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martedì 29 marzo 2016

IL PCL E I REFERENDUM I NOSTRI SI. IL NOSTRO NO. LA NOSTRA PROPOSTA CLASSISTA E ANTICAPITALISTA



Siamo alla vigilia di una intensa stagione referendaria.

Non idolatriamo il referendum. Non pensiamo possa sostituire la mobilitazione e la lotta di massa. Ma non siamo certo indifferenti alla natura concreta dei referendum e al loro esito. Per questo ci schieriamo senza riserve a sostegno dei referendum che abbiano un carattere progressivo e di contraddizione rispetto alle politiche e agli interessi dominanti. E' il caso dei referendum annunciati di questa primavera.


IL NOSTRO SI AI REFERENDUM SOCIALI E AMBIENTALI

Ci schieriamo innanzitutto a favore del SI nel referendum del 17 Aprile, nel quadro della continuità della lotta contro “Lo Sblocca Italia” e contro gli interessi delle grandi multinazionali petrolifere e estrattive. Il governo punta apertamente al suo fallimento, a partire dalla data prescelta e dalla indicazione di astensione. Il suo terrore è una vittoria del SI come nel 2011 sull'acqua pubblica. E' una buona ragione per batterci come allora a favore del SI.
Ci schieriamo a sostegno della richiesta referendaria contro la cosiddetta “Buona Scuola”, in continuità con le ragioni della grande mobilitazione di un anno fa: contro i super poteri dei dirigenti scolastici, il potenziamento dei finanziamenti privati alla scuola, la subordinazione della scuola al mercato e al profitto d'impresa. Un anno fa il governo Renzi inciampò sulla scuola. Si tratta di procurargli un nuovo inciampo.
Ci schieriamo a sostegno della richiesta referendaria sui temi del lavoro in continuità con la lotta di milioni di lavoratori contro il governo Renzi: per il ripristino dell'articolo 18 , contro la liberalizzazione degli appalti, contro la super precarizzazione dei voucher, per i diritti generali del lavoro. Renzi ha fatto del cavalcamento dell'offensiva padronale contro il lavoro, a partire dalla Fiat, l'asse della propria politica. La richiesta referendaria si contrappone di fatto al cuore stesso del renzismo.
In conclusione: ci schieriamo a sostegno di tutti i referendum sociali e ambientali che abbiano una connessione, diretta o indiretta, con le ragioni della classe lavoratrice e con le domande progressive di democrazia.
Per questo su ognuno di questi terreni il PCL e le sue strutture di partito aderiscono, ai vari livelli, ai relativi comitati referendari, partecipano alla raccolta delle firme, si impegnano nelle forme possibili al successo dell'iniziativa referendaria: per il SI all'abrogazione delle leggi anti operaie, anti sindacali, anti ambientali.


IL NOSTRO NO ALLA RIFORMA ISTITUZIONALE DI RENZI

Parallelamente sosteniamo le ragioni dei referendum richiesti e previsti in materia istituzionale.
Si tratta della richiesta referendaria di abrogazione della nuova legge elettorale varata da Renzi ( Italicum) e del progetto di Riforma costituzionale Renzi/Boschi cui si collega: un progetto bonapartista che consegna ad una minima maggioranza relativa il pieno controllo del processo legislativo, del Parlamento e quindi dell'insieme delle cariche istituzionali. Un progetto che incarna il senso stesso del renzismo: la vocazione dell'uomo solo al comando come nuovo paradigma delle relazioni sociali ed istituzionali nei diversi ambiti della vita pubblica: nello Stato, nell'azienda, nella scuola. Renzi intende fare del referendum istituzionale annunciato per il prossimo ottobre il momento di legittimazione della propria politica di questi anni (Job Act, Buona Scuola, tagli alla Sanità e ai servizi) e, al tempo stesso, di incoronazione plebiscitaria del proprio potere al servizio di quella politica. Non è un caso se Confindustria, l'Associazione delle Banche Italiane ( ABI), tutte le organizzazioni e consorterie della borghesia italiana, appoggiano apertamente il progetto istituzionale di Renzi: vedono nel suo possibile successo una compiuta traduzione istituzionale del proprio dominio sociale. E perciò stesso un ulteriore strumento di rafforzamento dei propri interessi e dei piani di aggressione contro il lavoro. Per questa stessa ragione è interesse di tutti i lavoratori la vittoria del NO al progetto istituzionale di Renzi. In continuità con le ragioni dell'opposizione sociale alle sue politiche.
Il PCL ha dunque aderito nazionalmente al Comitato del No alla Riforma Boschi e sostiene la domanda di referendum per il SI all'abrogazione dell'Italicum. Contro ogni posizione di indifferenza, presente anche in alcuni ambienti della sinistra, verso questa battaglia democratica elementare.


