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mercoledì 28 dicembre 2016

CONTRATTO DEI METALMECCANICI: LA CONCLUSIONE DI UNA PARABOLA DELLA FIOM



Ripartire dal dissenso per organizzare la resistenza

Con grande trionfalismo FIM, FIOM e UILM hanno dichiarato che l’ipotesi di accordo firmata il 26 novembre è stata approvata dai lavoratori e dalle lavoratrici del settore metalmeccanico con una percentuale dell’80%. Questo dato, che a una prima lettura sembra quasi un plebiscito nei confronti dell’accordo ed un successo dei sindacati firmatari, deve esser guardato con attenzione. L’approvazione dell’accordo, infatti, non è mai stata in discussione, come invece lo è stato in altre recenti consultazioni di questa stagione contrattuale (vedi, ad esempio, il rinnovo dell’igiene ambientale, bocciato secondo i dati ufficiali dal 43% delle aziende pubbliche del settore, nella realtà in quasi tutti i grandi stabilimenti – Genova, Roma, Milano, Bari, ecc. – ed in tantissimi di quelli piccoli, probabilmente dalla maggioranza di lavoratori e lavoratrici coinvolti.)

In primo luogo i metalmeccanici implicati dal contratto erano oltre un milione e mezzo. Non solo la classe operaia centrale, quella organizzata delle grandi e delle medie fabbriche, ma anche quella dispersa nel disperso tessuto produttivo italiano di piccole e piccolissime aziende. Non solo quella delle fabbriche più combattive, in cui sono influenti i delegati e le delegate della sinistra FIOM o (in qualche caso) dei sindacati di base, ma anche quella che segue le indicazioni della FIM, della UILM o che non è neppure sindacalizzata.
Certo, questo era un pessimo contratto. Non solo perché distribuisce pochi soldi in quattro anni (forse una cinquantina di euro, a fronte degli 80-100 degli altri contratti). Era molto di più. È un rinnovo che sfibra l’intero sistema contrattuale, indebolendo significativamente i rapporti di forza complessivi della classe lavoratrice: registra semplicemente l’inflazione reale (ex post), non prevedendo nessuna distribuzione della ricchezza o anche solo della produttività nel CCNL; indirizza pesantemente la contrattazione aziendale su parametri variabili (aumentando così la flessibilità salariale); introduce assicurazioni sociali e buoni carrello (tagliando il salario complessivo e contribuendo a smantellare il welfare universale); conferma le flessibilità organizzative previste nel CCNL 2012 (a partire dagli straordinari obbligatori).

Però questo contratto, per esser bocciato dalla maggioranza degli operai, avrebbe avuto bisogno di un clima diverso, nella classe e nel Paese. Sarebbe stato necessario costruire questa vertenza in un quadro di mobilitazione e partecipazione, coinvolgendo nella discussione e nella lotta in difesa del contratto nazionale l’insieme della classe. Sarebbe stata cioè necessaria una comprensione di massa della battaglia in corso, dell’attacco del padronato e delle prospettive di resistenza. Quasi nessuno ha invece lavorato nei mesi scorsi per creare questo clima. Non la FIOM, che sin dall’inizio dell’anno si apprestava a firmare un contratto purchessia, spinta dalla ricerca di un nuovo patto di gestione con Camusso e di un nuovo ruolo per Landini, nella segreteria confederale CGIL. Per questo non ha puntato su scioperi e mobilitazioni, per questo non ha quasi mai riunito l’assemblea dei cinquecento, per questo ha abbandonato la propria piattaforma senza colpo ferire. Non è solo responsabilità della FIOM, però. Anche l’insieme della sinistra politica e sociale del nostro paese non ha contribuito a sostenere la partecipazione su questo rinnovo. Partiti, comitati, associazioni, giornali, radio, siti e social: quasi nessuno ha seguito un contratto che rischia di segnare condizioni e prospettive di milioni e milioni di lavoratori e lavoratrici del nostro paese.
È nel contempo tragico e buffo: da anni tutti declamano che per ricostruire una sinistra di massa bisogna partire dal programma, dal lavoro, dalla realtà; però poi negli ultimi mesi si parla soprattutto di rapporto con il PD, di alchimie elettorali, di Brexit e di Trump. Di Monfalcone e della Lega, della FIOM e del CCNL metalmeccanico quasi mai.
I metalmeccanici sono quindi stati lasciati soli: per non disturbare Landini o per non sporcarsi le mani con il conflitto di classe. Non si sono viste dichiarazioni, interviste, post, dibattiti, assemblee, o volantinaggi sulla vicenda. I rapporti di forza alla partenza, allora, erano molto chiari: da una parte i gruppi dirigenti e gli apparati sindacali, nel silenzio della stampa, delle piazze e di larga parte della sinistra; dall’altra un No sostenuto soprattutto dal basso, da delegati e delegate, dall'opposizione CGIL, dai sindacati di base. Seppur, per questi ultimi, talvolta con le solite tentazioni autocentrate: ad esempio USB, nelle prime fasi della campagna, ha rivendicato il boicottaggio del referendum e la costruzione della propria organizzazione come unica possibile soluzione, senza preoccuparsi di costruire fronti di lotta o convergenze neppure con le altre organizzazioni di base (anche se molti delegati e delegate, e poi il profilo dell’assemblea nazionale di Bologna, hanno spinto per il No alla consultazione, seppur giustamente denunciandone tutti i limiti democratici).

Nessuno allora può stupirsi di questo risultato. E nessuno può stupirsene proprio per le modalità di svolgimento del referendum stesso. Le regole che si sono date FIM FIOM e UILM per questa consultazione non prevedevano nessuna possibilità per le ragioni del No di essere espresse nelle assemblee. Landini si è sempre presentato come un campione della democrazia e del pluralismo. Per sé, per la FIOM, ha sempre rivendicato la pari dignità in CGIL, chiedendo nel 2014 che sul Testo Unico fosse presente in ogni assemblea sia il punto di vista del Sì (quello della Camusso), sia quello del No (il suo, tra gli altri). Ma quello che chiede per sé, non lo ha mai concesso alle sue minoranze. Così nelle assemblee hanno potuto parlare solo i funzionari per il Sì. Chi sosteneva il No (delegati e dirigenti FIOM), si è dovuto limitare a intervenire nei propri posti di lavoro. Non solo. La FIOM ha poi cercato di ammonire tutte le strutture (come i direttivi di Trieste e Genova), i dirigenti e funzionari, fino ai delegati che si sono schierati contro questo pessimo accordo. Lo stesso referendum è stato svolto in un periodo caratterizzato da fabbriche mezze vuote per via della crisi (sia per la cassa integrazione e accordi di solidarietà, sia per ragioni di chiusure aziendali per ferie anticipate), con un controllo ferreo da parte della burocrazia sullo svolgimento delle assemblee. Sono state coinvolte solo 5.986 aziende, per un totale di 678.328 dipendenti. Di questi hanno votato in 350.749, quindi in definitiva poco meno di un quarto del milione e seicentomila metalmeccanici a cui viene applicato il CCNL.

Il dissenso comunque non è stato taciuto. Nonostante questa corsa falsata, nonostante le burocrazie compattamente schierate e nonostante una FIOM impegnata contro il dissenso, il No ha raggiunto il 20%: 68.695 mila lavoratori e lavoratrici hanno bocciato questo rinnovo. Prima di guardare ad alcuni profili di questo voto, una parentesi storica per apprezzarne il risultato complessivo. Nel 2008 ci fu l’ultimo rinnovo unitario FIM-FIOM-UILM, prima della lunga stagione dei contratti separati. Su quel contratto i sindacati di base, come anche l’allora sinistra della FIOM (Rete 28 aprile), si espressero contro, per la contrarietà su alcuni punti qualificanti dell’accordo (in particolare su flessibilità e straordinari obbligatori, inquadramento unico, aumenti salariali ridotti). Furono coinvolte nel voto quasi diecimila aziende, cinquecentotrentamila i lavoratori e lavoratrici votanti: il No fu al 25% (centoventinovemila lavoratori e lavoratrici). A sostenere quel voto, però, allora c’era un pezzo significativo della FIOM: un componente della segreteria nazionale, 3-4 funzionari del centro nazionale, segretari regionali e provinciali, molti funzionari nei territori: una presenza oggi infinitamente più ridotta, dopo otto anni di Landini e una sua costante e aggressiva pulizia di ogni dissenso interno. Non solo. Nel 2008 c’era una classe non ancora stremata dalla crisi, un tessuto di delegati e delegate attivo, reduce dalle battaglie di Melfi e sull’articolo 18, impegnato a difendere quel percorso e quella conflittualità. C’era una sinistra politica e sociale, che nonostante una sua incipiente deriva, accompagnò quel rinnovo con un’attenzione infinitamente maggiore a quella di oggi (basti guardare gli articoli, le interviste e le polemiche di allora su diversi giornali e siti).

I quasi sessantanovemila No di oggi sono quindi un numero consistente, in un quadro politico e sociale completamente diverso rispetto a quello di otto anni fa. La cosa più significativa di questo voto, inoltre, è la sua qualità. Il No si è espresso nella maggior parte nelle grosse industrie, nei settori più importati per la concentrazione della classe operaia organizzata e storicamente conflittuale. Dove la stessa FIOM ha ampio consenso o spesso un controllo totale o quasi totale. Ma non solo dove è presente, o influente, l’opposizione CGIL. L’accordo infatti è stato bocciato alla Dalmine di Bergamo, alla Fincantieri di Marghera e di Ancona, nei cantieri liguri, in tutti gli stabilimenti della Electrolux, alla Marcegaglia di Forlì, alla Same, alla Piaggio, alla GKN, all’Ilva di Genova, alla STM di Agrate e di Catania, all’Ansaldo, alle acciaierie AST di Terni e in molte altre fabbriche importanti. Dove le ragioni del No sono state presenti e dove i lavoratori hanno potuto farsi una opinione il dissenso ha raggiunto numeri importanti.

