte promesse sono destinate a restare tali, con un possibile effetto boomerang. La ragione dell'anticipo del referendum istituzionale al 2 ottobre sta anche qui: la volontà di anticipare non solo il responso della Consulta sulla legge elettorale prevista per il 4 ottobre, ma anche la presentazione della Legge di stabilità. È la confessione di una paura, che i risultati del 5 giugno non possono che accrescere.

Inoltre proprio quei risultati aggiungono un ulteriore elemento di incertezza. Il successo politico del M5S, il suo possibile configurarsi come il principale candidato al ballottaggio contro Renzi alle future elezioni politiche, esaltano il difetto di sistema della legge elettorale inventata da Renzi. In un quadro tripolare come l'attuale, un M5S al ballottaggio diventa temibilissimo per il PD per la sua maggiore capacità di attrazione elettorale trasversale. (Da questo punto di vista sarà interessante il ballottaggio di Torino, ancor più di Roma.) Una legge elettorale concepita a misura di un "Renzi al 41%" rischia di trasformarsi in un cappio al collo per un Renzi al 30%.
È un elemento di preoccupazione per la borghesia italiana. Renzi si è presentato ai suoi occhi, e agli occhi del capitale finanziario europeo, come l'argine vincente contro il populismo di opposizione. Anche per questo la borghesia ha investito su Renzi. Per la stessa ragione, un cedimento dell'argine PD contro i 5 Stelle investirebbe come un ciclone le relazioni di potere del renzismo.


LA CRISI POLITICA DEL CENTRODESTRA

Il centrodestra aggrava la propria crisi politica. La competizione interna tra Forza Italia e il blocco lepenista lo ha frantumato in diverse città, a partire da Roma e Torino. Al tempo stesso non ha prodotto un vincitore. Il tramonto di Berlusconi prosegue, assieme al declino elettorale di Forza Italia. Ma il boom del salvinismo si è esaurito nello stesso centro-nord (Milano), e la speranza di Salvini di “nazionalizzare” la Lega attraverso una espansione a Roma e nel Sud è ad oggi fallita. Mentre l'alleato del blocco lepenista (FdI di Meloni), rafforzatosi a Roma e presente nel Sud, resta debolissimo al Nord. La crisi manifesta dell'egemonia berlusconiana non è dunque rimpiazzata da un'egemonia alternativa.

Tuttavia, se la crisi politica del centrodestra si aggrava, il suo blocco sociale ed elettorale tiene. Il renzismo non è riuscito ad aprire brecce significative in quel mondo, nonostante i suoi sforzi. Il tentativo di usare (anche) Verdini per aprire quella cassaforte elettorale è fallita (Napoli, Cosenza). I dati elettorali di Milano, e in termini aggregati di Roma, mostrano la forza perdurante del blocco sociale ed elettorale del centrodestra, al di là della sua crisi di direzione politica o della sua frantumazione.
Proprio questo fatto tiene aperto lo spazio in prospettiva di una ricomposizione della coalizione attorno ad un nuovo equilibrio, non facile ma possibile. Se questa ricomposizione si realizzerà, il centrodestra può tornare ad essere assolutamente competitivo.

L'esito del referendum istituzionale di ottobre non sarà indifferente per la sorte del centrodestra. Un'eventuale vittoria del Sì potrebbe favorire una scissione di Forza Italia in direzione di una ricomposizione con Renzi, passando per la riaggregazione con il centro di Alfano-Casini-Verdini (un partito di centro che si presenta autonomamente al voto, punta a passare la soglia di sbarramento del 3% prevista dall'Italicum, e poi si allea al governo con un PD vincente). Una eventuale vittoria del No, che innescherebbe un terremoto politico, indurrebbe Berlusconi a rilanciare la proposta di un governo di unità nazionale, con l'intento di spaccare il PD e rilanciare una propria centralità. Ciò che aprirebbe nuove contraddizioni con la Lega. In entrambi i casi si preannuncia una fase prolungata di instabilità politica all'interno del centrodestra.


IL SUCCESSO DEL M5S

Il M5S è il vincitore politico delle elezioni del 5 giugno.
Dal punto di vista elettorale i risultati del M5S sono in realtà molto disomogenei. Combinano grandi affermazioni (Roma e Torino), stagnazioni rispetto alle politiche 2013, vistose marginalità e persino crolli. Assieme ad una assenza da molte competizioni locali, legata a contrasti locali esplosivi e irrisolti. Tuttavia, la portata della grande vittoria riportata a Roma, e la forte affermazione conosciuta a Torino, con la seria probabilità (Roma) o possibilità (Torino) di una clamorosa vittoria ai ballottaggi, hanno consegnato al M5S l'immagine nazionale del vincitore politico. Come di fatto è stato. Con ulteriori possibili effetti moltiplicatori.