PER IL RILANCIO DELLA MOBILITAZIONE DI MASSA E DI CLASSE

Il nostro impegno unitario sul fronte referendario si accompagna però ad una caratterizzazione autonoma di impostazione politica. Un'impostazione classista e apertamente anticapitalista.

Parliamoci chiaro. Le stesse direzioni politiche e sindacali della sinistra italiana che oggi promuovono i referendum hanno contribuito in modo decisivo a che si arrivasse alla scadenza referendaria nelle condizioni peggiori. Il movimento di lotta contro il Job Act dell'autunno 2014 è stato prima disarmato e poi condotto su un binario morto. La grande mobilitazione di massa contro la “Buona Scuola”della primavera del 2015 è stata privata della necessaria continuità e largamente dispersa. L'ultima Legge di Stabilità del governo, che colpisce frontalmente la sanità pubblica, è passata senza un'ora di sciopero dei principali sindacati. Da un anno la mobilitazione sociale è di fatto silenziata, a tutto vantaggio del renzismo, ma anche dei populismi reazionari concorrenti ( Salvini e Casaleggio). La stessa stagione referendaria è stata concepita come surrogato della lotta di massa . In queste condizioni anche il risultato dei referendum è a forte rischio. E una sconfitta referendaria, in particolare sui temi della riforma istituzionale e del lavoro, avrebbe a sua volta una ulteriore pesante ricaduta sullo scenario generale .

E' dunque necessario rilanciare la mobilitazione generale di massa, a partire dalla centralità del lavoro. Contro il blocco inaccettabile dei contratti pubblici da ormai sette anni. Contro la pretesa confindustriale di subordinare il rinnovo dei contratti a nuovi peggioramenti delle condizioni del lavoro e dei diritti. Per la ricomposizione di una piattaforma generale di svolta che possa unire milioni di lavoratori, di precari, di disoccupati in una lotta di massa risoluta. Tanto radicale quanto lo è l'attacco di padronato e governo. Non dimentichiamolo: in tutta la storia italiana le grandi vittorie democratiche, anche quelle referendarie, sono state la risultante della mobilitazione del movimento operaio. Pensiamo al divorzio e all'aborto. Senza movimento di lotta dei lavoratori, si va a sbattere anche sul piano della democrazia. Come dimostra la storia della “seconda Repubblica”.


PER UNA CAMPAGNA POLITICA CONTRO RENZI, SENZA AUTOCENSURE

La parola d'ordine della sconfitta e cacciata del governo Renzi va posta apertamente, senza autocensure e rimozioni.

La scelta del Comitato Nazionale del NO alla Riforma istituzionale di evitare la contrapposizione politica al governo Renzi e di confinare la campagna referendaria sul solo terreno giuridico costituzionale è una scelta potenzialmente suicida. Significa disarmare il carattere di massa della campagna. Subire passivamente la prevedibile campagna politica del renzismo ( “ vogliono impedire la modernizzazione dell'Italia a favore del caos, cancellando le mie magnifiche riforme...”). Favorire la capitalizzazione a destra dello stesso scontro referendario col governo, visto che nè Salvini nè M5S rimuoveranno certo le proprie ragioni politiche. La verità è che l'autocensura politica del Comitato del NO verso il renzismo serve solo a coprire l'imbarazzo della minoranza PD e la sua capitolazione a Renzi. Una resa che invece andrebbe chiamata e denunciata col suo proprio nome.

Il PCL non si subordina a questa scelta. La nostra campagna per il No alla riforma Boschi e per il SI alla cancellazione dell'Italicum è e sarà apertamente e dichiaratamente politica. E' parte della campagna di massa per la sconfitta politica del renzismo: il progetto politico più reazionario della storia repubblicana italiana. Per questo consideriamo grave che la CGIL, il principale sindacato dei lavoratori, continui a non pronunciarsi sul referendum istituzionale. Per questo chiediamo pubblicamente che tutte le organizzazioni del mondo del lavoro, a partire dalla CGIL, si pronuncino apertamente per il NO. Il NO alla riforma Boschi è il NO a Renzi: è il NO all'aggressione frontale ai lavoratori e ai sindacati. E' il NO alla distruzione della scuola pubblica e della sanità. Tutti i sindacati e le organizzazioni di massa che si sono pronunciati contro queste politiche hanno il dovere di pronunciarsi contro il governo che le ha realizzate e tanto più contro il suo incoronamento plebiscitario. Ogni ambiguità su questo terreno è inaccettabile.