Con questo rinnovo si chiude comunque una fase politica sindacale, che ha visto bene o male la FIOM rappresentare una resistenza contro la gestione padronale della crisi, il tentativo di recuperare margini di profitto attraverso una compressione drastica del salario globale (diretto, indiretto e sociale) ed un aumento dello sfruttamento (durata e intensità del lavoro). Nei contratti separati, nella lotta contro Marchionne, nelle mobilitazioni nazionali del 2010 e del 2012, nello scontro con Camusso, la FIOM ha rappresentato non solo per i metalmeccanici, ma per tutto il mondo del lavoro, un punto di tenuta: il simbolo di un interesse generale, quello di classe. Sappiamo, ed abbiamo sempre denunciato, che da tempo la FIOM aveva abbandonato questa battaglia nella sua azione concreta: con la capitolazione a Grugliasco sul modello Marchionne, con la rinuncia a condurre le lotte in FCA, con la repressione interna delle minoranze, con l’abbandono di ogni mobilitazione di massa e la sua semplice rappresentazione mediatica (la "coalizione sociale"). La firma di questo contratto, però, segna la chiusura anche simbolica di una parabola: il gruppo dirigente storico della FIOM abdica per primo alla difesa del contratto nazionale, normalizza la propria azione nel quadro del Testo Unico del 10 gennaio (che due anni fa contestò) e si approssima ad entrare stabilmente nella maggioranza della CGIL.

Il risultato del referendum, come in altri settori le contestazioni a questa nuova stagione contrattuale, dicono però che alcuni settori sono disponibili ad una resistenza. Una resistenza che non è limitata ad avanguardie politiche marginali, ma che trova consenso in settori centrali della classe, in una disponibilità alla lotta in fabbriche e stabilimenti importanti.
Il Partito Comunista dei Lavoratori sarà a fianco - come lo è stato in maniera attiva attraverso i propri militanti durante la campagna per il No - di questa classe operaia che non si è voluta piegare ai diktat di Confindustria e delle burocrazie sindacali, compresa quella che fa a capo Landini. Questi sessantanovemila No, per il peso che portano in dote, devono diventare un esempio da estendere negli atri settori industriali. Da questi settori operai conflittuali bisogna ripartire per costruire una opposizione a questo accordo di restituzione, alle politiche padronali e a quelle di governo.


Partito Comunista dei Lavoratori

martedì 20 dicembre 2016

NO ALL'IPOTESI DI CCNL DEI METALMECCANICI









Questo contratto dà pochi spiccioli ai lavoratori, moltissimo ai padroni e peggiora quello precedente che la FIOM si era rifiutata di firmare. Rimane tutta la parte normativa: orario di lavoro (flessibilità e straordinari obbligatori), gestione ferie e Par, restrizione della malattia e vengono introdotte norme peggiorative per la legge 104. Inoltre, i premi di risultato diventeranno totalmente variabili (in base alla produttività).

PERCHÉ VOTARE NO

Il 26 novembre su “Il Sole 24 ore” si leggeva: “Contratto metalmeccanici: 92 euro fra welfare e busta paga”. Landini, Bentivoglio e Palombella confermavano questo aumento fantasma.

È UNA CIFRA INVENTATA

A tutti i lavoratori verrà riconosciuta l’inflazione con gli aumenti nel contratto nazionale. Verrà calcolata dopo che a maggio sarà stato reso noto dall’ ISTAT il valore dell’ IPCA ( indice dei prezzi a livello europeo).

Si stima per il 2016 un’inflazione dello 0,5% (pari a 9 euro) che si prevede arriverà all’ 1% nel 2017 e all’1,2% nel 2018. Se fossero confermati, si arriverà a un aumento di circa 51 Euro (fra tre anni) in busta paga. L’unica cosa sicura sono 9 Euro (al 5° livello), il resto non si sa. Si tratterebbe sempre di un adeguamento all’inflazione, per cui il potere di acquisto del salario rimarrà uguale.

A decorrere dal 1 gennaio 2017, gli aumenti dei minimi tabellari riconosciuti dopo questa data, assorbiranno gli aumenti individuali, nonché gli aumenti fissi collettivi, concordati in sede aziendale, salvo che siano stati concessi con clausola di non assorbibilità. In pratica, se per qualsiasi motivo la paga aumenta questo adeguamento all’inflazione non ci sarà.



IL GRANDE AFFARE DEI PADRONI? L’ASSISTENZA INTEGRATIVA

Le aziende verseranno per conto di ogni lavoratore 156 Euro all’anno a mètaSalute, “Fondo sanitario metalmeccanici” istituito da FIM, UILM, FEDERMACCANICA e ASSISTAL, nel 2011.

Questi soldi, anziché in busta paga, andranno alle assicurazioni, che (incassati i profitti) daranno pochissimo in rapporto ai soldi ricevuti.

Prima per aderire a questo fondo bisognava fare domanda; con questo contratto l’adesione sarà automatica e se un lavoratore non vorrà, dovrà presentare disdetta scritta, ma in questo caso non prenderà un centesimo. mètaSalute opera tramite Uni-Salute (assicurazione sanitaria) che, a sua volta, fa parte del gruppo Unipol Assicurazioni.

Così i burocrati sindacali diventano complici e soci in affari dei VAMPIRI della sanità privata.

PAGAMENTI IN NATURA: UN RITORNO AL MEDIOEVO

Dal 1° giugno 2017 le aziende attiveranno per tutti i lavoratori dei piani di “flexibel benefit”. Sono buoni spesa, pagamenti in natura, per un costo massimo di 100 euro. Nel 2018 e 2019 l’importo sarà elevato a 150 e 200 euro. Una cosa non è chiara: se c’è un massimo ci deve essere un minimo, quale è e chi lo decide? Nel contratto non è specificato.

Le aziende avranno due vantaggi. Primo, questi importi non saranno sottoposti al pagamento dei contributi (come se fossero pagamenti in nero). Secondo, una parte del salario anziché anticipata in busta paga sarà posticipata. Cioè, l’azienda pagherà questi “buoni” dopo che il lavoratore li avrà spesi.

VERSO LA DEMOLIZIONE DELLA 104

La legge 104 prevede il diritto a tre giorni di permesso al mese, a scelta del lavoratore e senza preavviso, per l’assistenza a un familiare invalido, malato o non autosufficiente.

Questo contratto prevede che, per avere i permessi, “il lavoratore presenti un piano di programmazione mensile degli stessi con un anticipo di 10 giorni rispetto al mese di fruizione, fatto salvi i casi di necessità e urgenza”. Chi stabilisce e con quali criteri i casi di urgenza e necessità? Nel contratto non è specificato.

È INACCETTABILE

Dichiarano di proteggere la salute dei lavoratori e dei loro familiari (con l’obbligo di aderire alla sanità integrativa), ma attaccano il diritto alla cura dei malati.

A pagarne di più le conseguenze saranno le donne, che in genere sono quelle su cui pesa maggiormente il lavoro d’assistenza parentale.

Il NO a questo contratto deve diventare il NO a decenni di sacrifici che sono serviti solo a ingrassare i padroni e impoverire i lavoratori.

NON AUMENTA IL SALARIO

DIMINUISCE I DIRITTI

APRE LA STRADA ALLA PRIVATIZZAZIONE DELLA SANITÀ

NO A UN ALTRO CONTRATTO TRUFFA!


Partito Comunista dei Lavoratori - Sezione Romagna "D. Maltoni"

venerdì 16 dicembre 2016

Expo criminale: il sindaco manager al servizio del capitale Anche Sala finisce nel registro degli indagati sull'affare Expo.



Un sindaco manager che negli anni si è mosso e districato con particolare astuzia nei rapporti tra politica, poteri forti e malaffare, prima al servizio della giunta di centrodestra a guida Letizia Moratti, poi folgorato sulla via del centrosinistra con la sua candidatura a sindaco della città di Milano sostenuta da tutta la sinistra democratica e riformista, compresa quella della Milano in Comune di Basilio Rizzo, pronta e prona a offrire il suo sostegno al ballottaggio.
L'uomo Expo, quello che doveva incarnare il proseguimento della (disastrosa) stagione arancione di Pisapia, l'uomo che ancora non ha presentato il bilancio ufficiale di Expo. L'uomo degno rappresentante di una sinistra cialtrona,complice dei poteri forti e del malaffare.
Expo è stata l'ennesima dimostrazione di come politici e affaristi vari si riempiono la bocca presentando i grandi eventi  e le grandi opere come opportunità di crescita e di sviluppo per le nostre città e per il nostro Paese.
Nella realtà dei fatti Expo non è stato altro che un grande banchetto per capitalisti e malaffare.
Altro che nutrire il pianeta! Ad essere nutrite sone state le tasche di pochi. A farne le spese i lavoratori e gli sfruttati di questa città, le periferie abbandonate che da Expo nulla hanno guadagnato.

Il Partito Comunista dei Lavoratori, l'unico partito che a sinistra si è presentato con una propria lista autonoma contro Sala, coerente con il suo programma, rivendica la cacciata di Sala.

Contro tutti i partiti che banchettano approfittando delle nostre risorse e del nostro territorio rivendichiamo l'unico governo in grado di spazzare il malaffare e la corruzione, il Governo dei lavoratori!

Se ne vadano tutti, governino i lavoratori!

Partito Comunista dei Lavoratori

Sezione di Milano

mercoledì 14 dicembre 2016

Governo Gentiloni: il renzismo senza Renzi



Il “nuovo” governo Gentiloni è la continuità mascherata del renzismo. Una forma di renzismo senza Renzi. Un governo-ponte che nelle intenzioni di Renzi dovrebbe dargli il tempo di preparare la sospirata rivincita elettorale. Il più presto possibile, s'intende, nella speranza di travasare sul PD il 41% del Sì alla riforma costituzionale (bocciata).