Il M5S capitalizza diversi elementi della situazione politica, tra loro connessi: l'appannamento del renzismo, la frantumazione del centrodestra, la crisi perdurante della sinistra politica, sullo sfondo della crisi sociale e dell'arretramento della lotta di classe. La prima analisi dei flussi elettorali mostra non a caso che a Roma e Torino il M5S ha polarizzato elettori di ogni provenienza. Un forte travaso diretto da elettorato PD “antirenziano”, un travaso da elettorato reazionario spinto dalla frantumazione del centrodestra a votare M5S (come voto utile anti-Renzi), un travaso dall'elettorato di sinistra in crisi di rappresentanza e riferimenti. Oltre ad un recupero, a Roma, sul bacino tradizionale dell'astensione.
In termini sociali, il M5S ha fatto il pieno a Roma e Torino del voto degli operai, dei disoccupati, dei giovani. Costruendo attorno a sé un blocco popolare a egemonia piccolo-borghese reazionaria, come ogni movimento reazionario di massa. In un quadro di crisi sociale dove milioni di lavoratori sono stati abbandonati a loro stessi dalla sinistra politica e sindacale, e condannati ad una disperata solitudine, milioni di operai assumono a riferimento elettorale un soggetto politico estraneo alle ragioni del lavoro, nemico del sindacato in quanto tale, segnato da una cultura plebiscitaria. È effetto e misura della regressione del movimento operaio.
Il M5S conferma e consolida una propria presenza nazionale, da Nord a Sud (a differenza della Lega), e una riuscita parziale “degrillizzazione” del proprio profilo d'immagine (non della sua realtà): attraverso l'affermazione di nuove giovani figure pubbliche (Di Maio, Di Battista), di ampia riconoscibilità di massa, quali costruttori di consenso. Una risorsa preziosa, sul terreno populista, contro il giovanilismo di Renzi.
Un consolidamento dell'immagine nazionale del M5S quale “vero avversario di Renzi” rappresenterebbe non solo, per le ragioni dette, un problema per Renzi (trasversalità elettorale del M5S in un ballottaggio politico nazionale), ma anche per la Lega e il blocco lepenista. Che già oggi si trovano a fronteggiare una concorrenza diretta sul loro stesso terreno populista, tanto più temibile nel quadro della frantumazione del centrodestra.


LA SINISTRA AL PALO

Le elezioni del 5 giugno, come già le precedenti elezioni regionali, fotografano e aggravano la crisi della sinistra politica riformista. Con l'eccezione parziale di Bologna, i candidati e le liste di Sinistra Italiana - o in ogni caso di coalizioni comunque nominate della sinistra riformista - registrano addirittura un arretramento rispetto ai voti riportati dalle liste Tspiras nelle elezioni europee del 2014 (o rispetto al voto riportato dalle liste di sinistra nelle successive elezioni regionali). Ciò è in particolare avvenuto proprio a Roma, Torino, Milano, nelle competizioni elettorali maggiormente cariche di valenza politica e in presenza di candidati a sindaco di sicura riconoscibilità nazionale (Fassina a Roma, Airaudo a Torino) o locale (Basilio Rizzo a Milano).
Il processo costituente del nuovo soggetto della sinistra italiana è dunque ulteriormente zavorrato dal voto. Persistono tutti i fattori che ostacolano il suo decollo elettorale: non solo il peso delle disfatte passate e delle relative responsabilità politiche (di cui nessuno ha tratto bilancio e conseguenze), ma l'assenza di un progetto nazionale dotato di una ragione sociale decifrabile, l'assenza di una leadership nazionale riconoscibile a livello popolare, la crisi dei livelli di mobilitazione sociale e di lotta di classe cui quella stessa sinistra (politica e sindacale) concorre. In questo quadro, il rafforzamento del M5S, anche come soggetto attrattivo dell'elettorato in uscita dal PD, oltre a rappresentare uno degli effetti della crisi della sinistra concorre ulteriormente ad aggravarla, perché restringe il suo spazio politico.
A ciò si aggiungono i nodi politici irrisolti di Sinistra Italiana attorno al proprio rapporto col PD, come si vede nello stesso posizionamento ai ballottaggi (Fassina è contro l'indicazione di voto a Giacchetti, Airaudo ha teorizzato il sostegno “da croce rossa” a Fassino), contraddizioni che percorrono verticalmente SEL sul piano nazionale, e che l'esito del voto obiettivamente approfondisce. Mentre ciò che resta di Rifondazione Comunista, attorno all'ex ministro Paolo Ferrero, ha scelto di imboscarsi senza eccezione nelle liste civiche “progressiste” di Sinistra Italiana, compromettendosi nel loro pasticcio e cancellando ogni propria presenza elettorale riconoscibile. Gli stessi gruppi dirigenti della sinistra italiana che hanno organizzato negli anni la sua disfatta si mostrano incapaci, per le stesse ragioni, di promuoverne il rilancio.