PER UNA SOLUZIONE ANTICAPITALISTA, NON SOLO “DEMOCRATICA”

La nostra battaglia per la sconfitta del renzismo non muove solo da motivazioni costituzionali e democratiche. Muove da un progetto anticapitalista.

Certo, siamo a difesa di tutte le conquiste democratiche strappate dal movimento operaio contro ogni progetto reazionario teso a distruggerle. Per questa ragione abbiamo contrastato negli ultimi 20 anni la subordinazione delle sinistre italiane alla cosiddetta Seconda Repubblica. La subordinazione alla logica del maggioritario contro il principio elementare del proporzionale. La subordinazione alla governabilità del capitale contro il principio della rappresentanza del lavoro. Il renzismo è anche l'ultimo figlio di quella subordinazione disastrosa.

Ma non ci identifichiamo nella Costituzione del 1948. Non ne facciamo un feticcio. Non ne nascondiamo la natura storica borghese e compromissoria, a tutela della proprietà privata e del Concordato con la Chiesa. Ci battiamo per una Repubblica dei lavoratori, basata sulle loro strutture democratiche di massa, sulla loro organizzazione, sulla loro forza. Perchè solo una Repubblica dei lavoratori può realizzare l'autentica democrazia: rovesciando l'attuale dittatura di industriali, banchieri, Vaticano; e dando alla maggioranza della società il potere di decidere del proprio futuro. Portare questa prospettiva in ogni lotta è la ragione del Partito Comunista dei Lavoratori. Anche sul terreno di una battaglia referendaria.


Partito Comunista dei Lavoratori

lunedì 14 marzo 2016

BASE MILITARE DI GHEDI (BRESCIA) 12 MARZO 2016 CONTRO L’’IMPERIALISMO PER UN’’ALTERNATIVA SOCIALISTA




La guerra, nella Grande Crisi di questi anni, è una prospettiva del nostro quotidiano. Anzi, diverse guerre. Quelle tra poli imperialisti, per consolidare le proprie aree di influenza. Quelle tra potenze, per un proprio posto al sole. Quelle nazionaliste o religiose, per il proprio sviluppo capitalista disciplinando l’intera società dietro esercito (o milizia) e bandiera (croce, mezzaluna o altro che sia). Quelle democratiche, contro le proprie oppressioni dittatoriali. Ed anche quelle sociali, per garantirsi una sopravvivenza nelle barbarie di uno sviluppo (con enormi migrazioni), precipitato in una crisi di lunga durata. Per questo il PCL promuove e partecipa, con le proprie posizioni, a questa giornata contro la guerra. Contro un nuovo protagonismo imperialista in Libia, della NATO e anche del nostro paese. Esistono certamente contraddizioni: Renzi e Gentiloni proclamano cautela, un po’ per i rischi dell’avventura (invisa alla grande maggioranza della popolazione), un po’ per non avvantaggiare gli altri imperialismi, in primo luogo quello francese (a fronte al ruolo di primo attore che l’Italia ha oggi in Libia). Ma ovunque si ascolta il rullar dei tamburi, dall’Africa al Medioriente (compresa l’entrata in scena dell’attore Russo) Siamo in piazza quindi per l’urgenza delle cose. Perché non è solamente un intervento militare. Siamo di fronte al precipitare combinato di tensioni fra poli imperialisti, con guerre sociali, politiche, religiose e di potenza che fra loro si intrecciano e si imbastardiscono.