Per coltivare il sogno della rivincita, Renzi aveva tre necessità complementari. La prima: fare un (breve) passo indietro nella scena politica, per onorare le promesse pubbliche in caso di sconfitta e provare a riabilitare la propria immagine ammaccata. La seconda: disporre di un potere di controllo sul nuovo governo ed in particolare sulle scelte delicate in fatto di nomine pubbliche (che sono parte del blocco di potere del renzismo). La terza: disporre di un governo sufficientemente debole, incapace di fargli ombra, incapace di travalicare i tempi brevi che Renzi gli ha assegnato.

Il governo Gentiloni risponde a queste necessità. Matteo Renzi conserva una propria presenza diretta nell'esecutivo grazie all'inserimento di Luca Lotti e di Maria Elena Boschi, la più stretta scuderia renziana. Affida la partita decisiva della prossima legge elettorale ad Anna Finocchiaro, la cui fedeltà è stata già sperimentata nel fiancheggiamento diretto di Boschi lungo lo scontro sulla riforma istituzionale. Preserva i propri ministri economici fondamentali (Padoan e Poletti), per preservare il patto di ferro con Confindustria e con le banche. Offre rappresentanza ministeriale a tutte le correnti della maggioranza filorenziana del PD, per assicurarsi il controllo del fronte interno al partito al piede di partenza del suo congresso. Cancella la sola ministra Giannini, ormai bruciata sull'altare della Buona Scuola, e zavorra più di ogni altra per l'immagine del renzismo. Respinge infine la candidatura ministeriale di Verdini, sia per evitare nuovi appesantimenti di immagine, sia soprattutto perché un governo più ballerino sui numeri al Senato avrà maggiori difficoltà a durare, e potrà essere più facilmente sfiduciato.

Questa operazione tuttavia ha due punti di debolezza.
La prima è l'immagine pubblica obiettivamente provocatoria di un governo che schiera in prima fila tutte le figure sconfitte dal No del 4 dicembre: la garanzia di controllo renziano sul governo viene pagata al caro prezzo di una sfrontata continuità ministeriale. Il renzismo senza Renzi oltre una certa soglia di impudicizia rischia di zavorrare ulteriormente proprio l'immagine di Renzi e le sue ambizioni di rivincita.

Il secondo fattore di complicazione riguarda il rapporto con una parte non irrilevante dei poteri forti. Poteri a suo tempo tutti schierati col renzismo nel momento della sua ascesa e delle sue promesse di stabilizzazione reazionaria, ma che oggi diffidano dello spirito avventuriero di un (aspirante) Bonaparte sconfitto che rischia di anteporre la propria sete di rivincita all'interesse generale di sistema. Lo sguardo critico della grande stampa borghese verso un governo paravento delle ambizioni del renzismo è sintomatico di questa preoccupazione. La stessa Presidenza della Repubblica ne è investita.

Resta il fatto che il governo Gentiloni continuerà le pratiche correnti del renzismo e del grande capitale contro i lavoratori italiani. La continuità della gestione del Jobs Act. La continuità della detassazione dei profitti già sigillata dall'ultima Legge di stabilità, a carico di spese e protezioni sociali. La continuità del soccorso pubblico al potere bancario, con l'annunciato salvataggio del Monte dei Paschi di Siena a carico dei lavoratori contribuenti. La continuità delle politiche di segregazione e di espulsione dei migranti, in sintonia con la campagna del populismo reazionario (Salvini e Di Battista).

La costruzione di un'opposizione sociale, unitaria e di massa, contro il renzismo e la sua versione mascherata, è l'unica via per dare una prospettiva progressiva alla vittoria del No del 4 dicembre.

Partito Comunista dei Lavoratori

mercoledì 7 dicembre 2016

TRE VOLTE NO OLTRE IL NO A RENZI, RESPINGERE IL CCNL METALMECCANICI



La disfatta che il NO al referendum ha imposto al populismo di governo e al progetto bonapartista di Renzi rappresentano per i lavoratori un fatto straordinariamente positivo. Il governo Renzi si è caratterizzato come uno dei governi più antioperai della storia della Repubblica, coniugando questo suo tratto con il tentativo di istituzionalizzare l'azione di governo a basso consenso, attraverso la combinazione della riforma costituzionale e di una legge elettorale tra le più antidemocratiche mai proposte. Proprio le resistenze sociali alle principali bandiere del renzismo,  il Jobs Act e la Buona Scuola, hanno gettato i semi di una crisi di consenso che è sfociata nel tracollo referendario. La sconfitta del governo Renzi e della sua riforma significa dunque anche un freno all'avanzata dei padroni sul terreno del conflitto di classe dal versante istituzionale.
Il NO al referendum è stato caratterizzato anche dalla natura composita dei fronti tanto sociali quanto politici che lo hanno sostenuto. Le destre populiste (Grillo, Salvini, Berlusconi) si stanno  già lanciando come avvoltoi sul cadavere del renzismo per riuscire a capitalizzare a loro uso e consumo il risultato del voto tutte nel nome di una loro specifica soluzione reazionaria della crisi in corso. La Lega punta alla ricompattazione del centrodestra intorno a Salvini, nel nome dell'imitazione di Donald Trump, della caccia ai migranti e del più becero nazionalismo; Berlusconi tenta di spingere il PD, ora visibilmente indebolito, ad un nuovo abbraccio su legge elettorale, riforme istituzionali e detassazione delle imprese; il M5S invoca elezioni immediate (con l'Italicum) per coronare la corsa al governo imperniata su un programma che contrappone frontalmente il reddito di cittadinanza alla redistribuzione del lavoro, punta all'abolizione dell'IRAP e spinge su umori xenofobi e nazionalisti.
Il movimento operaio non ha niente da spartire con nessuna di queste alternative. Un sonoro NO dunque deve essere risposto anche ad ogni subordinazione passiva alle destre che si contendono il bottino di guerra. La posta in gioco ora è una risposta di classe alla crisi in corso, risposta che solo il movimento operaio può promuovere.
Per fare ciò occorre mettere in campo una mobilitazione straordinaria che metta sul piatto un programma di rottura, in grado di voltare pagina; un programma che porti le bandiere della cancellazione di tutte le leggi antioperaie promosse negli ultimi 30 anni, a partire dal Jobs Act e dalla Buona scuola, che rompa con ogni feticcio della governabilità borghese e pretenda  una legge elettorale compiutamente proporzionale, che possa abolire il debito pubblico verso le banche che possa licenziare i licenziatori e ripartire tra tutti il lavoro esistente, attraverso la riduzione generale dell'orario di lavoro a parità di salario. Un NO, dunque, anche alla pesante eredità che il Governo Renzi ci lascia in termini di sfondamento padronale sui diritti e sui salari dei lavoratori.
Al servizio di questa prospettiva autonoma, di questo programma indipendente dei lavoratori, è necessario costruire il più ampio fronte di lotta del movimento operaio e delle sue organizzazioni. E al servizio di tutto ciò vanno respinti con chiaro e forte NO tutti gli accordi sindacali a perdere che la burocrazia sindacale ha regalato al governo alla vigilia del referendum, nella pubblica amministrazione come nei servizi dell'igene ambientale, come per i metalmeccanici. Sarà fondamentale respingere nelle assemblee operaie del 19/20/21 il CCNL metalmeccanico: il NO a Renzi deve diventare il NO operaio a decenni di sacrifici, l'unico NO che può aprire lo spazio per la risalita della china, l'unico che può garantire una soluzione di classe della crisi.

lunedì 28 novembre 2016

La morte di Fidel Castro



Fidel Castro è deceduto a Cuba all’età di novant'anni. Suo fratello Raul ha annunciato la scomparsa con un messaggio televisivo.
Nel 2006 Fidel Castro ha subito un intervento chirurgico di urgenza; i conseguenti esiti della patologia lo porteranno a lasciare prima temporaneamente, poi nel 2008 definitivamente la direzione del potere politico al fratello Raul Castro, nominato Presidente del Consiglio di Stato e del Consiglio dei Ministri. Fidel Castro ha comunque mantenuto un ruolo di indirizzo attraverso i suoi articoli sul Granma, il giornale del Partito Comunista Cubano, in cui interveniva sui principali eventi di politica interna e internazionale.

Per circa mezzo secolo Fidel Castro ha occupato la presidenza di Cuba, nel corso della quale ha suscitato una feroce ostilità da parte dell’imperialismo (oltre 600 attentati alla sua vita organizzati dalla CIA), ma anche ammirazione da gran parte delle sinistre mondiali e dei popoli oppressi per essere riuscito assieme a Che Guevara e Camilo Cienfuegos a rovesciare, grazie al sostegno delle masse contadine e allo sciopero generale all’Avana, la dittatura di Fulgencio Batista; per aver costruito il primo Stato operaio, seppur deformato, a poche miglia dagli Stati Uniti d’America e, inoltre, per aver guidato la resistenza contro il 'blocco' e i tentativi di rovesciare il regime uscito dalla rivoluzione del 1959.

Il 'Movimiento 26 de Julio' non aveva un programma socialista, ma di democrazia borgese progressista. Fidel Castro era infatti un democratico borghese, e fin dall’inizio ha lottato per mantenere la borghesia all’interno del governo, ma è stato costretto a rompere con la borghesia liberale e l’imperialismo. Il carattere socialista della rivoluzione, infatti, è stato proclamato nel 1961 in risposta alle provocazioni statunitensi, dopo la sconfitta da parte delle milizie popolari cubane del tentativo di invasione degli esuli cubani, armati dall’imperialismo, alla Baia dei Porci.
La rivoluzione aveva spezzato lo Stato borghese, l’esercito di Batista era stato liquidato, l’esercito ribelle formato da contadini poveri, braccianti agricoli e operai in armi ha spinto la rivoluzione ad andare avanti, a procedere nell’espropriazione della borghesia nazionale, della grande proprietà terriera e del capitale straniero che controllava l’Isola. Le stesse condizioni materiali, oltre che quelle politiche, mettevano in evidenza come le rivendicazioni democratiche, quali la riforma agraria e l’indipendenza nazionale, potevano essere assicurate solo approfondendo il processo rivoluzionario verso la rivoluzione socialista.