IL VOTO PER IL PCL

Il PCL ha scelto di presentarsi ovunque possibile alle elezioni comunali, come in ogni competizione elettorale. Non per una ragione elettoralista, e tanto meno per una illusione istituzionale, ma per la ragione esattamente opposta: usare la tribuna elettorale per presentare un programma comunista e rivoluzionario ai lavoratori e a tutti gli sfruttati. Contrastare la propaganda borghese, denunciare le mistificazioni populiste, costruire coscienza politica di classe e anticapitalistica. Un compito tanto più importante in un quadro di arretramento diffuso della coscienza politica dei lavoratori.

Naturalmente siamo sempre ben consapevoli delle difficoltà proprie del terreno elettorale.
Sullo sfondo di una situazione politica generale complessivamente negativa (crisi della mobilitazione sociale, arretramento dei livelli di coscienza della classe, crisi cronicizzata della sinistra politica sotto il peso dei disastri prodotti dai suoi gruppi dirigenti, politici e sindacali) e sulla base dei rapporti di forza reali con i soggetti concorrenti, prima e durante la campagna elettorale (in ordine agli spazi reali della comunicazione pubblica, alle risorse disponibili...), la presenza elettorale di un piccolo partito, comunista e rivoluzionario, non può che marciare controcorrente. Ma rinunciare ad usare la tribuna elettorale per presentare un programma comunista in ragione delle difficili condizioni sarebbe ben poco comunista. I comunisti non si nascondono mai, anche nelle situazioni più sfavorevoli. Ma lottano sempre su ogni terreno, anche su quello elettorale, per sviluppare la coscienza dei lavoratori. È l'insegnamento della tradizione leninista.

Il PCL è riuscito a presentare proprie liste a Torino, Milano, Bologna, Napoli, Savona, e in alcuni centri minori (Portofino, Trecate, Oderzo, Triggiano), con un lavoro ammirevole dei nostri militanti, cui va il ringraziamento di tutto il partito. I risultati elettorali sono tra loro difformi. Certo modesti, com'è inevitabile nelle condizioni date, ma complessivamente non negativi.

Negativo il risultato di Napoli, che segna un arretramento rispetto al risultato riportato dal PCL nel 2011. L'atipico fenomeno populista “peronista” di De Magistris, che ha caricato sul proprio carro elettorale l'intera sinistra partenopea (da SEL ai CARC) assieme a liste massoniche, ex candidati di Forza Italia, settori neoborbonici, trasformismi clientelari di varia natura - ha coinvolto ambienti sociali e popolari di estrema sinistra e di movimento (centri sociali) alla ricerca di favori istituzionali. Tutto ciò ha limitato lo spazio di consenso del PCL. A ciò si è aggiunta la concorrenza del PC stalinista di Marco Rizzo. Oltre a quasi due settimane di campagna elettorale (e spazi mediatici) in meno, a causa dell'iniziale respingimento delle nostre liste, un abuso intollerabile. L'arretramento subito è la risultante di tutti questi fattori. E tuttavia il nostro partito a Napoli è orgoglioso della campagna di verità condotta contro il peronismo trasformista, per l'indipendenza di classe degli sfruttati. Altri hanno capitolato a De Magistris. Noi no. Anche per questo abbiamo le carte in regola, con una riconoscibilità in ogni caso accresciuta, per costruire l'opposizione di classe al peronismo cittadino.

Negativo il risultato a Torino, dove il PCL ha confermato in voti e percentuale il risultato del 2011. E dove la presenza del PC di Marco Rizzo - sicuramente maggiore della nostra nella città natale e che lo ha visto segretario del PRC di massa nei primi anni '90, consigliere comunale, deputato per due legislature, deputato europeo - ha bloccato le potenzialità di crescita elettorale del PCL attorno alla positiva candidatura di Alessio Ariotto. Anch'esso peraltro penalizzato da una settimana di campagna elettorale abusivamente sottratta dalla contestazione della lista. Anche in questo caso la nostra sezione, sempre presente nelle lotte operaie della città, a partire dalla FIAT, si impegnerà in tutte le lotte di opposizione alla futura giunta cittadina. Sia essa a guida Fassino, in rappresentanza dei poteri forti della città, sia essa a guida della bocconiana pentastellata Appendino, alfiere della media impresa di cui è diretta espressione, estranea alle ragioni sociali degli operai che la votano. Un M5S torinese, oltretutto, particolarmente intriso di presenze reazionarie e xenofobe (Bertola) che il PCL, spesso da solo a sinistra, ha coerentemente denunciato.