 PER QUESTO SOTTOLINEIAMO LE RADICI DI CLASSE DI QUESTE GUERRE.  In primo luogo, contro il nostro imperialismo: quello italiano. Il nostro coinvolgimento è diretto, non è solo subordinato ad altre influenze, è soprattutto al servizio dei nostri interessi, dell'ENI e del grande capitale. Per questo la mobilitazione contro la guerra non può essere una mobilitazione pacifista, interclassista, astratta dai concreti interessi che sorreggono questi interventi militari: per battersi contro questa guerra, bisogna costruire l’opposizione sociale e di classe contro governo e padronato. “Se vuoi la pace prepara la rivoluzione” diceva agli inizi del ‘900 Karl Liebknecht, il futuro compagno di lotta e di destino di Rosa Luxemburg  In secondo luogo, l'opposizione alla guerra ha per noi senso solo nella prospettiva dell’alternativa socialista, unica vera alternativa alla barbarie dell'imperialismo e del fondamentalismo reazionario. Per questo appoggiamo nei conflitti le forze classiste e rivoluzionarie, contro la partecipazione ad ampi fronti popolari o Comitati di Liberazione Nazionale interclassisti; per l’autodeterminazione dei popoli, ma contro alleanze nazionaliste con forze borghesi (in Siria come nell’Unione Europea). Questa sono le nostre ragioni e proposte. Però pensiamo che sia soprattutto necessario sviluppare un ampio fronte di mobilitazione, contro la guerra e contro tutti gli imperialismi o le politiche di potenza, al fianco delle masse oppresse e sfruttate della nazione araba, del Medio Oriente, di tutti i paesi coinvolti nei conflitti. La mobilitazione di oggi allora non deve concludersi qui, deve trovare forme e modalità per proseguire e soprattutto per allargarsi, costruendo un fronte unitario della sinistra politica e sociale. Per questo riteniamo utile la costruzione di comitati unitari attorno alla discriminante dell'opposizione alla guerra, nella diversità di analisi e posizioni, impegnati nell'organizzazione dell'iniziativa comune.



giovedì 10 marzo 2016

Solidarietà e sostegno alle delegate e ai delegati FIOM degli stabilimenti FCA al Sud contro un atto burocratico grave