Ma la rivoluzione socialista sarà presto interrotta: Fidel Castro respinse la proposta di Che Guevara di realizzare un programma di industrializzazione e di estensione della rivoluzione fuori dall’Isola, e scelse di allearsi con la burocrazia stalinista dell’URSS facendo proprio quel modello e applicandolo a Cuba. Il giovane Stato operaio cubano, privato degli organismi di democrazia proletaria e chiuso all’interno del perimetro costiero, nasceva deformato.

Fidel Castro è stato il capo di un regime bonapartista. Il suo potere si ergeva su un apparato burocratico che aveva concentrato il potere in un partito unico e impedito l’emergere di organi di autogoverno - i soviet - degli operai e dei contadini. Le libertà civili e democratiche socialiste saranno progressivamente soffocate da parte di una burocrazia dirigente privilegiata e controrivoluzionaria.
Le tendenze rivoluzionarie - tra le quali i trotskisti cubani - che avevano partecipato al processo rivoluzionario, sono state duramente represse.

Nel corso dei successivi decenni, attraverso un percorso contraddittorio, Castro sosterrà, via via: la diffusione della strategia, burocratica e suicida, della guerriglia in America Latina, staccando e isolando dalle masse operaie migliaia di giovani e così favorendo il loro sterminio da parte dell’imperialismo e dei governi borghesi latinoamericani; la repressione nel sangue della Primavera di Praga del 1968; il governo di collaborazione di classe di Unità popolare, in Cile, all’inizio degli anni '70; la rivoluzione "a tappe" in Nicaragua ("il FSLN non deve creare una nuova Cuba") negli anni ’80; il regime di Jaruselzky in Polonia nel 1981 e di Erich Honecker nella Germania Est nel 1989.
Un piano inclinato di sconfitte per il movimento operaio, che si concluderà con la restaurazione del capitalismo nei paesi del cosiddetto “socialismo reale”.

Cuba, isolata dal blocco statunitense, privata del sostegno dell’URSS, attraverserà un periodo difficile, noto come periodo speciale, di fame e scarsità per le masse operaie e contadine. Nel 1997 il regime cubano apre agli investimenti stranieri e alla creazione di imprese capitalistiche, senza modifiche sostanziali al regime politico, mentre intensificava i rapporti con la Chiesa cattolica sanciti l’anno successivo dalla visita del Papa Karol Wojtyla. Negli ultimi anni di governo, infine, Fidel Castro ha sostenuto il regime di Chavez e i governi progressisti dell’America Latina: il cosiddetto socialismo del XXI secolo, che non ha mai messo in discussione il sistema capitalistico.

Dopo il suo ritiro dalla politica attiva, Castro, rimasto lucido fino alla fine, non ha fatto mancare il suo sostegno alla politica, interna e internazionale, del fratello Raul e della burocrazia restaurazionista dirigente. Una politica che, grazie al sostegno questa volta della Chiesa cattolica di Papa Francesco, nel mentre avviava i negoziati con l’imperialismo statunitense, accelerava all’interno il processo di restaurazione capitalista e la penetrazione dell’imperialismo.

Da parte nostra, difendiamo e difenderemo le conquiste della rivoluzione socialista cubana che hanno senza alcun dubbio, dopo l’espropriazione della borghesia, migliorato significativamente le condizioni di lavoro e di vita dei lavoratori e delle masse popolari dell’Isola, garantendo l’educazione e la salute, la casa e il lavoro. Proprio per questo, abbiamo sostenuto e sosteniamo la difesa di Cuba da ogni forma di aggressione imperialista, la fine del blocco e la chiusura della base imperialista di Guantánamo.
Ma non difendiamo il regime burocratico restaurazionista, che rappresenta la casta privilegiata della società cubana.
La classe operaia cubana deve respingere la restaurazione capitalista portata avanti dalla casta burocratica dirigente di Raul Castro, costruire il proprio partito rivoluzionario, socialista e internazionalista, distruggere l’apparato burocratico stalinista e riprendere il percorso interrotto della costruzione socialista imponendo il potere dei consigli degli operai, dei contadini e dei soldati.
Questa è l’unica alternativa realmente progressiva, quella proposta da Trotsky e dalla Quarta Internazionale nel Programma di transizione del 1938 contro l’infausta prospettiva della restaurazione capitalista da parte della burocrazia stalinista in URSS.

Antonino Marceca

mercoledì 9 novembre 2016

Elezioni negli USA: le lezioni di una vittoria reazionaria

Il ritardo della rivoluzione socialista genera mostri



Donald Trump Presidente degli Stati Uniti non è certo un fatto ordinario della vicenda politica internazionale. Alla testa della più grande potenza imperialista del pianeta si afferma non un tradizionale esponente del Partito Repubblicano, dentro la normale alternanza bipolare della democrazia borghese americana, ma un outsider radicalmente reazionario estraneo alla storia del suo stesso partito, e combattuto dall'intero establishment. È un fatto inedito nella storia americana. Nei prossimi giorni approfondiremo l'analisi delle possibili conseguenze di questo fatto sul terreno delle relazioni internazionali, dove la postura isolazionista e protezionista di Donald Trump annuncia forti elementi di discontinuità e ricadute potenzialmente profonde. Ma da subito è necessario e possibile leggere l'eccezionalità del fatto accaduto in rapporto al contesto sociale e politico USA.

Quanto è accaduto trova la sua radice più profonda nell'esperienza della grande crisi capitalistica che ha attraversato e scosso la società americana. La grande crisi iniziata nel 2007 ha disgregato i vecchi blocchi sociali, ha impoverito larghi settori di classe operaia già colpiti dal lungo ciclo di ristrutturazioni e delocalizzazioni, ha declassato ampie fasce di classe media, ha colpito le condizioni sociali delle masse rurali americane. La modesta ripresa capitalista USA, seppur prolungata, non solo non ha sanato le ferite sociali della crisi, ma ha ampliato tutte le disuguaglianze sociali a vantaggio unicamente del capitale finanziario e di Wall Street. Da qui la crisi profonda dell'egemonia di Wall Street sul senso comune popolare, ed anzi la rabbia diffusa di un vasto blocco sociale interclassista contro la classe dirigente americana in tutte le tutte le sue espressioni tradizionali. Donald Trump ha dato a questo sentimento popolare una radicale traduzione reazionaria, volgendolo contro tutti i bersagli fittizi su cui scaricare la frustrazione popolare (messicani, donne, europei, minoranze, banche e fisco) in un classico esercizio della peggiore demagogia. E vi è riuscito proprio in quanto outsider, da "solo contro tutti". La composizione sociale del voto per Trump, con lo sfondamento ottenuto nelle roccaforti della vecchia cintura industriale americana come nell'America profonda delle campagne misura il successo della polarizzazione reazionaria. La campagna sciovinista per "fare grande l'America" ha avuto lo stesso successo della Brexit, e in fondo ha raccolto lo stesso blocco sociale. C'è da augurarsi che chi a sinistra ha brindato alla Brexit non brindi oggi per la vittoria di Trump.

La candidata del Partito Democratico Hillary Clinton ha costituito il bersaglio perfetto per Trump. Una candidata espressione diretta dell'establishment e della continuità del potere, coinvolta personalmente negli scandali di Wall Street, lautamente remunerata dal capitale finanziario, apertamente invisa ad ampi settori dell'elettorato democratico ed in particolare al suo bastione giovanile, ha rappresentato il miglior alleato della campagna reazionaria. La capitolazione di Sanders a Clinton a conclusione delle primarie democratiche nel nome dell'unità contro la destra ha clamorosamente mancato l'obiettivo dichiarato. La subordinazione alla candidata del capitale finanziario non solo non ha sbarrato la strada di Trump ma l'ha lastricata (con buona pace dei commentatori del quotidiano Il Manifesto che tanto avevano applaudito tale scelta). Milioni di lavoratori e di giovani colpiti dalla crisi che non hanno trovato un'alternativa a sinistra, o hanno ripiegato nel non voto o hanno cercato una soluzione a destra.

La vittoria di Trump è infine anche un bilancio del doppio mandato di Barack Obama. La misura del fallimento impietoso di tutte le illusioni riformiste e progressiste che tanta parte della sinistra internazionale aveva seminato attorno alla sua esperienza. Gli otto anni di amministrazione Obama sono serviti a salvare le banche con le risorse pubbliche, e i capitalisti dell'auto col taglio dei salari e dei diritti. Parallelamente, milioni di proletari americani si trovano a pagare polizze sempre più care per l'assistenza medica lasciata nelle mani delle assicurazioni private. Milioni di studenti restano impiccati a un debito a vita per pagare le rette dei propri studi. Milioni di giovani lavoratori alternano la disoccupazione con lavori miserabili, ricattabili, sottopagati. Milioni di giovani neri vivono sulla propria pelle il peggioramento della propria condizione e le vessazioni odiose, spesso omicide, della polizia. L'unico progresso che Obama ha assicurato è quello dei profitti di Wall Street e dei voti di Trump. Il mito del capitalismo democratico ha subito, da ogni versante, l'ennesima smentita.

Ora si prepara in America un nuovo terreno di confronto e di scontro col Presidente più reazionario della storia americana. Nonostante tutto, non mancano le risorse sociali di una opposizione al trumpismo. Negli ultimi anni la ripresa delle lotte salariali nell'industria dell'auto, il movimento per l'aumento del salario minimo, le mobilitazioni giovanili di Occupy Wall Street, il movimento della popolazione nera misurano un potenziale importante. I 13 milioni di lavoratori e di giovani che avevano votato Sanders alle primarie contro Clinton, attratti da un richiamo, per quanto formale, al socialismo, sono anche espressione di nuove dinamiche sociali.
Ma proprio l'esperienza della capitolazione di Sanders a Clinton e della disfatta di Clinton a vantaggio di Trump ripropone in tutta la sua attualità storica la necessità di un partito di classe indipendente contrapposto ai Clinton e ai Trump, al Partito Democratico come al Partito Repubblicano. È l'unica via, tanto più oggi, per dare rappresentanza e prospettiva alla classe operaia e a tutti gli oppressi della società USA, alle loro esigenze e alle loro lotte.