Positivo invece il risultato riportato dal nostro partito a Milano, che accresce considerevolmente voti e percentuali (particolarmente negative) del 2011, e registra il dato migliore sinora riportato dal PCL in città, a ridosso di una campagna elettorale molto attiva che ha trascinato un salto di riconoscibilità pubblica del partito. Nel 2011 il PCL milanese aveva pagato elettoralmente il fatto di essersi presentato al primo turno - unico partito a sinistra - contro l'astro nascente Pisapia, che allora tutta la sinistra a partire dal PRC assumeva ad icona religiosa del cambiamento. Oggi il PCL capitalizza a Milano proprio il coraggio e la coerenza mostrata allora, a fronte di una giunta arancione che ha fatto, come avevamo previsto, il comitato d'affari di Expo e della borghesia cittadina.
Molto positivi inoltre i risultati del PCL a Bologna e Savona, dove il PCL supera nettamente in voti e percentuali ogni risultato precedente, travalicando la soglia dell'1% (1,3% a Bologna, 1,2% a Savona). Un risultato in particolare molto significativo a Bologna, perché accompagnato dallo sviluppo di nuove relazioni con ambienti sindacali classisti (SGB) e dalla marcata polarizzazione dell'elettorato di Rifondazione. Un risultato ugualmente positivo a Savona, dove si accompagna allo sviluppo del partito in città, tra i lavoratori (Tirreno Power) e gli studenti. Sia a Bologna che a Savona il nostro partito ha capitalizzato la coerenza della propria opposizione alle giunte locali di centrosinistra, a fronte della compromissione storica decennale delle cosiddette sinistre radicali. Oggi, in entrambi i casi, in fase di dissoluzione

Infine sono moderatamente positivi i risultati riportati dal PCL nei centri minori: 0,70 a Trecate nel novarese; 0,72% a Oderzo (dove in terra leghista superiamo con una candidatura operaia voti e percentuale della lista di SEL e Rifondazione); 0,84% a Triggiano (dove la sezione PCL, da poco costituita, ha presentato il candidato sindaco più giovane d'Italia, che ha raggruppato attorno a sé un'area di studenti); oltre il 3% a Portofino (dove la nostra sezione del Tigullio ha fatto una campagna di denuncia antiborghese di forte impatto mediatico locale mancando l'eletto per un solo voto).

Il PC di Rizzo, là dove presente (Torino, Napoli, Roma) ha potuto mettere a frutto la relativa continuità dell'esposizione mediatica del suo leader (coi relativi effetti di "legittimazione" e riconoscibilità) che a noi oggi è negata. Ed anche un volume di risorse finanziarie incomparabilmente maggiore da investire nelle campagne elettorali (ad esempio in spot e manifesti). Tuttavia proprio per questo il risultato riportato da Rizzo a Torino (0,8%) è una clamorosa sconfitta politica. Che smentisce brutalmente la grande aspettativa (politica e personale) alimentata dal capo nel proprio ambiente, e sgonfia la bolla d'immagine creata. Quella di un “partito comunista” presente in TV ma privo di reali radici nel mondo del lavoro e nei sindacati di classe; che si presenta classista e anticapitalista nel proprio frasario solo per far dimenticare il voto favorevole di Marco Rizzo ai bombardamenti di D'Alema su Belgrado (1999), alla precarizzazione del lavoro (Pacchetto Treu, 1997) e alle privatizzazioni di Prodi. Crimini politici che hanno sempre convissuto felicemente col culto ideologico di Stalin e del regime dinastico nordcoreano, fondato sulla schiavitù degli operai.

Il PCL - l'unico partito della sinistra a non aver mai tradito gli operai - è ora impegnato a investire la campagna elettorale condotta nel processo della propria costruzione, la costruzione controcorrente di una sinistra classista e rivoluzionaria. Nelle diverse situazioni coinvolte dal voto, le nostre sezioni sono impegnate a promuovere, oltre a un bilancio della campagna condotta e ad un'analisi attenta del voto ottenuto, un'azione di capitalizzazione politica e organizzativa di quanto si è seminato (contatti, nuove relazioni d'ambiente, salto di riconoscibilità pubblica tra i lavoratori e i giovani). Un patrimonio, maggiore o minore, da investire nel radicamento sociale del partito, a partire dalla classe lavoratrice, e dalle sue lotte di ogni giorno.


Partito Comunista dei Lavoratori