COMUNICATO CONGIUNTO DI SINISTRA ANTICAPITALISTA -
PARTITO COMUNISTA DEI LAVORATORI



Sono ben note a tutti le condizioni di sfruttamento esistenti nelle fabbriche della FCA che Marchionne ha imposto alle lavoratrici e ai lavoratori: ritmi massacranti e turni di lavoro insopportabili, ricatti, autoritarismo e repressione da parte delle direzioni aziendali.
Così come sono conosciuti i tentativi del capo della Fiat di mettere fuori gioco e dalla fabbrica la Fiom : il sindacato che - pur evitando erroneamente la necessaria unificazione di lotta degli stabilimenti- a lungo ha cercato di opporsi a questa offensiva padronale per difendere sacrosanti diritti e condizioni di lavoro decenti.
In questo contesto la stessa Fiom aveva indetto negli stabilimenti della Fiat al Sud degli scioperi per contrastare queste durissime condizioni di lavoro a partire dalla lotta contro gli straordinari al sabato comandati in alternativa alle necessarie assunzioni che l’azienda si rifiuta di fare.
La direzione Fiom ha però rinunciato rapidamente a questo percorso di resistenza anche di fronte a scelte che hanno sempre più privilegiato una ricomposizione unitaria con la Fim e la Uilm, da sempre subalterne ai desiderata e alle richieste delle aziende.
Non poteva essere questa la scelta dei lavoratori e dei delegati della FIOM che subiscono gli effetti della politica Marchionne direttamente sulla loro pelle e che, in piena continuità con la storia stessa della Fiom e del sindacalismo di classe e in un rapporto di fiducia, di rappresentanza diretta dei lavoratori e di legittima autonomia sui luoghi di lavoro, hanno continuato a indire gli scioperi il sabato contro lo straordinario come RSA eletti (negli stabilimenti Fiat non è possibile il voto per le RSU), contrastando con successo l’azione della direzione Fiat. Ma questo fatto è considerato intollerabile dai capi della Fca.
I delegati della Fiom hanno anche partecipato a una forma di coordinamento tra delegati e lavoratori dei diversi stabilimenti, appartenenti a diversi sindacati, sulla base del principio fondamentale, necessario ed inalienabile dell’unità dei lavoratori e delle lavoratrici contro il padronato. Una scelta per altro pratica comune della Fiom e dei suoi delegati in diversi luoghi di lavoro.
Di fronte a questa capacità di iniziativa democratica e dal basso dei delegati e dei lavoratori i gruppi dirigenti della CGIL e della FIOM non hanno trovato di meglio che cercare di bloccare il percorso di lotta sanzionando i delegati interessati, con il pretesto di questo coordinamento intersindacale, come presunto atto di rottura con la Confederazione. Dapprima il Collegio Statutario della CGIL, senza sentire i lavoratori interessati, ha giudicato incompatibile la loro scelta con l’appartenenza alla Confederazione. Subito dopo il Comitato Centrale della Fiom, su indicazione e responsabilità del segretario Landini, con un atto che non ha precedenti, ha deliberato che questa sentenza non consentirebbe la presenza di queste compagne e compagni negli organismi di direzione della Federazione, e soprattutto che non possono più avere la possibilità di rappresentarla nei loro luoghi di lavoro. Si tratta di fatto di una minaccia di espulsione. A questi iscritti sono imposti solo i doveri e negati tutti i diritti, a partire da quello fondamentale per un militante sindacale, di organizzare la lotta dei lavoratori sulla base delle concrete condizioni presenti sul proprio luogo di lavoro.
E' un atto burocratico grave. E’ una decisione che, inimmaginabile fino a poco tempo fa, non fa certo onore alla Fiom e alla sua storia e che suona come campanello di allarme di un percorso profondamente errato verso una normalizzazione burocratica d’apparato già ben presente nella FIM e nella UILM.
Ad essere colpito è proprio quello che in fondo più di tutti la Fiat teme: la capacità e la possibilità di costruire la lotta nelle fabbriche coinvolgendo i lavoratori dal basso. E questo è tanto più grave perché è in corso un attacco senza precedenti al movimento dei lavoratori. L’azione congiunta tra governi e padroni, dopo aver distrutto i diritti e le tutele garantite dallo Statuto dei lavoratori, punta oggi direttamente a colpire lo stesso diritto di sciopero.
Ai lavoratori e ai delegati della Fiom colpiti da un’assurda e ingiusta sanzione va tutto il nostro sostegno e la nostra solidarietà. Ci impegniamo a intraprendere tutte le iniziative necessarie per difendere i loro diritti.
Chiediamo alla direzione della Fiom, e al suo segretario Maurizio Landini, di ritornare sui suoi passi e non procedere oltre in una strada profondamente sbagliata.
Chiediamo a tutte e tutti i lavoratori e ai militanti sindacali di partecipare e di sostenere una vasta campagna di solidarietà con i delegati Fiom delle FCA.
Chiediamo a tutte le forze politiche e sociali che oggi giustamente denunciano le derive antidemocratiche nel nostro paese, di partecipare anch’esse a questa campagna di solidarietà perché in discussione è la stessa capacità del movimento sindacale e dei lavoratori di ritrovare gli strumenti organizzativi e politici per reggere l’offensiva reazionaria che le forze della classe dominate hanno scatenato contro il movimento delle lavoratrici e dei lavoratori.

Sinistra Anticapitalista
Partito Comunista dei Lavoratori

sabato 5 marzo 2016

La giornata internazionale della donna è un importante data della lotta di classe

mimosa


La giornata internazionale della donna (comunemente definita, anche se in maniera impropria, festa della donna) ricorre l'8 marzo di ogni anno per ricordare sia le conquiste sociali, politiche ed economiche delle donne, sia le discriminazioni e le violenze cui esse sono ancora fatte oggetto in molte parti del mondo. 

Questa celebrazione si è tenuta per la prima volta negli Stati Uniti nel 1909, in alcuni paesi europei nel 1911 e in Italia nel 1922. 

Il «Woman's Day» negli Stati Uniti (1908-1909) Nel VII Congresso della II Internazionale socialista, tenuto a Stoccarda dal 18 al 24 agosto 1907, nel quale erano presenti 884 delegati di 25 nazioni - tra i quali i maggiori dirigenti marxisti del tempo, come i tedeschi Rosa Luxemburg, Clara Zetkin, August Bebel, i russi Lenin e Martov, il francese Jean Jaurès - vennero discusse tesi sull’atteggiamento da tenere in caso di una guerra europea, sul colonialismo, sulla questione femminile e sulla rivendicazione del voto alle donne. Su quest'ultimo argomento il Congresso votò una risoluzione nella quale si impegnavano i partiti socialisti a «lottare energicamente per l’introduzione del suffragio universale delle donne», senza «allearsi con le femministe borghesi che reclamano il diritto di suffragio, ma con i partiti socialisti che lottano per il suffragio delle donne». 