La vittoria di Trump ripropone infatti una considerazione di fondo, che va al di là della vicenda americana. Dentro la svolta d'epoca segnata dalla grande crisi del capitalismo e del riformismo, non c'è spazio storico duraturo per le vecchie forme della politica borghese. Il bivio di prospettiva storica che interroga il mondo è quello tra rivoluzione o reazione. Il ritardo della rivoluzione socialista genera mostri. Trump non è il primo, non sarà l'ultimo. La costruzione di un partito rivoluzionario internazionale che lavori ad elevare la coscienza della classe lavoratrice all'altezza di un alternativa globale di sistema trova nella vicenda USA una ulteriore e clamorosa conferma.

Partito Comunista dei Lavoratori


lunedì 7 novembre 2016

“PROVE DI REGIME”




Il divieto imposto dalle Istituzioni locali ad un presidio pacifico antifascista in piazza Ferruccio Ghinaglia, assassinato dai fascisti il 21 aprile 1921, è un segnale di negazione del dissenso, di repressione, di conferma di “regime”. Improvvisare una “zona rossa” in centro città a difesa della marcetta fascista , qual è in effetti , appare atto estremamente offensivo per Pavia e i suoi cittadini. 
Lotta al fascismo si traduce quindi in lotta a quelle istituzioni borghesi che, a parole e nei fatti, legittimano i fascisti e le loro manifestazioni. 

L’occasione migliore per ribadire con forza che PAVIA È ANTIFASCISTA 

Il PCL esprime solidarietà alle compagne e compagni feriti dalla ingiustificata violenza delle forze dell’ordine. Ringrazia tutti i cittadini che hanno manifestato a difesa dell’antifascismo. 

“Non dobbiamo illuderci che sia solamente il fascismo che terrorizza le piazze d’Italia; è la borghesia col suo governo, le sue spie, i suoi armati, che cerca tutti i mezzi per strangolare la volontà dei lavoratori…” (Ghinaglia su “Falce e Martello” (19/2/1921)

Partito Comunista dei Lavoratori
Pavia sez. "Tiziano Bagarolo"

7 NOVEMBRE: L'ASSALTO AL CIELO




«Operai, soldati, contadini,
il secondo congresso panrusso dei soviet dei deputati degli operai e dei soldati è aperto. Esso rappresenta la grande maggioranza dei soviet... Il congresso prende il potere nelle sue mani. Il governo provvisorio è deposto... Il potere sovietico proporrà una pace democratica immediata a tutte le nazioni... procederà alla libera consegna della terra dei latifondisti, della corona, dei monasteri ai comitati contadini, difenderà i diritti dei soldati e realizzerà la piena democratizzazione dell'esercito, stabilirà il controllo operaio sulla produzione, assicurerà la convocazione dell'Assemblea Costituente alla data fissata... assicurerà a tutte le nazionalità viventi in Russia il diritto assoluto di disporre di se stesse... Soldati, operai, impiegati, il destino della rivoluzione e della pace democratica è nelle vostre mani, viva la rivoluzione.» (7 novembre 1917)

«Il governo operaio e contadino abolisce la diplomazia segreta... Esso procederà immediatamente alla pubblicazione integrale di tutti i trattati segreti ratificati o conclusi dal governo dei grandi proprietari fondiari e dei capitalisti sino al 7 novembre 1917. Tutte le clausole di questi trattati segreti, che hanno per scopo di procurare vantaggi e privilegi agli agrari e ai capitalisti russi, di mantenere o di accrescere le annessioni fatte dall'imperialismo grande-russo, sono denunciate dal governo immediatamente e senza riserve.» (8 novembre 1917)

«...Il governo operaio e contadino si rivolge in particolare agli operai coscienti... dell'Inghilterra, della Francia, della Germania. Sono stati questi operai a rendere i più grandi servigi alla causa del progresso e del socialismo... Gli operai di questi paesi si sentiranno in dovere di liberare l'umanità dagli orrori della guerra... con una azione generale, decisiva, rivoluzionaria, ci aiuteranno a... liberare le masse sfruttate da ogni schiavitù e da ogni sfruttamento.» (8 novembre 1917)

«Il Consiglio dei commissari del popolo ha deciso di porre alla base alla base della propria azione sulla questione delle nazionalità i seguenti principi:
1) Eguaglianza e sovranità dei popoli della Russia
2) Diritto dei popoli della Russia di disporre liberamente di se stessi
3) Soppressione di tutti i privilegi e di tutte le restrizioni di carattere nazionale e religioso
4) Libero sviluppo delle minoranze nazionali e dei gruppi etnici viventi sul territorio russo»
(15 novembre 1917)

«La soppressione dei giornali borghesi non è stata solo un mezzo di lotta durante l'insurrezione... era anche una misura transitoria indispensabile per stabilire il nuovo regime della stampa, un regime nel quale i capitalisti, i proprietari delle tipografie e della carta, non potranno essere più i manipolatori onnipotenti dell'opinione pubblica.»
«Il monopolio della borghesia sulla stampa va abolito... Il diritto di proprietà delle tipografie e della carta appartiene da adesso in primo luogo agli operai e ai contadini e soltanto in secondo luogo alla borghesia, che rappresenta una minoranza... Se noi nazionalizziamo le banche, possiamo forse tollerare dei giornali finanziari?»
(Trotsky, novembre 1917)

«Noi abbiamo spezzato il giogo del capitalismo, come la prima rivoluzione di febbraio aveva spezzato il giogo dello zarismo. Se la prima rivoluzione ha avuto ragione a sopprimere i giornali monarchici, noi abbiamo ragione a sopprimere la stampa borghese... Adesso che l'insurrezione è terminata, non abbiamo affatto intenzione di sopprimere i giornali degli altri partiti socialisti, salvo nel caso che essi incitassero alla sollevazione armata o all'insubordinazione contro il potere sovietico... Tipografie, inchiostro, carta, sono divenuti proprietà del governo sovietico e devono essere ripartiti in primo luogo tra i partiti socialisti, in diretta proporzione al numero dei loro membri.»
(Lenin, novembre 1917)

«...Il governo sovietico si accinse con fiducia all'organizzazione dello Stato. Molti vecchi funzionari vennero a schierarsi sotto la sua bandiera... Quelli che erano spinti da desiderio di denaro furono disillusi dal decreto sul trattamento economico dei funzionari che fissava lo stipendio dei commissari del popolo al massimo di 500 rubli (cinquanta dollari) al mese... Lo sciopero dei funzionari... fallì, avendo cessato di sostenerlo gli ambienti finanziari... I bolscevichi non avevano conquistato il potere con un compromesso con le classi possidenti, né conciliandosi col vecchio apparato statale. E neppure con la violenza organizzata di una piccola consorteria. Se in tutta la Russia le masse non fossero state pronte per l'insurrezione, essa sarebbe fallita. La sola ragione del successo dei bolscevichi è che essi realizzavano le aspirazioni elementari degli strati più profondi del popolo, chiamandoli all'opera di distruzione del passato... per edificare sulle sue rovine ancora fumanti un mondo nuovo.”
(John Reed, “Dieci giorni che sconvolsero il mondo”)


Questo semplice richiamo ai primi provvedimenti della rivoluzione bolscevica racchiude una lezione di verità storica. Rottura anticapitalista, democrazia rivoluzionaria, principi e prospettive internazionalisti, non solo misuravano la radicalità rivoluzionaria del bolscevismo, ma anticipavano la sua totale alterità allo stalinismo che l'avrebbe distrutto.

Recuperare l'attualità di quel programma - di fronte al fallimento del capitalismo e al crollo dello stalinismo - è il compito dei marxisti rivoluzionari di tutto il mondo.


Partito Comunista dei Lavoratori

martedì 18 ottobre 2016

Stoltenberg capo di guerra, Gentiloni ministro vile Il governo invia soldati in Lettonia



Stoltenberg, segretario generale della NATO, a Roma è venuto a dare la linea e ad annunciare l’invio di soldati dell’Esercito Italiano nei Paesi baltici ai confini con la Federazione Russa.
Nella conferenza stampa il segretario generale ha fatto il punto sul dispiegamento militare NATO dal Baltico all’Europa centro-orientale: «Abbiamo triplicato la dimensione della forza di risposta rapida, con otto quartieri generali nell’Europa centro-orientale. Ci sono i quattro battaglioni nelle repubbliche baltiche. Sono difensivi e proporzionati. Però dicono che la NATO c’è e che la risposta, certo limitata rispetto alle divisioni russe, è multinazionale».

Il governo di Renzi è stato colto di sorpresa, e per bocca del ministro degli esteri, Paolo Gentiloni, ha cercato di banalizzare la questione: “un’iniziativa già prevista dal vertice NATO di Varsavia del luglio scorso”.

Il vertice di Varsavia ha posto l’ultimatum: «Le azioni e le politiche destabilizzanti della Russia includono: l’illegale e illegittima annessione senza interruzione della Crimea, che non riconosciamo e non riconosceremo, sulla quale ci appelliamo alla Russia affinché faccia marcia indietro; la violazione dei confini sovrani attraverso la forza; la deliberata destabilizzazione dell’Ucraina dell’Est; le esercitazioni militari su larga scala contrarie allo spirito del Documento di Vienna e le azioni militari provocatorie nelle vicinanze dei confini della NATO, tra cui quelle nelle regioni del Mar Baltico e del Mar Nero e nel Mediterraneo Orientale; la sua retorica nucleare, la sua concezione militare e il suo atteggiamento di base aggressivi e irresponsabili; le sue continue violazioni dello spazio aereo dei paesi Alleati. Inoltre, l’intervento militare, la presenza militare consistente, il supporto al regime siriano da parte della Russia, e il suo utilizzo di forze militari nel Mar Nero, mirati ad estendere il suo potere nell’est del Mediterraneo, hanno posto ulteriori rischi e sfide per la sicurezza degli Alleati e delle altre parti. La NATO ha reagito a questa contesto modificato nel campo della sicurezza rinforzando le sue strutture di deterrenza e di difesa, compreso lo stanziamento di forze nell’area orientale dell’Alleanza e la sospensione di ogni cooperazione civile e militare funzionale tra NATO e Russia, rimanendo pur sempre aperta al dialogo politico con la Russia. Riconfermiamo queste decisioni” (comunicato NATO).