Due giorni dopo, dal 26 al 27 agosto, fu tenuta una Conferenza internazionale delle donne socialiste, alla presenza di 58 delegate di 13 paesi, nella quale si decise la creazione di un Ufficio di informazione delle donne socialiste: Clara Zetkin fu eletta segretaria e la rivista da lei redatta, Die Gleichheit (L'uguaglianza), divenne l'organo dell’Internazionale delle donne socialiste. Non tutti condivisero la decisione di escludere ogni alleanza con le «femministe borghesi»: negli Stati Uniti, la socialista Corinne Brown scrisse, nel febbraio del 1908 sulla rivista The Socialist Woman, che il Congresso non avrebbe avuto «alcun diritto di dettare alle donne socialiste come e con chi lavorare per la propria liberazione». 

Fu la stessa Corinne Brown a presiedere, il 3 maggio 1908, causa l'assenza dell'oratore ufficiale designato, la conferenza tenuta ogni domenica dal Partito socialista di Chicago nel Garrick Theater: quella conferenza, a cui tutte le donne erano invitate, fu chiamata «Woman’s Day», il giorno della donna. Si discusse infatti dello sfruttamento operato dai datori di lavoro ai danni delle operaie in termini di basso salario e di orario di lavoro, delle discriminazioni sessuali e del diritto di voto alle donne. 

Quell'iniziativa non ebbe un seguito immediato, ma alla fine dell'anno il Partito socialista americano raccomandò a tutte le sezioni locali «di riservare l'ultima domenica di febbraio 1909 per l'organizzazione di una manifestazione in favore del diritto di voto femminile». Fu così che negli Stati Uniti la prima e ufficiale giornata della donna fu celebrata il 23 febbraio 1909. Verso la fine dell'anno, il 22 novembre, si vide a New York iniziare un grande sciopero di ventimila camiciaie, che durò fino al 15 febbraio 1910. Il successivo 27 febbraio, domenica, alla Carnagie Hall, tremila donne celebrarono ancora il Woman's Day. 

La Conferenza di Copenaghen (1910) Il Woman's Day tenuto a New York il successivo 28 febbraio venne impostata come manifestazione che unisse le rivendicazioni sindacali a quelle politiche relative al riconoscimento del diritto di voto femminile. Le delegate socialiste americane, forti dell'ormai consolidata affermazione della manifestazione della giornata della donna, decisero pertanto di proporre alla seconda Conferenza internazionale delle donne socialiste, tenutasi nella Folkets Hus (Casa del popolo) di Copenaghen dal 26 al 27 agosto 1910 - due giorni prima dell'apertura dell'VIII Congresso dell'Internazionale socialista - di istituire una comune giornata dedicata alla rivendicazione dei diritti delle donne. 

Negli ordini del giorno dei lavori e nelle risoluzioni approvate in quella Conferenza non risulta che le 100 donne presenti in rappresentanza di 17 paesi abbiano istituito una giornata dedicata ai diritti delle donne: risulta però nel Die Gleichheit, redatto da Clara Zetkin, che una mozione per l'istituzione della Giornata internazionale della donna fosse «stata assunta come risoluzione». Mentre negli Stati Uniti continuò a tenersi l'ultima domenica di febbraio, in alcuni paesi europei - Germania, Austria, Svizzera e Danimarca - la giornata della donna si tenne per la prima volta il 19 marzo 1911 su scelta del Segretariato internazionale delle donne socialiste. Secondo la testimonianza di Aleksandra Kollontaj, quella data fu scelta perché, in Germania, «il 19 marzo 1848 durante la rivoluzione il re di Prussia dovette per la prima volta riconoscere la potenza di un popolo armato e cedere davanti alla minaccia di una rivolta proletaria. Tra le molte promesse che fece allora e che in seguito dimenticò, figurava il riconoscimento del diritto di voto alle donne». In Francia la manifestazione si tenne il 18 marzo 1911, data in cui cadeva il quarantennale della Comune di Parigi[4], così come a Vienna, dove alcune manifestanti portarono con sè delle bandiere rosse (simbolo della Comune) proprio per commemorare i caduti di quell'insurrezione. 

La manifestazione non fu però ripetuta tutti gli anni, né celebrata in tutti i paesi: in Russia si tenne per la prima volta a San Pietroburgo solo nel 1913, il 3 marzo, su iniziativa del Partito bolscevico, con una manifestazione nella Borsa Kalašaikovskij, e fu interrotta dalla polizia zarista che operò numerosi arresti. In Germania, dopo la celebrazione del 1911, fu ripetuta per la prima volta l'8 marzo 1914, giorno d'inizio di una «settimana rossa» di agitazioni proclamata dai socialisti tedeschi, mentre in Francia si tenne con una manifestazione organizzata dal Partito socialista a Parigi il 9 marzo 1914. L'8 marzo 1917 Le celebrazioni furono interrotte dalla prima guerra mondiale in tutti i paesi belligeranti, finché a San Pietroburgo, l'8 marzo 1917 (il 23 febbraio secondo il calendario giuliano allora in vigore in Russia) le donne della capitale guidarono una grande manifestazione che rivendicava la fine della guerra: la fiacca reazione dei cosacchi inviati a reprimere la protesta incoraggiò successive manifestazioni di protesta che portarono al crollo dello zarismo, ormai completamente screditato e privo anche dell'appoggio delle forze armate, così che l'8 marzo 1917 è rimasto nella storia a indicare l'inizio della «Rivoluzione russa di febbraio». 

Per questo motivo, e in modo da fissare un giorno comune a tutti i Paesi, il 14 giugno 1921 la Seconda conferenza internazionale delle donne comuniste, tenuta a Mosca una settimana prima dell’apertura del III congresso dell’Internazionale comunista, fissò all'8 marzo la «Giornata internazionale dell'operaia». In Italia la Giornata internazionale della donna fu tenuta per la prima volta soltanto nel 1922, per iniziativa del Partito comunista d'Italia, che volle celebrarla il 12 marzo, in quanto prima domenica successiva all'ormai fatidico 8 marzo. In quei giorni fu fondato il periodico quindicinale Compagna, che il 1º marzo 1925 riportò un articolo di Lenin, scomparso l'anno precedente, che ricordava l'8 marzo come Giornata internazionale della donna, la quale aveva avuto una parte attiva nelle lotte sociali e nel rovesciamento dello zarismo. 

La connotazione fortemente politica della Giornata della donna, l’isolamento politico della Russia e del movimento comunista e, infine, le vicende della Seconda guerra mondiale, contribuirono alla perdita della memoria storica delle reali origini della manifestazione. 

Così, nel secondo dopoguerra, cominciarono a circolare fantasiose versioni, secondo le quali l’8 marzo avrebbe ricordato la morte di centinaia di operaie nel rogo di una inesistente fabbrica di camicie Cotton o Cottons avvenuto nel 1908 a New York, facendo probabilmente confusione con una tragedia realmente verificatasi in quella città il 25 marzo 1911, l’incendio della fabbrica Triangle, nella quale morirono 146 lavoratori, in gran parte giovani donne immigrate dall'Europa. 

Altre versioni citavano la violenta repressione poliziesca di una presunta manifestazione sindacale di operaie tessili tenutasi a New York nel 1857, mentre altre ancora riferivano di scioperi o incidenti avvenuti a Chicago, a Boston o a New York. Nonostante le ricerche effettuate da diverse femministe tra la fine degli anni settanta e gli ottanta abbiano dimostrato l'erroneità di queste ricostruzioni, le stesse sono ancora diffuse sia tra i mass media che nella propaganda delle organizzazioni sindacali.

PARTITO COMUNISTA DEI LAVORATORI

mercoledì 2 marzo 2016

Mobilitiamoci il 12 marzo in tutto il paese

In Lombardia è indetto un presidio a Ghedi (BS), davanti alla base militare aeronautica, a partire dalle ore 14,00 