Qualche mese prima del vertice di Varsavia, la NATO lanciò in Polonia l’operazione Anaconda: 31.000 soldati, 3000 veicoli, 105 aerei e 12 navi da guerra. I contingenti maggiori sono USA (14.000), Polonia (12.000) e Inghilterra (800). L’annuncio di Stoltenberg è stato preceduto dalla conferenza stampa del capo di stato maggiore dell’esercito USA (4 ottobre), in cui ha avvertito che il prossimo grande conflitto sarebbe «altamente letale, diverso da tutto ciò che l’esercito USA ha sperimentato almeno dalla seconda guerra mondiale», e i combattimenti avverranno in «aree urbane densamente popolate.»
Nell’Ucraina orientale si combatte, già dalla metà del 2014, i prossimi fronti militari saranno il Baltico e la Georgia.

Le masse in Europa non vogliono la guerra. La quasi totalità delle forze antiguerra che si mobilitarono nel 2003 contro l’aggressione imperialista in Iraq sono passive, avvelenate dall’imperialismo democratico del premio Nobel della pace Obama, che in otto anni di presidenza non ha fatto che guerre d’aggressione iniziate da Bush figlio, aggiungendovi di suo il colpo di stato nazionalista di Kiev; un progressivo e massiccio dispiegamento offensivo di truppe e di mezzi ai confini della Russia; l’appoggio incondizionato a Lettonia, Lituania ed Estonia; l’aggressione alla Libia e la guerra in Siria, in cui è possibile ogni momento uno scontro tra soldati russi e americani.
Solo la lotta della classe operaia e delle masse, dall’Atlantico alla Siberia, può fermare la guerra. In Europa e nella Federazione Russa i comunisti lavoreranno per rovesciare i governi che vogliono la guerra.
Dobbiamo far consapevoli le masse che dovranno affrontare la borghesia e i suoi apparati polizieschi militari in condizioni molto differenti da quanto è stato dal secondo dopoguerra, ma per questo ci siamo preparati.


Partito Comunista dei Lavoratori

lunedì 17 ottobre 2016

UNA LEGGE DI STABILITÀ PER I CAPITALISTI




Confindustria e banche esultano. Hanno ragione. Il governo Renzi regala alle imprese una nuova riduzione della tassa sui profitti dal 27% al 24%, nuovi incentivi fiscali in fatto di super ammortamenti, una messe di nuove regalie. Dopo aver già beneficiato i padroni in questi anni con la liberalizzazione dei licenziamenti arbitrari , la massiccia decontribuzione premio, la precarizzazione dilagante dei voucher. . Banche ed assicurazioni non sono da meno. Incassano la nuova torta dell'Ape , il prestito bancario assicurato che un lavoratore si impegna a ripagare per 20 anni, con tanto di interessi, in cambio di un anticipo di uscita pensionistica e di una pensione ancora più misera. Un nuovo derivato indiretto della famigerata Legge Fornero che il governo si guarda bene dal cambiare. Peraltro il governo Renzi lavora pancia a terra per tutelare le banche: già beneficiate di nuovi e più rapidi poteri di esproprio di debitori insolventi, a vantaggio dei valori dei propri crediti incagliati e altri titoli spazzatura.

E' vero, Renzi sfora gli impegni presi sul Patto di Stabilità in Europa. E cercherà di presentare questa scelta come prova di difesa dell'”interesse nazionale” contro le “burocrazie di Bruxelles”. Pascolando elettoralmente sul campo arato dai mille sovranismi nazionalisti, che a destra come (a volte) a sinistra, rivendicano il “riscatto italiano dal nemico tedesco”. Ma si tratta di uno specchietto per le allodole. Renzi sfora il patto di stabilità ( in buona compagnia oggi nella UE) non per allargare i cordoni della borsa verso i lavoratori, ma per ridurre le tasse ai capitalisti. Ed anche per finanziare una manciata di volgari regalie ( bonus per..”mamma domani” incluso) da usare a vantaggio del SI al referendum. Cioè a vantaggio di un progetto bonapartista di uomo solo al comando che è prezioso per gli interessi dei capitalisti e la migliore governabilità della loro rapina. E' un caso se tutte le Cancellerie del vecchio continente( e non solo) tifano per il SI, e si dispongono a chiudere un occhio sulla manovra di bilancio del governo?

Eppure le burocrazie sindacali coprono la finanziaria di Renzi, o elogiandola ( CISL) o criticandola sommessamente ( CGIL), in ogni caso senza contrasto e mobilitazione vera. Ed anzi vantando il ritrovato canale di contatto negoziale con il governo. Così facendo non solo privano i lavoratori di una reale tutela sindacale, a partire dai milioni di lavoratori pubblici in attesa di contratto, per i quali Renzi stanzia solo briciole umilianti. Ma aiutano di fatto l'operazione elettorale del governo a vantaggio del suo progetto istituzionale reazionario. Cosa serve un NO platonico della CGIL sul referendum, se di fatto si aiuta la campagna del SI e le sue truffe populiste?

E' necessaria e urgente una mobilitazione sociale, radicale, di massa, che unifichi opposizione alla legge di Stabilità e vertenze contrattuali. E' l'unica via per sbarrare il passo alla reazione. Per dare al NO una bandiera di classe riconoscibile. Per aprire il varco di una alternativa dei lavoratori. L'unica vera alternativa.


Partito Comunista dei Lavoratori

giovedì 6 ottobre 2016

DALLA PROVINCIA PAVESE DEL 06/10/2016

ANTIFASCISMO DI  FACCIATA



Prefetto e sindaci del pavese hanno premiato a 71 anni dalla guerra di Liberazione partigiani, ex internati nei lager nazisti e gli ex combattenti regolari delle forze armate.
“Vorrei che i giovani prendessero esempio dal vostro coraggio” ha spiegato il prefetto Erminia Rosa Cesari.
Quel coraggio, però , che è totalmente assente nelle nostre Istituzioni che, nel momento in cui prendono corpo movimenti e organizzazioni di estrema destra,  cercano di minimizzare il reale e di fare appello alla “non violenza”, come concetto assoluto, procrastinando sino all'inconcludenza.
Questo comportamento è imbarazzante specialmente nelle istituzioni  che da sempre vengono  associati alla sinistra.
A Pavia, è stata approvata una mozione il 15 aprile 2015, con l'esplicita richiesta di non lasciare spazio a formazioni neofasciste in città, con tanto di richiami costituzionali (legge Scelba e Mancino) e sentenza della corte di cassazione. La mozione è stata inoltrata da Anpi con appoggio della Rete antifascista.
NON UN REALE IMPEGNO PER TRADURRE CONCRETAMENTE IL TESTO DI QUELLA MOZIONE.
Ad oggi nonostante le continue richieste, nulla è stato fatto. Forza Nuova continua ad ottenere i permessi per i banchetti e casa Pound agisce indisturbata in via della Rocchetta, presso i locali di un privato. Il prefetto e la questura, senza subire pressioni politiche, hanno glissato totalmente su questo problema.
E' necessario, dunque, stare attenti anche a chi agita strumentalmente la bandiera dell’antifascismo per nobili calcoli elettorali.
Oggi essere antifascisti vuol dire anche opporsi alle e nelle istituzioni locali e nazionali che molto spesso tollerano le sedi d'estrema destra.
L'indifferenza è abulia, è parassitismo, è vigliaccheria, non è vita. Perciò odio gli indifferenti.” Antonio Gramsci 11 febbraio 1917.

Partito Comunista dei Lavoratori
Pavia sez.”Tiziano Bagarolo”

mercoledì 28 settembre 2016

Non vogliamo fertilità e procreazione come destino. Il diritto di decidere della nostra vita è nostro

Respingiamo il maschilismo padronale di Renzi e Lorenzin. Per una sessualità libera dai destini ideologici imposti dal patriarcato e dal capitalismo.



Sono molteplici i motivi per cui abbiamo ritenuto ideologico, maschilista e pericoloso il Piano nazionale per la fertilità promosso dal ministro della salute Beatrice Lorenzin (Nuovo Centrodestra). Nelle intenzioni del ministro il Piano avrebbe i seguenti obiettivi:

• Informare i cittadini sul ruolo della fertilità nella loro vita, sulla sua durata e su come proteggerla evitando comportamenti che possono metterla a rischio;
• Fornire assistenza sanitaria qualificata per difendere la fertilità, promuovere interventi di prevenzione e diagnosi precoce al fine di curare le malattie dell'apparato riproduttivo e intervenire, ove possibile, per ripristinare la fertilità naturale;
• Sviluppare nelle persone la conoscenza delle caratteristiche funzionali della loro fertilità per poterla usare scegliendo di avere un figlio consapevolmente ed autonomamente;
• Operare un capovolgimento della mentalità corrente volto a rileggere la fertilità come bisogno essenziale non solo della coppia ma dell’intera società, promuovendo un rinnovamento culturale in tema di procreazione;
• Celebrare questa rivoluzione culturale istituendo il “Fertility day”, giornata nazionale di informazione e formazione sulla fertilità, dove la parola d’ordine sarà scoprire il “prestigio della maternità”. (1)

In queste ultime settimane si sono levate molte voci contrarie alla campagna pro-fertilità che hanno criticato diversi aspetti politici del Piano nonché le discutibili scelte comunicative che avrebbero dovuto pubblicizzare il “Fertility day” (giornata dedicata alla informazione e alla formazione sulla fertilità) del 22 settembre scorso.