Il nostro paese è in guerra. Questo è il primo fatto chiaro che va denunciato e su cui vogliamo chiamare alla mobilitazione per rompere il muro di bugie della propaganda del circo mediatico di regime.
Siamo in guerra, assieme alla NATO e a tutto il cosiddetto Occidente, da 25 anni. Nonostante i milioni di morti, le devastazioni e le migrazioni bibliche provocate da questi interventi, il nostro come gli altri governi progettano e organizzano nuove imprese militari. Queste nuove imprese sono però inserite in un quadro diverso, nella Grande Crisi che attraversa il mondo da quasi dieci anni, nelle crescenti frizioni che questa crisi sta determinando tra poli e blocchi mondiali. Non sono più semplicemente guerre neocoloniali di espansione e stabilizzazione, ma si stanno trasformando in guerre di egemonia e sopravvivenza. In questo contesto, in questa competizione tra potenze, si determinano le guerre per procura successive alle primavere arabe: il massacro siriano, l’espansione dell’IS, la frammentazione della Libia, con i suoi fronti confusi e sempre in cambiamento.
La loro guerra, come dimostrano i fatti di Parigi, torna anche nelle nostre città, nella nostre strade, nei nostri luoghi di ritrovo. Le loro guerre non solo producono miseria, morte e sconvolgimenti sociali che sono la causa dell’esodo migratorio, ma stanno rendendo l’Europa e il nostro paese una caserma autoritaria, dove gli spazi di libertà e di agibilità democratica vengono drasticamente ridotti. La Francia ha costituzionalizzato uno stato d’emergenza che colpisce libertà fondamentali, nate in quel paese. Paese ove ora per legge si toglie la cittadinanza a chi è accusato di terrorismo e ha origini etniche e religione diverse da quelle dei cittadini “puri”. Torna in Europa così il razzismo di stato, mentre in Danimarca per legge si rapinano i profughi scesi dai barconi e la Svezia si prepara ad espellere, cioè a deportare verso fame e morte, 80000 migranti.
L’Unione Europea in guerra produce orrore e lo usa per giustificare sia la distruzione della democrazia sia le politiche di austerità. Si possono sforare i criminali vincoli del fiscal compact per comprare armi, ma non per costruire ospedali o scuole. UE e NATO, austerità e guerra sono oramai la stessa cosa.
Noi esprimiamo solidarietà e sostegno a tutti i popoli oppressi in lotta, a partire da quello curdo e palestinese, ma rifiutiamo la guerra e il coinvolgimento del nostro paese in essa.
Invece la decisione del governo Renzi di preparare e prima o poi fare la guerra in Libia ci espone a tutti i rischi terribili che abbiamo visto realizzarsi in altri paesi. Sempre più pesanti e costose sono le nostre missioni militari all’estero, da ultima quella di 1000 militari in Iraq, anche a protezione di affari privati. Intanto il nostro territorio viene militarizzato e avvelenato dagli strumenti di guerra. Si installano nuove terribili bombe termonucleari, si installano radar nocivi, si inquinano intere aree, si organizzano esercitazioni che mettono in prima linea intere città. Si comprano bombardieri e altre armi di distruzioni di massa mentre le si commercia in tutto il mondo.
Tutto il nostro paese è sempre più coinvolto nei danni, nei costi e nei nuovi crescenti rischi della guerra. Per questo bisogna mobilitarsi prima che si troppo tardi, per fermare la guerra e le politiche di distruzione della democrazia e dei diritti sociali che l’accompagnano. Bisogna farlo con tutta la forza e la determinazione possibili nel caso in cui l’Italia fosse per la quinta volta nella sua storia trascinata in una sciagurata guerra in Libia. Ma in ogni caso bisogna costruire una resistenza che risponda all’assuefazione alla guerra che ci stanno somministrando.
È necessaria una mobilitazione diffusa e permanente contro la guerra esterna e contro la guerra sociale interna che banche, multinazionali, interessi industrial militari vogliono imporci. Bisogna che l’Italia esca dalla NATO, alleanza che oggi non ha più alcuna giustificazione politica e morale.


Manifestiamo per :
- La fine immediata di ogni partecipazione italiana alle guerre in corso, con il ritiro delle truppe da esse e il ripristino dell’articolo 11 della Costituzione.
- Lo smantellamento delle basi e delle servitù militari, il rispetto del trattato di non proliferazione nucleare, la fine del commercio delle armi.
- L’uscita dell’Italia dalla Nato e da ogni alleanza di guerra. L’Italia deve diventare un paese neutrale per contribuire alla pace.
- La fine delle politiche persecutorie e xenofobe contro i migranti.
- La fine delle politiche di austerità e del sistema di potere UE che le impone.
- La cancellazione delle leggi sicuritarie che in tutta Europa nel nome della guerra al terrorismo stanno costruendo uno stato di polizia.
IL 12 MARZO IN TUTTA ITALIA MANIFESTIAMO CONTRO LA GUERRA DI FRONTE ALLE BASI E ALLE SEDI DELLA GUERRA


COORDINAMENTO CONTRO LA GUERRA, LE LEGGI DI GUERRA, LA NATO