La campagna pubblicitaria infatti si è caratterizzata per cialtroneria e ambiguità, tingendosi di toni razzisti (2) e sessisti e rivolgendosi in modo assillante soprattutto alle donne: trattandole alla stregua di egoiste che mettono se stesse davanti al loro “orologio biologico” e al loro dovere nei confronti della comunità e soprattutto al loro ruolo riproduttivo.
Fra le varie contestazioni, la più significativa è probabilmente quella che afferma che se in Italia non si fanno abbastanza figli è colpa della crisi economica, del precariato, della disoccupazione giovanile ecc. In una fase di erosione avanzata di diritti e di attacco ai salari dei lavoratori e delle lavoratrici viene giustamente ricordato a Lorenzin che i figli rappresentano un lusso.

Questa prospettiva è sostanzialmente corretta, e coglie una delle principali contraddizioni di questa campagna; però è anche una critica parziale e deve necessariamente essere integrata per mostrare tutti gli aspetti reazionari del progetto del ministro della salute.

A nostro avviso il Piano pro-fertilità è pericoloso specialmente poiché ripropone con forza e volgarità – basti pensare alle scelte comunicative – l’idea della procreazione come destino biologico e non come libera scelta del soggetto, e tenta di piegare la sessualità, il corpo – in particolar modo quello della donna – e la sua storia alla sola funzione procreativa.

La campagna richiama costantemente e in modo ambiguo al dovere morale – di fascistissima memoria – della coppia eterosessuale (non si accenna infatti a altre possibili famiglie) nei confronti della nazione; infatti, tralasciando completamente l’importante ruolo assunto dalle popolazioni migranti in Italia negli ultimi anni, il Piano celebra il sodalizio fra la natalità ed il mantenimento del welfare: c’è bisogno di fare figli che un giorno vadano a lavorare perché possano garantire il funzionamento del sistema. È solo alla coppia eterosessuale e italiana che spetta l’onere e l’onore di procreare; non si accenna alla possibilità di genitori single e meno che mai a coppie omosessuali. L’essere fertile viene promosso come l’unico modo per avere figli, trascurando altre possibili alternative quali l’adozione, e le tecniche e i progressi della scienza medica, in questa visione distorta, sono piegati esclusivamente alla tutela della fertilità della coppia.

Insomma, l’intera operazione è una celebrazione ideologica della famiglia “naturale” di matrice borghese, ed è tanto più pericolosa se si tiene conto del contesto storico in cui si inserisce: viene sancito nuovamente e in modo malcelato quel sodalizio fra governo e Chiesa cattolica che rafforza le varie iniziative a cui abbiamo assistito in questo ultimo periodo quali manifestazioni delle “sentinelle in piedi” e Family day.
Trasformando la fertilità in un “bene comune” e la maternità in un dovere nei confronti della comunità, il Piano promosso dal ministro Lorenzin consolida di fatto le molteplici campagne e movimenti pro-life e antiabortisti, e legittima il privilegio (perché di certo non si tratta di un “diritto”) dei tanti obiettori di coscienza che all’interno di strutture sanitarie pubbliche ostacolano l’accesso delle donne all’interruzione della gravidanza.
È dunque una campagna ideologica di stampo democristiano costruita su ribaltamenti e ambiguità: vi è ad esempio un martellamento costante e dai tratti parossistici, per cui la salute e il mantenimento di uno stile di vita “corretto” non sono finalizzati al benessere del singolo individuo in quanto tale ma alla preservazione del suo potere riproduttivo: il soggetto scompare, viene meno, e ciò che resta di lui è la sua fertilità e la sua preservazione:

«Fin dall’adolescenza la funzione riproduttiva va difesa evitando stili di vita scorretti e cattive abitudini (come ad esempio il fumo di sigaretta e l’alcool), particolarmente dannose per gli spermatozoi e per gli ovociti. È essenziale inoltre evitare, fin dall’infanzia, l’obesità e la magrezza eccessiva e la sedentarietà, oltre a fornire strumenti educativi ed informativi agli adolescenti per evitare abitudini che mettono a rischio di infezioni sessualmente trasmesse o gravidanze indesiderate [ibidem].»

L’obesità e l’anoressia – considerati alla stregua di comportamenti “scorretti” – vanno evitate perché potrebbero mettere a rischio il potere riproduttivo dei soggetti, e non vanno analizzate e trattate come espressioni di disagio sociale. Tutte queste tematiche, che rappresentano aspetti preoccupanti della contemporaneità, vengono rimossi dal ministro della salute (!) che si preoccupa invece di promuovere una campagna da cui l’individuo ne esce espropriato del proprio corpo e limitato nella costruzione di sé, nella libera ricerca del piacere e del piacersi, e piegato al solo compito della procreazione “per il bene della comunità”.
Inoltre l’assillante richiamo del Piano alla salute e alla sua tutela cozza nei fatti con i pesanti tagli alla sanità portati avanti da questo come dai precedenti governi. Senza dimenticare inoltre che proprio questo impianto ideologico rafforza il sostrato culturale dei rapporti patriarcali tra uomini e donne, e dunque, in ultima istanza, legittima la violenza che sulle donne viene scatenata quando non rispondono al modello “di servizio” e si sottraggono al dominio maschile.

A questa logica bigotta, opportunista e complice di un sistema oppressivo e patriarcale noi opponiamo con forza il nostro programma:

- Lavorare meno, lavorare tutti, e redistribuire il lavoro esistente fra tutti e tutte a parità di salario.
L’autonomia economica di ogni individuo rappresenta da un lato la rottura con il sistema capitalista fondato sul profitto e l’espropriazione umana, dall’altro è un principio fondamentale per garantire la costruzione libera della propria soggettività e del proprio percorso di vita, ed è dunque un presupposto indispensabile, specialmente per quanto riguarda le donne, per la liberazione dall’oppressione familiare e dalla dipendenza dal marito.

- La genitorialità deve essere considerata una libera scelta fra altre possibili, e non un destino biologico e morale, un presunto dovere nei confronti della comunità, né tantomeno un privilegio “naturale” della coppia eterosessuale. Con questo spirito di superamento dell’ideologia della famiglia “tradizionale” riconosciamo il diritto alla genitorialità tanto al singolo individuo quanto alla coppia omosessuale.

- Liberazione sessuale significa anche liberare la sessualità dei soggetti dal destino ideologico della procreazione e della maternità. È per questo che l’aborto deve essere libero e gratuito, e deve essere abolita l’obiezione di coscienza. Inoltre, la contraccezione deve essere garantita a prezzi popolari.

- La liberazione delle donne e delle minoranze sessuali e di genere si iscrive in un processo rivoluzionario di rottura con la morale e con l’organizzazione economica e politica della società attuale, e dunque rivendichiamo come passaggio imprescindibile l’abolizione unilaterale del Concordato fra Vaticano e Stato, l’esproprio senza indennizzo di tutte le grandi proprietà immobiliari ecclesiastiche e in definitiva l’abolizione di tutti i privilegi fiscali, giuridici, normativi, assicurati alla Chiesa cattolica, a partire dalla truffa dell’8 per mille e dall’insegnamento religioso confessionale nella scuola pubblica.

Porteremo queste riflessioni e queste rivendicazioni in piazza il 26 novembre alla manifestazione nazionale contro la violenza sulle donne, appuntamento a cui partecipiamo con le nostre posizioni indipendenti e con la volontà di promuovere la costruzione di un movimento delle donne realmente radicale e di opposizione all’oppressione di genere e sessuale, così come di rottura con la proprietà privata come principio morale e organizzativo della società capitalista-patriarcale.



Note

(1) http://www.salute.gov.it/portale/news/p3_2_1_1_1.jsp?lingua=italiano&menu=notizie&p=dalministero&id=2083

(2) Emblematica in questo senso la locandina ufficiale della giornata Fertility day, in cui si invitano i cittadini ad evitare i “cattivi compagni” mostrando l’immagine di una famiglia 

mercoledì 14 settembre 2016

NO ALLA RIFORMA COSTITUZIONALE CHE PIACE AI CAPITALISTI



La riforma costituzionale promossa da Renzi ha un solo obiettivo: rafforzare il potere di chi già lo detiene.

Dal punto di vista democratico è un insulto. Nel suo incastro con la legge elettorale, può regalare a chi prende il 20% dei voti ,o poco più,  il 55% dei parlamentari dell'unica Camera su cui si appoggia il governo. Mentre  il Senato ( che resta) non verrebbe neppure eletto pur avendo poteri costituzionali. Sarebbe questa la “democrazia”? Saremmo di fronte alla massima concentrazione dei poteri nelle mani dell'uomo solo al comando. Non  “la riforma istituzionale finalmente realizzata che gli italiani attendono” come recita la propaganda di Renzi. Ma l'opposto: il peggiore completamento di quel corso istituzionale controriformatore che negli ultimi 25 anni ha rafforzato il potere di chi governa, ad ogni livello, nel nome della cosiddetta “governabilità”.

Ma cosa significa concretamente “governabilità”? Significa rendere ancora più forti e più “stabili” i governi che demoliscono  i diritti del lavoro, tagliano sanità e istruzione, alzano l'età pensionabile... E' un caso se Confindustria, le banche, il capitale finanziario europeo, sostengono entusiasti le ragioni del Sì, proprio nel nome della “governabilità”? Perchè i lavoratori, i precari, i disoccupati, dovrebbero sostenere e addirittura rafforzare una “governabilità” diretta contro di loro?

E' necessario che la classe lavoratrice e le sue organizzazioni promuovano una propria autonoma campagna unitaria per il NO al disegno di Renzi, Confindustria e banche.  Non basta il NO sussurrato e imbarazzato della direzione CGIL al solo scopo di salvare l'immagine. Occorre al contrario una battaglia vera che parta dalla denuncia della verità: un governo nemico dei lavoratori e del sindacato vuol dare traduzione istituzionale al proprio corso reazionario con una riforma costituzionale “bonapartista” a uso e consumo dei poteri forti . Per questo è necessaria una campagna capillare a sostegno del NO, che rilanci la battaglia democratica a partire dalla rivendicazione più elementare: una legge elettorale interamente proporzionale, ad ogni livello, che sancisca l'uguaglianza reale di ogni voto, e rappresentanze determinate dal consenso, senza trucchi “maggioritari”di alcun genere.

Ma una campagna chiara a sostegno del NO deve congiungersi al rilancio di una mobilitazione sociale di massa in tutto il paese. Ci sono 12 milioni di lavoratori in attesa di contratto, nel momento stesso in cui Federmeccanica rifiuta di firmare il contratto, e il governo destina spiccioli ai contratti pubblici. Non solo: siamo alla vigilia di una Legge di Stabilità che ancora una volta taglia le tasse ai profitti padronali ( IRES), nel mentre continua la stretta su sanità e pensioni. Cosa deve ancora accadere perchè si prepari finalmente uno sciopero generale vero, attorno ad una piattaforma di rivendicazioni unificanti che risponda unicamente alle ragioni del lavoro?

Ma c'è bisogno di definire una prospettiva politica indipendente del movimento operaio . Apertamente contrapposta al disegno bonapartista di Renzi, come al progetto lepenista di Salvini, come alla Repubblica plebiscitaria del milionario Grillo. Tutti progetti che in forme diverse  mirano a  dirottare la rabbia dei lavoratori contro “nemici” immaginari, per impedire che si rivolga contro il padronato. Solo un governo dei lavoratori, basato sulla loro forza e sulla loro organizzazione, può realizzare una vera “repubblica fondata sul lavoro”: rovesciando il potere dei capitalisti e concentrando nelle mani dei lavoratori le leve della produzione della ricchezza.

Il PCL si batte in ogni lotta per questa prospettiva. L'unica vera alternativa.



PARTITO COMUNISTA DEI LAVORATORI

domenica 11 settembre 2016

A QUARANTATRÉ ANNI DAL GOLPE DI PINOCHET UN 11 SETTEMBRE DIMENTICATO



Quarantatré anni  fa, un colpo di stato militare rovescia il presidente Salvador Allende. La borghesia cilena e l’imperialismo nordamericano pongono così fine al governo di Unidad Popular e istaurano una feroce dittatura militare. La giunta che prende il potere è guidata dal generale Augusto Pinochet che presiede un direttorio formato dai capi di stato maggiore delle diverse forze armate. Dall’11 settembre in poi le esecuzioni sommarie, l’uso sistematico della tortura e l’internamento degli arrestati scandiscono drammaticamente la vita del paese latinoamericano. Il movimento operaio è sradicato, la sua avanguardia annichilita, e ogni espressione di sinistra viene cancellata e duramente repressa. Mentre il terrore si diffonde nel paese andino, i circoli dominanti di Washington, che hanno ispirato e sostenuto il pronunciamento militare, esprimono sollievo per lo scampato pericolo. Spaventati dall’ascesa delle lotte e della combattività operaia temevano che in Cile si sviluppasse una dinamica rivoluzionaria. All’indomani del golpe, la stessa Democrazia cristiana cilena, che per tutta una fase aveva giocato un ruolo ambivalente, fa appello “al patriottico senso di cooperazione di tutti i settori con la giunta”. (1)
L’Unidad Popular
Il governo Allende nasce a seguito della vittoria di stretta misura riportata nelle elezioni del settembre 1970. La coalizione che lo sostiene propugna la “via pacifica al socialismo” e si rifà al modello del fronte popolare, come unione tra forze del movimento operaio e settori della cosiddetta borghesia progressista. Due sono gli intenti che lo muovono: modernizzare il paese e avviare delle profonde riforme nel campo socio-economico. Propone una politica di riformismo radicale: ridurre il potere delle compagnie multinazionali, interrompere il flusso delle ricchezze verso l’esterno, spezzare il monopolio e il latifondo. Da subito deve fare i conti con il fatto che il parlamento, l’apparato giudiziario e buona parte dell’amministrazione dello stato non sono sotto il suo controllo. Ciononostante una parte di questo programma viene realizzato. Istituisce un ampio settore di imprese pubbliche, mentre alcuni importanti comparti (minerario, bancario e telefonico) sono nazionalizzati dietro un congruo indennizzo versato ai proprietari. Nel corso del 1972 si aggravano le tensioni sociali. L’aggressione nordamericana si approfondisce. Nixon pone fine ad ogni assistenza economica e si attiva per far crollare le quotazioni del prezzo mondiale del rame. “Make the economy scream” è l’obiettivo che si pone l’amministrazione repubblicana. In questo quadro la destra cilena soffia sul fuoco organizzando scioperi e proteste contro il governo socialista. Paradossalmente la borghesia utilizza i metodi della classe operaia. Entra in sciopero trascinando con sé una parte consistente dei ceti medi. È uno sciopero guidato dall’alto e finanziato dai dollari nordamericani. Il paese viene bloccato per intere settimane. Prima i camionisti, con una spettacolare serrata, e poi i commercianti, i piloti, gli ingegneri e i medici fanno precipitare il paese nel caos. Mentre Unidad Popular ricerca invano un accordo con la Dc, sono i lavoratori a reagire. Costituiscono strutture di potere popolare - i cordones industriali - che occupano le fabbriche, fanno ripartire la produzione, assicurano i rifornimenti. Questi organismi, basati sulla forza e sull’autorganizzazione dei lavoratori, sono fondamentali nel vanificare il moto reazionario che lo sciopero padronale aveva innescato. Nati come espressione della volontà della base operaia di contrastare l’attacco padronale, questi organismi unitari rappresentano il nucleo costitutivo di una nuova istituzione: quella dei consigli dei lavoratori, che esercitando la democrazia diretta iniziano a costruire una nuova organizzazione del potere politico, alternativo e contrapposto a quello borghese. Il governo di Allende tenta in ogni modo di frenare e controllare il movimento delle masse che si è messo in moto. In alcuni casi lo reprime. Rispetto alla polarizzazione sociale determinata dallo scontro tra borghesia e proletariato, Unidad Popular tenta di salvare capra e cavoli. Non rompe con la propria base sociale ma ricerca con forza un accordo con le classi dominanti. Confidando nella neutralità dell’esercito cileno, consegna ai militari tre importanti ministeri del proprio governo. Agli inizi del 1973 è già chiaro l’epilogo, mentre si rinnovano le manovre reazionarie, segnate dal sabotaggio economico, da nuove serrate corporative e dal sempre più evidente lavorio golpista dei generali; il governo di sinistra è titubante, incerto e arrendevole. Malgrado le minacce sempre più pressanti di un colpo di stato, il governo di Allende si attesta su una linea legalitaria e rinuncia a tentare di golpear el golpe, opponendosi all’ipotesi di armare il popolo, come chiede il Movimento della Sinistra Rivoluzionaria (MIR).
L’eco del golpe in Italia.
Il colpo di stato dell’11 settembre 1973 è quello che più colpisce nel profondo un’intera generazione di militanti della sinistra. Di fronte alla tragedia cilena tutta la sinistra italiana è obbligata a ripensare la propria strategia. Ma la riflessione conduce ad approdi differenti. Il Pci, che attribuisce la sconfitta del governo di Allende ad un insufficiente consenso e a un mancato rapporto unitario tra le forze politiche cilene, vira deciso verso la svolta governativa. Proprio in quel frangente, Berlinguer formula per la prima volta la proposta di un compromesso storico con la Dc. Profonda è la divergenza tra il Pci e le forze si collocano alla sua sinistra. Il Manifesto - allora gruppo politico di una certa consistenza - insiste sul problema della disgregazione dei ceti medi e dell’egemonia su di essi. Evidenziando il legame tra la Dc cilena e quella italiana e indicando nel partito di Fanfani il nemico che la sinistra unita deve battere in Italia, attacca il tatticismo di Berlinguer e la sua strategia compromissoria. Le altre organizzazioni della nuova sinistra (Avanguardia Operaia e Lotta Continua) pur traendo conclusioni differenti sono concordi nel sottolineare i limiti e le ambiguità di Unidad Popular e nel criticare con forza quella via pacifica al socialismo che le forze riformiste propugnano. Soprattutto rimarcano l’incapacità del governo di Allende di affrontare il problema dell’inevitabile reazione violenta dello stato e dei suoi apparati militari, allorquando le classi dominanti si sentono minacciate dalla lotta di classe e temono di venire spodestate.
Il Cile come laboratorio
Negli anni della dittatura il regime attua un programma di trasformazione radicale dell’economia. Garantito dal terrore di Pinochet, il Cile diventa il primo laboratorio delle idee della scuola neoliberista dei Chicago Boys. Abolizione di ogni forma di diritto sindacale, smantellamento delle garanzie di previdenza sociale, messa al bando del codice di regolamentazione del lavoro sono le cifre distintive dell’operato degli allievi di Milton Friedman. Gran parte delle imprese vengono privatizzate mentre le terre distribuite ai contadini dalla riforma agraria sono requisite. Il nuovo dogma diventa il riequilibrio del bilancio statale, mentre la liberalizzazione dei tassi d’interesse e l’apertura delle frontiere favoriscono l’afflusso dei capitali e i prestiti finanziari degli organismi internazionali. Il costo sociale di questa politica è esorbitante: crescita della povertà e disoccupazione di massa. Come ha scritto il sociologo Tomàs Moulian il Cile si è trasformato man mano nel laboratorio sterile e nel paradiso del neoliberismo: paradiso per pochi, limbo consumista e indebitatore per altri, e inferno per buona parte della popolazione. Un paradiso guardato da arcangeli ben armati e senza scrupoli morali”. Per questo il premio Nobel per l’economia assegnato a Friedman nel 1976 rappresenta un presagio che annuncia una nuova era. Infatti, di lì a poco tempo, l’esperimento condotto nel laboratorio cileno verrà in forme diverse gradualmente applicato in tutto il mondo.

1) Sulla vicenda cilena si rimanda al saggio di Tiziano Bagarolo pubblicato sul secondo numero della rivista Marxismo Rivoluzionario e oggi disponibile in opuscolo presso le sedi del PCL.


Piero Nobili
PARTITO COMUNISTA DEI LAVORATORI